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“Prego per un ultimo atterraggio Sul pianeta che mi ha dato i natali Lascia che riposi i miei occhi sui cieli E le fresche, rosse colline della Terra” Rhysling, il cantore cieco Mukebe lottava contro il mostro, era uno degli uomini che lottavano contro il mostro per un’estensione di migliaia di chilometri. Il mostro continuava ad avanzare lentamente, con cieca, implacabile ferocia; non aveva artigli, zanne, rostri, non ne aveva bisogno, il suo corpo era costituito da miliardi di minutissimi granelli. Il grande mostro si spingeva ogni anno più a sud, ed ogni anno teneva in suo possesso più a lungo la sottile fascia di vita precaria, il Sahel, che lo separava dalle vaste giungle tropicali, il grande mostro che gli uomini chiamano Sahara. Quella mattina Mukebe si era messo al lavoro con la fatalistica rassegnazione di chi sa di combattere una battaglia perduta. Controllò la barriera malandata che proteggeva la terra inaridita del suo orticello dal mare di sabbia circostante, e guardò le sue magre colture, le foglie ingiallite delle zucchine e dei peperoni; aveva poca acqua, appena mezzo otre, e la sua famiglia doveva pur bere. Ogni anno la stagione secca durava più a lungo, ogni anno le piogge tardavano di più, e anno dopo anno la gente di Mukebe doveva scendere per più tempo a meridione, verso il golfo di Guinea, a vivere la disperazione dei nomadi e dei diseredati, senza sapere se e quando le piogge fossero finalmente tornate, le loro terre si sarebbero potute recuperare o sarebbero state invase definitivamente dalle sabbie. Mukebe vide qualcosa di strano fra i solchi screpolati e si chinò per guardare meglio. In un angolo erano germogliate delle piantine, piante di un tipo che Mukebe non aveva mai visto, piantine non più alte di cinque o sei centimetri da terra, dallo stelo carnoso e strane foglie lanuginose, ma la cosa più buffa era che non erano verdi ma di uno strano colore rosso - aranciato; sulla sommità di ogni stelo c’era una grossa bacca biancastra. Mukebe staccò una bacca e provò ad assaggiarla, trovò che il gusto era accettabile, e stette bene attento a salvare i piccoli semi che gli finivano fra i denti. Il giorno dopo Mukebe portò da mangiare alla sua famiglia le bacche biancastre, erano stranamente sostanziose, riempivano lo stomaco e toglievano la fame a lungo. Le piantine crescevano in fretta e sembravano cavarsela bene anche senza acqua, erano straordinariamente robuste e mettevano radici anche tra le dune di sabbia. Se Mukebe fosse stato un uomo bianco, forse avrebbe cercato di portare la stampa nel suo orto, e mostrare agli scienziati le strane piantine che vi crescevano, ma Mukebe non era un uomo bianco, era un uomo del Sahel abituato ad accettare come tali i misteri della vita, ed a sfruttare senza pensarci troppo ogni occasione che potesse aiutarlo nella lotta per la sopravvivenza. Quell’anno la famiglia di Mukebe non migrò a sud, e l’anno dopo la tribù di Mukebe non migrò al sud. Rick Holstone fissò il professor Davis comodamente disteso sulla poltrona del suo studio, poi spostò la sua attenzione al quadro che si trovava alle spalle dello studioso. Il dipinto raffigurava un paesaggio del Montana: in primo piano si vedeva l’erba novella di un prato, di un rosso delicato quasi roseo, picchiettato qua e là dal verde delle corolle dei fiori, mentre sullo sfondo vi erano le colline ricoperte dal rosso cupo, violaceo delle conifere. Rick Holstone sapeva che il professore era molto fiero di provenire da una famiglia di solide origini contadine. “Professore”, esordì Rick, “Vorrebbe dare ai nostri lettori qualche anticipazione circa il suo libro sull’epoca del Grande Cambiamento?” “Senz’altro, giovanotto. Il suo registratore è acceso?”, chiese il professor Davis. “Si, certamente, può iniziare”. “Bene, allora, è opinione generalmente accettata che il Grande Cambiamento sia iniziato in Africa verso la metà del XXI secolo, in qualche punto compreso fra il golfo di Guinea e quella che oggi è la Grande Foresta del Sahara. Secondo la mia ipotesi, tutto è iniziato a causa di qualche seme, forse di un singolo seme proveniente dal pianeta Marte”. “Ma Marte”, l’interruppe il giornalista, “non era un mondo privo di vita prima della sua recente colonizzazione?” “Si, ma lei sa che su Marte sono state trovate le tracce di un’antica presenza della vita, ed i semi possono conservarsi per migliaia di anni mantenendo la loro capacità germinativa, ed attecchire se le circostanze tornano ad essere favorevoli. Quel seme o quei semi possono essere giunti sulla Terra in molti modi, per esempio su di un frammento di meteorite, ma molto più probabilmente in qualche incavo od in qualche rientranza della superficie di un’astronave o di una navetta automatica, da cui si sarebbero potuti staccare durante l’orbita di rientro nell’atmosfera terrestre, andando a finire sul continente africano”. “D’accordo”, disse Rick, “Vuole ora spiegare ai nostri lettori perché queste piante germogliate in un ambiente così diverso da quello da cui sarebbero originarie, si sono rivelate così competitive rispetto alle antiche piante verdi terrestri. Se non sbaglio, è questo il punto più originale della sua teoria”. “Difatti è così. Non bisogna dimenticare che man mano che le condizioni ambientali su Marte si facevano più difficili negli ultimi millenni prima dell’estinzione della vita, queste piante hanno subito una fortissima pressione selettiva che ha permesso solo la sopravvivenza degli esemplari più robusti e resistenti; inoltre, questi semi sono caduti proprio in una zona della Terra in cui allora era in corso una situazione di progressivo inaridimento che metteva in seria difficoltà la flora e la fauna locali, mentre le piante marziane erano abituate da decine di millenni a cavarsela con pochissima acqua. Oltre a ciò, però, c’è un’altra ragione connessa alla struttura stessa della vita sul nostro pianeta: le piante verdi avevano in comune con i batteri la caratteristica di essere rimaste fedeli ad un metabolismo anaerobico quale si era formato sulla Terra prima della comparsa di un’atmosfera ricca di ossigeno, cioè un metabolismo a bassa energia. La sintesi clorofilliana era sostanzialmente un metabolismo anaerobico che produceva ossigeno, la molecola O2, come prodotto di scarto. Le piante terrestri hanno sviluppato in seguito dei pigmenti capaci di sfruttare le reazioni ad alta energia basate sull’ossigeno come il carotene, ma il sistema basato sulla clorofilla era troppo radicato nella struttura delle piante terrestri per essere abbandonato; le piante di origine marziana, invece, non hanno mai avuto limitazioni di questo tipo, hanno sempre utilizzato solo il carotene”: “Chiedo scusa, professore”, chiese Rick Holstone, “ma come hanno potuto le piante marziane soppiantare tanto rapidamente l’antica vegetazione terrestre, e diversificarsi in modo ancora più sorprendente in un numero enorme di specie? E’ a questo punto, se non erro, che si situa la sua scoperta più interessante”. “Infatti, giovanotto”, disse il professor Davis, “Ed è proprio questo che ci consente di valutare la portata reale del Grande Cambiamento. Le ricordo quelle che sono le regole più elementari degli ecosistemi biologici: le piante, utilizzando la luce, trasformano le molecole inorganiche elementari in aminoacidi, che sono i componenti delle proteine, e quindi in definitiva i “mattoni” dei tessuti e degli organismo viventi. Gli animali si nutrono di piante o di altri animali che a loro volta sono erbivori. Quando un animale muore, quello che non viene divorato da altri animali si decompone, i suoi aminoacidi vengono cioè assimilati dai batteri, entrano nell’humus del terreno, sono riassorbiti dalle piante. Gli aminoacidi prodotti dalle piante di origine marziana sono ormai entrati nel circolo della vita del nostro pianeta, e sono ormai i componenti di tutta la flora e di tutta la fauna terrestri. Le piante che oggi noi vediamo nei nostri boschi e nei nostri prati, non sono perlopiù i discendenti di quei primi organismi “marziani”, ma piante di origine terrestre che sono “costruite con mattoni marziani”, e questo comporta ovviamente delle differenze. C’è motivo di pensare che gli aminoacidi delle antiche piante terrestri fossero chimicamente simili a quelli attuali, ma mentre oggi gli aminoacidi sono destrogiri, hanno cioè la proprietà di far ruotare verso destra il piano della luce polarizzata, da antichi trattati di chimica anteriori alla metà del XXI secolo, sembra che avvenisse il contrario, che gli aminoacidi allora fossero levogiri, cioè facessero ruotare il piano della luce polarizzata verso sinistra”. S’interruppe. Rick Holstone aveva ancora una domanda che gli prudeva sulla punta della lingua, ma quasi non osava farla. “E gli animali?”, chiese, “E gli esseri umani? Sono anch’essi composti di aminoacidi, come le piante. Fino a che punto sono cambiati? Fino a che punto siamo cambiati noi stessi dall’epoca del Grande Cambiamento?” Il professor Davis lo guardò fisso negli occhi. “Amico mio”, rispose, “Questa è una domanda che mi sono posto spesso, eppure, le sembrerà strano, ma questa è una domanda rispondere alla quale è meno facile di quel che si potrebbe pensare. A quell’epoca vi furono grandi sconvolgimenti ambientali, sociali, demografici e geopolitici. Le regioni della Foresta del Sahel e della Grande Foresta sahariana, che oggi sono le più fertili del pianeta, erano allora le più povere. Sembra strano dirlo, ma Paesi come il Ciad, il Senegal, la Nigeria che oggi dominano l’economia mondiale, erano nazioni povere ed arretrate, e la civiltà del pianeta era guidata dall’America del nord e dall’Europa. Un mondo è scomparso ed ha lasciato dietro di sé ben poche tracce. Certamente siamo cambiati, ma per sapere fino a che punto, dovremmo avere maggiori informazioni su come erano i nostri antenati. Però c’è un indizio molto interessante che è stato ritrovato negli archivi di una compagnia di assicurazioni. Il capitano di una nave da carico battente bandiera panamense che però apparteneva ad una società armatrice tedesca, aveva inviato un preoccupato telegramma da Dakar alla società armatrice di Amburgo, dicendo di aver osservato nel porto di Dakar “dei nativi verdi”. Dire “africani verdi” è come dire “acqua bagnata”, è ovvio, gli Africani sono verdi, ma lo stupore di questo capitano sarebbe stato pienamente giustificato se prima del Grande Cambiamento non fosse stato così. Naturalmente non sappiamo di che colore fossero gli Africani prima di allora. Ad ogni modo, troverà un’analisi più approfondita di queste questioni nel mio libro di prossima pubblicazione”. “Grazie, professore, credo che per ora sia tutto”. Il giornalista uscì. Il professor Davis rimase da solo a pensare. Com’erano gli uomin prima del Grande Cambiamento? Se l’era chiesto spesso, ed era una domanda senza risposta. Il mondo antico era stato un incubo orrendo: fame, arretratezza, miseria per gran parte dell’umanità; guerre, dittature, ingiustizie. La scarsa redditività delle piante terrestri e l’ineguale distribuzione delle risorse ne erano state le cause remote. Il Grande Cambiamento aveva bruscamente posto rimedio ad entrambe, non era importante quanto esso avesse fisicamente mutato l’umanità: il vero mondo umano era il loro, la vera umanità era la presente, di questo era certo. In quel momento entrò nello studio Bobo, il suo cane. Il professore prese Bobo e se lo pose sulle ginocchia, cominciando a grattargli metodicamente i pedicelli ambulacrali. La bestiola stiracchiò voluttuosamente le sei zampette articolate ricoperte di chitina, ammiccando alternativamente con gli ocelli e con gli occhi composti. Il professor Davis si grattò perplesso le antenne con il palpo destro. C’era quella domanda che continuava a ronzargli insistente nel cervello: “Fino a che punto siamo diversi dai nostri antenati?”
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Fabio Calabrese
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