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Oggi sono andato fino alla Voragine: è un immenso solco nella terra dalle pareti così ripide da rendere impossibile la discesa, che sprofonda nella terra oltre quanto l’occhio riesce a seguire. La Voragine divide due mondi: di qua, dalla nostra parte, la terra è arida e screpolata, crescono solo erbe rade, irregolari, ed il sole picchia implacabile, di là, subito oltre l’orlo c’è un’immensa distesa di grandi alberi dalle fronde lussureggianti in cui lo sguardo si smarrisce, e si sentono i canti ed i richiami di un gran numero di uccelli di diverse specie; ci dev’essere frescura sotto quelle fronde, e trovare il cibo non dev’essere difficile: il paradiso dal quale siamo stati esclusi.
Ho girato le spalle alla Voragine. I rimpianti non aiutano molto, purtroppo la nostra realtà è questa, questa terra screpolata, le erbe giallastre sotto la vampa del sole, gli ultimi radi alberi sempre più avari di frutti e di semi commestibili, e che offrono sempre meno riparo dai predatori. La morte arriva sempre più rapida e gli avvoltoi che sorvolano incessanti la pianura sono i nostri compagni di sempre. Siamo in pochi, ed ogni giorno siamo in meno. Quando ci risvegliamo al mattino, ci contiamo con apprensione, e scopriamo che la fame e lo sfinimento hanno ucciso un anziano od un piccolo, oppure che un leopardo ha portato via qualche nostro compagno.
Ritornando verso il luogo dove la tribù ha trascorso la notte, sono passato dal vecchio saggio Uhtra, il più anziano di tutti noi: era ancora disteso sul giaciglio di frasche dove aveva passato la notte, sebbene il sole fosse già alto.
“Padre”, gli ho chiesto, anche se temevo di sapere già le risposte che mi avrebbe dato, “Perché ci accade tutto questo, Perché?”
Non sono affatto sicuro che proprio Uhtra sia mio padre, ma non manco mai di rivolgermi così agli anziani.
“Ebbene, figliolo, non lo sai?”, mi risponde, “Siamo maledetti, sulla nostra stirpe grava una maledizione, il Grande Spirito ci ha puniti per i nostri peccati”.
“Quali peccati, padre?”, insisto.
“La lussuria, figliolo, la lussuria. A noi non bastava più fare l’amore nei tempi stabiliti, i nostri giovani...quando io ero giovane, volevano possedere le femmine in qualsiasi momento dell’anno, e non intendevano lasciarle, come sempre era stato fatto, al migliore, al più forte di noi che generasse la discendenza più sana, ma ognuno voleva la sua femmina, e guarda il risultato: quasi nessuno di voi ragazzi ha lo stesso padre di un altro”.
Avevo già sentito questa storia molte volte, ma era colpa mia, avevo stuzzicato il vecchio Uhtra, dandogli modo di lanciarsi in una delle sue interminabili concioni, ed ora mi toccava sorbirmelo.
“Eravamo diventati orgogliosi ed empi”, iniziò a dire, “ed avevamo dimenticato i costumi degli avi. Un giorno la collera del Grande Spirito si abbatté su di noi, la terra cominciò a tremare e ad agitarsi sotto i nostri piedi come un animale impazzito, poi si squarciò mettendo a nudo l’umore delle sue viscere ribollenti. Dalle loro cime, i vulcani riversarono fuoco liquido lungo le loro pendici, ed i fiumi di lava bruciavano come fuscelli in pochi istanti i grandi alberi che non erano stati sradicati dal terremoto. Quando tornò il silenzio, era nata la Voragine che da allora ci ha divisi dalla foresta nostra madre, e dai nostri fratelli che nel suo grembo hanno continuato a vivere nell’innocenza”.
Il vecchio s’interruppe e cacciò un lungo sospiro, aveva il fiato che gli mancava.
“Per un po’ di tempo”, riprese, “abbiamo pensato, ci siamo illusi che non fosse cambiato nulla, ma ci sbagliavamo: la parte della foresta che ci era rimasta era troppo piccola e poco per volta cominciammo ad esaurirne le risorse; il cibo diventava sempre più raro, gli alberi seccavano e morivano, le loro fronde non offrivano più riparo dai predatori, anche il terreno inaridiva e si screpolava sotto la vampa del sole, e l’acqua stessa diventava rara, la nostra terra è diventata la landa desolata che conoscete. Abbiamo cominciato a morire, lentamente dapprima, le morti superavano le nascite, poi più in fretta, sempre più in fretta, oggi ben pochi piccoli sopravvivono allo svezzamento, siamo rimasti in pochi”.
“Cosa possiamo fare, padre?”, ho chiesto.
“Fare? Non c’è niente che possiamo fare. Solo il Grande Spirito può fare, noi possiamo solo pregare ed implorare il suo perdono”.
Non è una soluzione che mi soddisfi, ho lasciato il vecchio deluso.
Cammin facendo, ho catturato una lucertola ed ho raccolto una manciata di bacche da un cespuglio spinoso. A meno di un imprevedibile colpo di fortuna, questo sarà il mio pasto.
E’ venuto a cercarmi Kunu, mio fratello, è il maschio più forte della tribù, l’unico ad avere due femmine, Dugran e Kesha.
“Il vecchio Uhtra è sfinito”, mi ha detto, “è probabile che non passi la notte”.
Sappiamo tutti e due quello che significa: con la morte di Uhtra, il comando della tribù dovrebbe passare a Kunu, a meno che qualcuno non gli contesti il potere, io potrei farlo, ho quasi la stessa taglia di mio fratello.
Ci siamo guardati a lungo negli occhi: il significato della sua espressione era chiaro: non desiderava una lotta fra noi.
“Se qualcuno dovesse contestare il tuo buon diritto, io sono con te, fratello”, ho detto.
Ha sorriso e ci siamo abbracciati.
Siamo andati insieme fino al giaciglio di Uhtra: il vecchio era debole, era chiaro che non sarebbe durato a lungo, ma era ancora lucido. Ha preso prima la destra di Kunu, poi la mia fra le sue mani, era contento che non ci fosse conflitto fra di noi.
“Figli miei”, ci ha detto, “Ricordate che solo la preghiera e la clemenza del Grande Spirito potranno salvarvi”.
Kunu ed io ci siamo guardati con imbarazzo, a queste cose non ci crediamo né lui né io.
Il vecchio Uhtra è spirato poco dopo il tramonto, la terra è troppo screpolata, arida e dura per scavare una fossa, l’abbiamo sepolto sotto un mucchio di grosse pietre in modo che né gli avvoltoi né le iene lo possano toccare. Kunu si è guardato in giro, sembrava spaventato, ma non era la paura che qualcuno potesse contestargli il comando: siamo rimasti in una dozzina, comprese le femmine e l’unico piccolo, Ral, e Kunu è incontestabilmente il più forte, non era quel genere di timore, era lo smarrimento di non sapere quale decisione prendere per la nostra salvezza.
“Dammi il tuo consiglio, fratello”, mi ha chiesto.
“Io dico soltanto questo”, ho risposto, “La nostra terra diventa ogni giorno più arida, offre sempre meno cibo e meno riparo ai predatori. Se restiamo qui, uno ad uno, moriremo tutti senza scampo”.
“Hai ragione”, ha detto, “ma non c’è speranza per noi nella direzione del sole che sorge. Di là non c’è foresta ma solo una distesa di erba dove non possiamo vivere: noi non siamo antilopi o zebre che possono nutrirsi di erbe, e non c’è riparo ai predatori, neppure un albero su cui cercare rifugio da leoni o iene. Là non possiamo andare, qui non possiamo rimanere, vedo una sola via per noi: dobbiamo ritornare nella foresta superando la Voragine”.
Ci siamo guardati sgomenti, uno negli occhi dell’altro.
“Io non credo alla maledizione del Grande Spirito”, ha detto, “La Voragine è un fatto naturale. A volte la terra si frantuma, a volte i vulcani eruttano fuoco dalle cime”.
“Adesso cerchiamo riparo per la notte”, ha concluso, “Domattina cercherò di attraversare la Voragine nel punto più stretto. Se riesco a passare io, passeremo tutti”.
Dopo la solita, lunga, interminabile notte passata dormendo a singhiozzo, sussultando ad ogni fruscio ed ascoltando angosciati i richiami dei leoni e delle iene, un’altra alba rossiccia si è levata sulla savana sanguinosa.
Kunu si è alzato e si è diretto di buon passo verso la Voragine, tutti noi l’abbiamo seguito.
Dopo aver studiato a lungo il percorso irregolare della grande fenditura che divide la terra, Kunu ha scelto un punto in cui i labbri del gigantesco squarcio sono più stretti, ed ha cominciato a scendere lentamente, con grande cautela lungo la roccia ripida e scabra, spostandosi in maniera quasi impercettibile, tastando attentamente ogni appiglio. Noi l’abbiamo incoraggiato gridandogli espressioni di augurio.
Se la discesa è parsa interminabile a noi che lo seguivamo dall’alto, chissà come dev’essere parsa a Kunu.
Ad un certo punto è scomparso in fondo alla Voragine, e solo dopo molto tempo è ricomparso alla nostra vista mentre si arrampicava dalla parte opposta. Un urlo di gioia è uscito dalle nostre gole vedendolo.
Passò dell’altro tempo che ci è sembrato ugualmente interminabile, mentre mio fratello risaliva sull’altro lato della Voragine.
Kunu aveva appena messo piede sul bordo opposto della grande ferita che dilaniava la terra, quando la foresta si riempì di richiami inquietanti, minacciosi. Dal folto degli alberi sbucò una dozzina di figure scure. In quel punto la distanza fra i due bordi della Voragine non era grande, e li ho potuti vedere distintamente: erano simili a noi, eppure diversi, camminavano curvi dondolando sui fianchi le lunghe braccia, le loro fronti erano basse, poco più di una linea sottile fra le orbite e l’attaccatura dei capelli, il muso sporgente dalle cui bocche uscivano dei grossi canini da belva, il corpo ricoperto da un pelame nero molto più folto del nostro, quasi una pelliccia di animale, che lasciava libere solo la faccia, le palme delle mani e le piante dei piedi. Erano i nostri fratelli rimasti nell’innocenza e nella sicurezza della foresta. Possibile che in poche generazioni fossero così cambiati? Od eravamo noi ad esserlo? Di certo le nostre strade si erano divise e non si sarebbero mai più incontrate.
Le creature della foresta si erano avvicinate a Kunu urlando e dimenandosi scompostamente, ma sembravano abbastanza intelligenti da avere un piano preciso; si erano disposte a semicerchio circondandolo in maniera da non lasciargli varchi, e lo spingevano verso l’orlo della Voragine.
Kunu si è accorto di non poter più arretrare, un palmo oltre le sue spalle c’era il vuoto strapiombo della Voragine, si è arrestato e per un momento anche gli altri hanno cessato di avanzare anche se non hanno cessato un attimo di dimenarsi ed urlare. Si sono guardati negli occhi, nello sguardo di quegli esseri c’era ferocia, voglia di sangue e di morte, in quello di mio fratello l’espressione smarrita di una preda braccata che si vede in trappola, poi con urla altissime e selvagge le creature della foresta gli si sono gettate addosso. Noi oltre la Voragine assistevamo sgomenti, senza poter prestare alcun aiuto al nostro compagno.
Non credo di aver finora visto in vita mia niente di tanto orribile, pur avendo assistito ai pasti dei leoni, delle iene, dei leopardi ed osservato da vicino i resti delle loro vittime. Quegli esseri si sono gettati addosso a mio fratello e l’hanno dilaniato, l’hanno smembrato vivo per poi affondare i canini da belva sui suoi resti ancora palpitanti.
Ci siamo allontanati sconvolti dall’orlo della Voragine. Dopo la morte di Uhtra, adesso quella di Kunu è una perdita molto grave per noi.
Ho visto che tutti guardavano me. Non l’ho mai desiderato, ma adesso sono io il capo della tribù. Non riesco a provare fierezza, orgoglio per questo fatto, è solo un’angoscia in più che si unisce a quella per la perdita di Kunu: il destino di tutti quanti noi à nelle mie mani, è da me che si aspettano di essere incoraggiati e confortati, ma cosa posso mai offrire loro?
Mi faccio coraggio e cerco di ricambiare uno per uno i loro sguardi, sperando solo che non si accorgano di quanto io stesso sono spaventato.
“Non possiamo restare qui”, dico, ”e non possiamo andare oltre la Voragine, non c’è più posto per noi nella foresta, questo è chiaro”.
C’è silenzio nel gruppo, nessuno replica. E’ un peso terribile quello che grava sulle mie spalle, sto decidendo il destino di tutti noi.
“Non abbiamo altra soluzione”, aggiungo, “che quella di inoltrarci nella pianura in direzione del sole nascente”.
L’ho detto, i miei compagni mi guardano sbigottiti.
“Come faremo”, chiede qualcuno, “a sopravvivere nel mare d’erba?”
Ho un’improvvisa intuizione.
“I babbuini”, rispondo, “I babbuini vanno dappertutto, trovano cibo dappertutto e sopravvivono dappertutto. Noi faremo come i babbuini, dobbiamo imparare da loro”.
Mi guardano perplessi, poi lentamente cominciano a mettersi in marcia.
E’ fatta, nel bene o nel male ho deciso il destino della mia gente per tutte le generazioni future, sempre ammesso che vi siano generazioni future.
Temevo che la nostra avventura finisse ancor prima di cominciare, al primo branco di predatori che avessimo incontrato, leoni, iene o licaoni, ma per ora non è successo nulla, devo ammettere invece di provare una sensazione di sollievo crescente man mano che ci allontaniamo dalla Voragine, un sollievo ancora troppo vago per chiamarlo speranza.
Sono ore che camminiamo verso una meta imprecisa, il punto dal quale si intravede alle prime luci del mattino il rosseggiare dell’alba, ormai la Voragine non è più visibile dietro di noi. A metà mattina ci siamo fermati a riposare in un isolato boschetto di acacie. La pianura non è così squallida come sembra; grattando nel terreno è possibile trovare radici e larve, alcuni radi cespugli offrono qualche bacca, l’indispensabile per morire di fame più lentamente.
Fra poco la vampa del sole sarà implacabile e per alcune ore nulla più si muoverà nella savana, è meglio cercare un po’ d’ombra sotto queste fronde striminzite e tentare di riposare un po’. La calura opprimente di queste ore della giornata dovrebbe immobilizzare anche le iene e i leoni, sono molto più sicure delle ore notturne.
Mi abbandono sfinito sotto il precario riparo delle fronde spinose. Chiudo gli occhi, è strano, non ho l’impressione di cedere alla stanchezza ma quella di svegliarmi.
“Professore, professore!”
Non riconosco l’ambiente che mi sta attorno, davanti a me c’è un gran numero di creature disposte a semicerchio su delle strutture di legno morto innaturalmente levigato; non so come, ma mi sembra di sapere che si chiamino “sedie” e “banchi”, hanno in mano delle asticelle che lasciano strani piccoli segni su di un materiale chiaro, mi pare che si chiamino “penne”, “matite”, “libri”, “quaderni”, “blocchi per appunti”, sono creature strane eppure “so” che sono persone come me, differiscono da noi quanto e più dei selvaggi che hanno sbranato mio fratello ma, come dire, nel senso opposto.
Le mie dita giocherellano con qualcosa nella tasca della giacca (cos’è una tasca e cos’è una giacca?) mentre odo la mia voce pronunciare parole per me incomprensibili.
“Scusate ragazzi”, dico, “Mi ero distratto un attimo. Dunque, stavo dicendo. Come sapete, noi abbiamo in comune con gli scimpanzé che sono i nostri parenti biologici più stretti ancora oggi viventi, il novantotto per cento del nostro patrimonio genetico, ma possiamo facilmente notare che il fenotipo umano è parecchio diverso da quello di uno scimpanzé. Uomini e scimmie antropomorfe sono diversi e fanno cose diverse, sono collocati tassonomicamente in generi distinti, sebbene la distanza che li divide, in termini di DNA sia molto modesta. Una spiegazione di questo fatto potrebbe essere che i nostri antenati ominidi siano stati sottoposti ad una pressione selettiva estremamente forte che li ha portati a distaccarsi in breve tempo dalle scimmie antropomorfe, senza che l’orologio molecolare del DNA abbia fatto in tempo a segnare grosse differenze.
Forse un esempio permetterà di capirci meglio. Tutti voi sapete che esiste un gran numero di razze di cani, alcune delle quali estremamente diverse dalle altre per taglia, proporzioni, struttura dello scheletro, pelame, indole e comportamento, tuttavia non dubitiamo che abbiano tutte sostanzialmente lo stesso genotipo, come dimostra il fatto che l’incrocio e lo scambio di geni tra l’una e l’altra sono sempre possibili, e sappiamo che questa situazione è stata determinata dall’allevamento umano che ha creato in pochi millenni la grande varietà di razze che vediamo oggi. Se voi considerate le razze che si pongono agli estremi di una scala, ad esempio il grande danese ed il piccolo chihuahua, sappiamo che nessun naturalista li considererebbe come due specie distinte soltanto perché fra l’una e l’altra esiste un’infinita varietà di forme intermedie, ma nel caso degli ominidi è del tutto ragionevole e persuasiva la supposizione che una fortissima pressione selettiva, un ambiente spietatamente ostile, abbiano spazzato via le forme intermedie, quanti, di volta in volta, erano meno avanzati sulla strada dell’ominazione, della nuova nicchia ecologica che i nostri antenati si andavano faticosamente ritagliando”.
M’interrompo riprendendo fiato. Una certa parte di me sembra comprendere perfettamente il senso di quelle parole incomprensibili, così come sembrano capirle le creature sedute che ascoltano attente.
“Se noi consideriamo un ominide dei tipi più primitivi”, proseguo, “come ardipithecus ramidus, od australopithecus afarensis od anamensis, quali sono le differenze che possiamo rilevare rispetto ad una scimmia antropomorfa? Non certo le dimensioni del cervello, che comincia a crescere solo con homo abilis! Le differenze più rilevanti sono il rimodellamento dell’arcata dentaria che assume una forma tondeggiante invece che a scatola con la scomparsa del grande canino tipico delle antropomorfe, ed il cambiamento della forma del bacino, che non è ormai più quello di un quadrumane, ma di una creatura che cammina eretta, pienamente bipede.
Ora, cosa ci rivela tutto questo? Un cambiamento delle abitudini sessuali”.
Noto nei miei ascoltatori un lieve ondeggiamento, come un moto di sorpresa.
“Rifletteteci un attimo”, dico - dice quell’altro me stesso che sembra aver accuratamente previsto la reazione dei suoi giovani ascoltatori, “Il grosso canino delle antropomorfe non è strettamente connesso a necessità alimentari, lo possiedono il gorilla e l’orango che sono rigorosamente vegetariani, sebbene lo scimpanzé sia un carnivoro occasionale e talvolta anche cannibale, ma è piuttosto un segno di dominanza sessuale, nelle scimmie antropomorfe è molto più sviluppato nei maschi di quanto lo sia nelle femmine, è un segno di dominanza sessuale come lo sono le corna dei cervi, e come esse è tipico di animali con una struttura familiare ad harem, la sua scomparsa rivela il passaggio da una struttura familiare di questo tipo ad una struttura a coppie.
Noi non disponiamo, ovviamente, di tracce fossili che ci indichino se le femmine degli ominidi presentassero o meno il fenomeno dell’estro, cioè quella serie di segnali evidenti e fortemente attrattivi per il maschio che compaiono nei periodi della fertilità, il cosiddetto “calore”, ma sappiamo che l’estro è presente nelle scimmie antropomorfe ed assente nella specie umana, è una supposizione ragionevole che la sua scomparsa sia da mettere in connessione con le trasformazioni della vita sessuale e familiare dei nostri antenati di cui vi ho parlato. Quanto alla trasformazione del bacino, data la collocazione anatomica degli organi sessuali, il suo rapporto con la sessualità è ovvio. E’ possibile che il coito frontale invece che a retro come è praticato dalle scimmie antropomorfe, sia stato più una causa che una conseguenza del raggiungimento della stazione eretta e della piena bipedalità”.
Faccio ancora una pausa, non riesco a controllare il flusso di parole che mi escono dalla bocca, che però sembrano avere perfettamente un senso per coloro che mi stanno a sentire, è come se avessi invaso parte della mente di un altro, come se guardassi da un’apertura nel suo cervello, ma quell’altro si accorge in qualche modo della mia presenza? Mi sembra che non interferisco con la sua normale attività, e la sua attività mi sembra soprattutto quella di parlare, parlare, parlare.
“Ma c’è un altro fattore che va preso in considerazione”, riprendo a dire, “Il paleoantropologo francese Yves Coppens, che è stato lo scopritore assieme a Donald Johanson dell’australopithecus afarensis, la famosa Lucy, è stato il primo a notarlo ed a sottolinearne l’importanza.
Se voi guardate una carta geografica dell’Africa, vedrete che dall’Etiopia, dalla regione dell’Afar antistante il golfo di Aden fino al Mozambico, essa presenta una sorta di vallata stretta e lunghissima, incassata fra due corrugamenti montani come una cicatrice, è in realtà una gigantesca linea di faglia, la Greath Rift Valley, lungo di essa da alcuni milioni di anni l’Africa si sta spaccando in due, è lungo la linea della Rift Valley che si trovano i vulcani ed i grandi laghi africani, ed è da qui, da sorgenti poste nel Rift che si diramano i grandi fiumi dell’Africa: Nilo, Congo, Niger.
Coppens ha osservato un fatto semplice ma fondamentale: tutte le popolazioni di scimmie antropomorfe africane, gorilla e scimpanzé, vivono ad ovest della Rift Valley, mentre tutti i fossili ominidi conosciuti sono stati rinvenuti ad est di questa linea. Bisogna notare anche che gli ambienti posti ad occidente e ad oriente della linea della Rift Valley sono diversi: ad ovest prevale la foresta, mentre ad oriente domina la savana semiarida, perché le montagne del Rift bloccano le precipitazioni provenienti dall’Atlantico.
Secondo l’ipotesi che Coppens ha battezzato East Side Story con riferimento ad un celebre musical hollywoodiano, è possibile che al momento del formarsi del grande Rift una porzione di giungla sia rimasta separata ad oriente della restante foresta, e si sia presto trasformata in savana brulla; gli antropoidi che l’abitavano sarebbero stati costretti ad adattarsi nella vita nella savana, la trasformazione dell’ambiente naturale li avrebbe brutalmente spinti sulla via al termine della quale avrebbero raggiunto lo stadio umano, divenendo i nostri antenati.
Questa ipotesi non è in contrasto con la precedente che vi ho esposto circa un mutamento delle abitudini sessuali tipiche dei primati, anzi è ragionevole supporre che, senza l’evento geologico rappresentato dal formarsi della Greath Rift Valley, i caratteri innovativi rappresentati dal mutamento delle abitudini sessuali avrebbero avuto una discreta probabilità di perdersi diluendosi fra la popolazione di antropoidi forestali”.
Mi accascio sulla sedia alle mie spalle. Sono stanco, negli ultimi tempi ho lavorato troppo. Poco fa, all’inizio della lezione, mi sono quasi addormentato; era un sogno od una fantasticheria, una specie di sogno ad occhi aperti: gli ominidi da tanto tempo oggetto dei miei studi ridivenuti vivi, reali, di pelle, carne e muscoli, invece che poveri mucchietti di ossa perduti nel gorgo del tempo, ed io stesso ero uno di loro, ma la cosa incredibile non è questa, la cosa incredibile è che mi sembrava di esserci, non ho mai fatto un sogno così vivido, li potevo vedere in tutti i particolari, li potevo toccare, sentire il sentore polveroso della savana nelle narici, il gusto del sangue nella bocca...
Un tocco leggero, delicato nell’incavo del mio braccio, ma basta a risvegliarmi richiamandomi alla realtà, se si vuole sopravvivere, bisogna saper conservare sempre sensi vigili, anche e soprattutto quando si dorme. E’ una delle femmine.
“E’ ora di andare”, mi dice, “Se vogliamo riprendere il cammino col fresco della sera, dobbiamo muoverci adesso, prima che venga buio”.
Annuisco mentre mi alzo in piedi.
Mi sento ancora frastornato. Che sogno incredibile ho fatto! Chi erano quelle strane creature? Cos’era l’essere che io stesso ero?
Non lo so, è una domanda a cui non posso rispondere. Cos’è stato, un messaggio del Grande Spirito, l’entrata in un mondo diverso come quando si discende in una caverna, od un semplice sogno anche se più strano del solito? L’ultima risposta è quella che mi sembra più verosimile.
Ma ora non c’è tempo per pensarci. Bisogna riprendere la marcia ed approfittare del fresco della sera per trovare un riparo dove passare la notte al sicuro da leoni e iene e forse, se siamo molto fortunati, del cibo che ci consenta di sopravvivere un’altra giornata.
Lentamente, ci rimettiamo in moto. Osservo i miei compagni uno ad uno, specialmente le femmine con i piccoli, che sopportano i disagi maggiori, e mi sento in colpa. Hanno fiducia in me, ma sto solo prolungando la loro agonia; la verità, la cruda verità è che non c’è futuro per noi e per i nostri figli!
©
Fabio Calabrese
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