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CATER
di Alessio Iarrera
Pubblicato su PBSI2008


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– I gatti… alla fine la colpa è sempre dei gatti…
Cater parlava piano. Sapeva che a quell’ora la dottoressa Gelati faceva il giro del reparto e io non avrei dovuto essere sveglia.
– Ma Federico sta facendomi fare di nuovo tutti gli esami. Povero fratellino, si preoccupa molto per me. Dopo che la nostra cara mamma è morta in un incidente automobilistico per colpa di un gatto è lui adesso a prendermi gl’appuntamenti dai medici, a portarmi alle terapie e alle visite specialistiche. E adesso la dottoressa Gelati è sempre qui con me.
– Prende tempo. Lo sai che prende tempo. – a Cater piaceva approfondire le cose. Lei aveva il sesto senso e per questo io l’amavo. E poi Cater non avrebbe mai preso le anfetamine o l’LSD per esempio, e soprattutto non mi avrebbe mai regalato un gatto. Perciò era ora che ascoltassi le sue parole una buona volta.
– Angela, lo sai che non stai bene. – sussurrò lei – Mi dispiace se te la prendi, ma quella cosa dei gatti è una tua fissazione. E’ una malattia e comunque te ne saresti accorta anche da sola, prima o poi. Quindi, è meglio che te lo dica io.
– Che cosa stai dicendo, Cater?
– Uffa, sto parlando di Federico, che dorme sempre qui accanto alla tua camera tutte le notti! E della dottoressa Gelati. Loro non pensano che stai migliorando anzi, non vogliono affatto che tu migliori.
– Oh, ma loro sono… Cater, non puoi dirmi questo…
– Ascoltami bene, ora! Non essere stupida! Pensi che ti abbiano mandato in quest’ospedale solo perché dovevi essere curata? E’ da quando hai avuto a che fare coi gatti che ti stanno curando. E adesso la cura è finita. Insomma, sei guarita no? E allora dovresti essere fuori da qui. Invece la dottoressa Gelati passa ogni giorno nella tua camera e tuo fratello Federico ti tiene ancora chiusa qui dentro.
Ero rimasta a bocca aperta. Avevo voglia di piangere ma non feci altro che abbassare la testa perché nel cuore sapevo che Cater, come al solito, aveva ragione.
– Tu trova il modo d’uscire di qui – disse Cater – vedrai come la dottoressa Gelati ti corre subito dietro con tutto il reparto per legarti al letto. E io non mi lascio fregare dai suoi referti medici. Tu sei sanissima… ti sei vista, almeno? Le tue occhiaie sono sparite! Dovresti ritornare in mezzo alla gente, trovare un bel ragazzo e innamorarti…
– Ma io non ho mai avuto un ragazzo. – le rammentai. – Non potrò mai averlo… un ragazzo…
– E’ la solita palla che ti raccontano i dottori. – disse Cater, facendomi un sorrisetto. – Anche Federico ti ha detto un sacco di bugie. Sei bellissima, Angela! Potresti avere tutti gli uomini che vuoi! Se solo ti conoscessero, non si farebbero mai scappare una bella ragazza come te. Ma Federico non vuole che tu abbia dei corteggiatori. Ti hanno perfino inviato dei bigliettini d’amore dolcissimi ma tuo fratello e la dottoressa Gelati li hanno buttati nella pattumiera.
– Sul serio? Li hanno buttati via sul serio?
– Ma sicuro. E poi lo sai benissimo cosa vogliono loro. Vogliono farti credere che sei malata. Così possono sposarsi e vivere con l’eredità della tua povera mamma mentre tu resti tutta la vita rinchiusa qui dentro…
– Fa che non sia vero! – cominciai a tremare. Non riuscivo più a trattenermi. Era terribile. La dottoressa Gelati mi aveva detto che se seguivo la terapia non avrei mai più avuto le allucinazioni, i tremori e le altre conseguenze. Eppure, adesso stavo tremando.
– Lo sai cosa mettono nel purè e nell’acqua che bevi? – continuò Cater – Vuoi che ti dica se Federico e la dottoressa Gelati si vedono di nascosto?
– Basta! – gridai.
– Non urlare così, scema! Non vedi l’ora che la dottoressa venga nella tua stanza con la siringa pronta e ti faccia un altro buco nel braccio? Oggi sei stata fortunata che ti ha dato la pillola di tranquillante…
– E’ vero, adesso la dottoressa pensa che stia dormendo…
– E se non c’ero io a dirti di non inghiottire quella schifezza – Cater mi guardò con espressione di rimprovero. – ora tu saresti davvero nel mondo dei sogni. Devi andare via da qui, Angela. Subito, adesso, altrimenti sarà troppo tardi per farlo…
Aveva buon senso, il rischio che mi rinchiudessero per tutta la vita poteva essere imminente. Dovevo andarmene dall’ospedale al più presto… da troppo tempo non prendevo le anfetamine.
– Scappiamocene via. – continuò Cater. – Andiamo in un ostello per un po’, magari in una baraccopoli. Nella periferia ce ne sono così tante che non ci troverebbero mai. Penserò io a farti star bene.
– Ma la periferia è lontana.
– Non importa. Faremo l’autostop o prenderemo l’autobus.
– Non abbiamo soldi.
– Li troveremo, piccola. Stai tranquilla. Fidati di me.
Sì, di Cater potevo solo aver fiducia. Era vero che, in fondo, era a causa dell’incidente della mamma che avevo cominciato con le anfetamine. Quel gattaccio maledetto. E un po’ la colpa era anche di Cater, se avevo iniziato a stare male. Ma Cater aveva sempre cercato di aiutarmi. E io avevo bisogno del suo aiuto. Quindi, non potevo che fidarmi di lei.
– Scapperemo questa notte, non appena la dottoressa Gelati sarà andata via – suggerì Cater. – Attenderemo che Federico si metta a russare nella stanza accanto alla tua, va bene? Ora mettiti a dormire che più tardi ti sveglio…
Mi sdraiai sul letto e chiusi gli occhi. Il sonno non si fece attendere perché ero tranquilla. Non dormivo così da mesi, da quando avevo cominciato ad avercela coi gatti. Per la prima volta dormivo senza aver bisogno di medicine ed ero serena perché sapevo che Cater mi avrebbe svegliato all’ora giusta.



Quando riaprii gli occhi, tremavo dalla testa ai piedi. Cater mi scuoteva le spalle nella stanza buia. Osservai le pareti e vidi che la porta dell’ingresso era aperta, ma Cater non parlava più a bassa voce.
– Prendi poca roba con te… solo le cose che ti servono…
Indossai il vestito che mi aveva regalato la mamma per il mio ventiquattresimo compleanno, quello nero con lo spacco. Facevo fatica a metterlo perché tremavo ma Cater mi aiutò allacciando la lampo dietro. Mi misi anche il rossetto e la cipria. Poi mi fermai i capelli con una spilletta d’argento a forma di pesce. Mi spezzai un’unghia per aprire il fermaglio e l’ago sottile, entrando nella carne, mi fece quasi urlare dal dolore. Ma non era niente rispetto al dolore che provavo per quello che mi avevano fatto Federico e la dottoressa Gelati. Era un dolore interno, profondo. Qualcosa s’era rotto dentro di me dal giorno che lui voleva rinchiudermi in manicomio per scoparsi la dottoressa Gelati sul letto di mia madre e deridermi per come ero stata ingenua a credere alle loro bugie. Dalla rabbia mi strappai la spilla a forma di pesce dai capelli e me la ficcai in tasca.
– E’ una buona idea, stai molto meglio senza quell’orrendo fermaglio. – disse Cater. – Anzi, dammelo che lo butto via.
Le consegnai il pesce d’argento con un sorriso. Lei si prendeva sempre cura di me perché aveva la capacità di ragionare.
– Andiamo.
– Ma perché tieni quella spilla in mano? – chiesi.
– Ah, questa? Scusami, volevo buttarla via. Invece adesso me la tengo io. Me la metto nei miei capelli, così? Non ti sembro buffa?
Risi. Cater sapeva sempre farmi ridere.
– Andiamo via, adesso. Non so quando torna la dottoressa Gelati, quindi dobbiamo muoverci, Angela. Federico sta dormendo della grossa.
– Non sento il suo russare.
– Che stupida sei, Angela! Ho chiuso la porta della stanza di tuo fratello mentre dormivi.
Io e Cater andammo nella camera di Federico per controllare che dormisse. Poi uscimmo nel corridoio ma non passammo per l’ingresso principale, no. Cater aveva visto la porta dell’uscita di sicurezza con il maniglione antipanico e fu lei a guidarmi lungo la rampa delle scale antincendio.
– Mentre dormivi ho prelevato un po’ di soldi dal portafogli di tuo fratello. – disse Cater.
I lampioni della strada riuscivano a malapena a illuminare l’asfalto ma Cater mi spronò a correre. Dovevamo allontanarci prima dell’arrivo della dottoressa Gelati, prima che fosse scattato l’allarme. E corremmo più lontano possibile dall’ospedale finché non ci arrestammo, esauste, alla fermata dell’autobus 18. Ce l’avevamo fatta ma la fuga non era ancora finita e io avevo ricominciato a tremare.
– Angela, smettila per favore! – sbottò Cater.
– Ma non riesco a smettere! Dove andiamo adesso? Dove andiamo? Ho paura…
– Accidenti, non ti sapevo così fifona… aspetta… – Cater mise la mano nella tasca della mia gonna e tirò fuori un pacchettino. – Tieni e sta zitta adesso!
Scartai la confezione e quasi gridai dalla gioia.
– Anfetamine! Come hai fatto a trovarle?
– Oh, non è stato difficile! Nello studio della dottoressa Gelati ci sono tante scatole di questo tipo. E’ bastato guardare l’elenco dei medicinali e rompere il vetro dell’armadietto. Te le ho messe nella tasca del vestito per farti una sorpresa. Tutto qui.
– Grazie, Cater!
Mi tremava la mano ma il pacchetto riuscii ad aprirlo. Presi due capsule rosse e le feci sciogliere in gola. Il loro sapore mi riempì di letizia, di benessere. Da quanto tempo non sentivo quel gusto e non trovavo quella tranquillità nel mio cervello?
– Esagerata! Ne bastava una! – disse Cater, sorridendo.
– Zitta ti prego. – le risposi, con dolcezza. – Tu sapevi. Sapevi che ne avevo bisogno. Lasciami godere questo momento, adesso.
– Uffa, lo sai che non voglio che ti droghi. – protestò Cater. – Io non ho bisogno di drogarmi per essere lucida e non mi piace vederti star male senza quelle capsule!
– Non posso farne a meno, lo sai.
– Dovresti prenderne poche, non tutte insieme. E mi piacerebbe sapere perché non sei capace di controllare le tue crisi! La tua mania dei gatti!
– Lascia che ne prenda altre due, ti prego. Sono soltanto due compresse.
Mi cacciai in gola altre due pastiglie e Cater mi guardò di traverso.
– Sto cercando di tirarti fuori dai guai, Angela. Se non la smetti di drogarti io ti lascio qui e ti arrangi!
La sua voce mi lasciò a bocca aperta.
– Non abbandonarmi, Cater. Smetterò, te lo prometto. Ho bisogno del tuo aiuto però. Fino a quando non starò bene.
– Ah, sì! – rise lei. – Quando starai bene, dici! E intanto il pacchetto è quasi vuoto! Io mi preoccupo per te e tu cosa fai? Pensi solo a farti di acido. E quando sei fatta pensi ai gatti! Non pensi a me che ti ho fatta uscire dall’ospedale, che ti ho salvato da tuo fratello e dalla dottoressa Gelati.
Arrivò l’autobus e salimmo. Ci sedemmo nell’ultimo sedile accanto alla portiera. L’autista era insonnolito. Era l’alba e doveva essersi svegliato da poco. Ci guardava dallo specchietto retrovisore dell’abitacolo ma vidi che i suoi occhi prima quasi chiusi dal sonno, si spalancarono e si affrettò a comporre un numero di telefono dalla centralina.
– Tu sei l’unica amica che ho. – dissi a Cater.
– Non fare la vittima!
Se Cater si arrabbiava era capace di insultarmi o peggio, di picchiarmi. Adesso era furiosa. Era così arrabbiata che ripresi a tremare. Così mi cacciai in gola altre due pastiglie.
– Io ti servo solo per ripulire i tuoi casini. Ti servo e basta. Ti servo quando devi sfogarti con qualcuno e nessuno ti ascolta. Quando devi lamentarti dei gatti. Quando devo raccontare bugie per salvarti. Ma nessuno pensa a me. Tuo fratello e la dottoressa Gelati non pensano a me. Non pensano che anch’io potrei avere il fidanzato e una vita mia. L’amore. No, io sono soltanto una serva. La tua serva. E dove sono le soddisfazioni? Non riesco nemmeno a farti smettere di prendere quelle dannate pastiglie! Tutto questo lavoro per niente! Tu non hai idea di cosa abbia fatto per te stanotte. E tutti questi anni insieme? Ma adesso mi sono proprio stufata, Angela. Resta pure con la tua droga e i tuoi gatti! Io me ne vado!
Cominciai a piangere quando lei si alzò e percorse il corridoio dell’autobus. Poi uscì dalla portiera quando l’autista si fermò. Senza guardarmi in viso, come se non mi conoscesse. Io cercai di correrle dietro ma mi mancavano le forze. I sedili vuoti mi giravano attorno come se fossi seduta su una giostra. Allora il pacchetto vuoto mi cadde sul sedile e io crollai picchiando la testa contro il finestrino.



Quando ripresi conoscenza, erano tutti lì davanti a me. L’autista, il poliziotto e la dottoressa Gelati. Mi faceva male la testa nel punto dove avevo picchiato contro il vetro. Usciva anche un po’ di sangue dalla ferita e mi ero sporcata il vestito che mi aveva regalato la mamma. Mi chiesi se Cater non fosse andata di proposito dalla polizia ma quando glielo domandai, la dottoressa Gelati mi disse di no. Mi avevano preso sull’autobus dopo che avevano ricevuto la telefonata dell’autista e avevano trovato il corpo di Federico a letto con un piccolo foro sul torace e molto sangue sul lenzuolo.
Allora immaginai quello che mi aveva fatto Cater, con rammarico. Anche lei alla fine era diventata infida come i gatti. Mi aveva lasciato sull’autobus perché sapeva che mi avrebbero preso e accusata dell’omicidio di mio fratello.
Così dissi tutto alla dottoressa Gelati e alla polizia. Ma l’autista e la dottoressa sostennero che non avevano visto nessuna Caterina che sedeva accanto a me sull’autobus e che il sedile accanto al mio era vuoto. Il poliziotto si mise a ridere quando, in lacrime, lo pregai di trovare Cater e di farle dire tutta la verità. Soltanto la dottoressa sembrò capire il mio sfogo e i miei singhiozzi. Quando restammo sole nella stanza mi chiese tutto di lei, quanti anni aveva, l’aspetto che aveva e le sue idee di fuga dall’ospedale. Io risposi a tutte le domande. Allora la dottoressa mi portò davanti allo specchio della stanza degli interrogatori e mi chiese se potevo indicarla.
Ma certo che potevo farlo…
Puntai il dito verso lo specchio e anche Cater m’indicò. I suoi capelli erano sporchi del sangue rappreso che era uscito dal fermaglio a forma di pesce. Ma adesso l’ago s’era rotto e la spilla cadeva malamente di lato, impigliandosi tra i suoi numerosi ricci lunghi. E lei se ne stava in piedi davanti a me e miagolava.
– Miaooo… miaooo… miaooo…
Dissi alla dottoressa Gelati che era nello specchio e lei mi rispose che adesso aveva capito.
Era meglio così, in fondo. Anche se avevo ripreso a tremare. Cater non mi aveva mai abbandonata e ora che ci eravamo ritrovate non ci saremo mai più perse di vista. Era felice di rivedermi e anch’io sorrisi. Il cuore mi batteva forte. Ero contenta! Contenta! Sapevo che Cater mi amava. Anche se odiavo i gatti che avevano ucciso mia madre lei c’era, lei c’era sempre stata. Dopo qualche minuto cominciai a miagolare anch’io. Poi tutte due ci mettemmo a ridere e a miagolare. Non ci fermammo neppure quando la dottoressa Gelati uscì dalla stanza. E rimanemmo contro le sbarre della cella d’isolamento, io e Cater, miagolando e facendoci le fusa come due gatte in amore.

© Alessio Iarrera





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