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Dirò solo una cosa, Utterson, e (se riuscirete a crederla) sarà più che sufficiente: la creatura che si insinuò in casa mia quella notte era,
secondo la confessione dello stesso Jekyll, conosciuta con il nome di Hyde, ed era ricercata in ogni angolo della terra come l’assassino di Carew.
R. L. Stevenson Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde
Ogni sera si trascinava stancamente con il bastone di fronte allo specchio e alla sua immagine, l’immagine di uomo vecchio e consumato dalla delusione, raccontava una triste storia: la triste storia della sua esistenza. Un’esistenza lunga eppure anche così breve, trascorsa tra lo studio, dove lavorava alle sue traduzioni, e il salotto, dove si riposava di sera; raramente, nel fine settimana, qualche passeggiata in campagna. Poi a tarda età una povera pensione, sufficiente a malapena a dargli da mangiare e a permettergli qualche piccolo agio. Un’esistenza ripetitiva e in realtà macchiata da un evento che l’aveva irrimediabilmente compromessa.
Gualtiero, con gli occhi malinconici e a volte bagnati di lacrime, il respiro affannato per l’età e le troppe sigarette e il volto gonfio, coperto dalla barba bianca, raccontava a quell’immagine ogni sera la stessa storia, la stessa incomprensibile storia. Eppure anche lui era stato giovane e la sua vita non era sempre stata un copione già scritto. Gualtiero aveva custodito un grande sogno nel cassetto: fare lo scrittore, comporre un romanzo breve ma intenso, che potesse metterlo in luce di fronte ad un editore. E adesso chi avrebbe mai detto che quel vecchio stanco e malinconico in passato era riuscito nel suo intento, ma proprio nel momento del successo, ironia della sorte, era iniziata la sua discesa, una lunga corsa inarrestabile verso la morte e, poi, l’inferno.
Gualtiero era ormai pronto ad affrontare anche la morte, per questo quella sera non batté ciglio nel constatare che al di là dello specchio mancava la sua laconica immagine. Qualcuno aveva posto una poltrona con lo schienale rivolto verso il vetro, su cui si sedeva un angelo, simile a quelli che si stagliano tra le nuvole nei dipinti barocchi, con il volto di giovinetta e i capelli arricciolati, che scendevano giù, fino ai poggia braccia. Un angelo dal corpo armonioso e affusolato, coperto da un vestito candido. Guardava il vecchio scrittore con disapprovazione, ma alla disapprovazione era mista quella pietà spontanea che spesso i giovani provano nei confronti dei vecchi, forse perché inconsciamente desiderano ancora la loro protezione.
“Stasera a chi narrerai la storia della tua esistenza?” la voce di quell’angelo era debole, ma garbata e rassicurante, tanto che scese in profondità fino a colpire l’anima appesantita di Gualtiero, che aprì i polmoni per un profondo sospiro di sollievo.
“Se ti hanno inviato dal Paradiso per ascoltare la mia storia, beh…. credo che tu abbia fatto un viaggio a vuoto. Non c’è niente di bello nell’ascoltare la storia di un vecchio pieno solo di risentimento.”
“La storia del tuo romanzo, quella sì che è veramente bella: d’altronde la storia della tua vita si intreccia a quella della tua opera, non è forse così?”
“È la storia che cerco di raccontare a me stesso da quarant’anni, ma non ci riesco, non so comprendere cosa realmente accadde.”
“Ti aiuterò a capire, molti anni fa sono morta forse proprio per essere qui stasera ad ascoltarti: forza, inizia il tuo racconto.”
Gualtiero si voltò infastidito, non sapeva come comportarsi. Reggendosi a fatica sul bastone, passò da una sedia all’altra e all’altra ancora per scaricare tutta la tensione; poi le labbra iniziarono a muoversi come se fossero animate da una forza misteriosa, che era dentro di lui, ma non proveniva da lui, e che lo fece voltare ancora una volta verso quel corpo, adesso accesso di una luce bianca e intensa, capace di sopraffare le ombre funebri della stanza. Ombre ben definite, che assomigliavano a persone o a cose, in cui la fantasia poteva riconoscere ciò che voleva: erano le ombre dei morti.
Ero ancora giovane. Il sogno della mia vita era fare lo scrittore e davanti a me avevo ancora molto tempo per realizzarlo, ma il tempo non è mai abbastanza: lo pensavo allora e con il passare degli anni me ne sono convinto sempre di più. Per questo volevo mettermi al più presto in luce davanti ad un editore. Pensavo a chi aveva esordito dopo lunga attesa e mi rincuoravo, ma se mi ritrovavo tra le mani il romanzo di uno scrittore più giovane di me mi assaliva l’insoddisfazione, in certi momenti persino l’angoscia. Temevo di arrivare a tarda età senza essermi realizzato, come una persona qualunque, che non si domanda cosa gli accadrà domani, e le mie paure mi spingevano a riflettere a lungo sul significato della letteratura. Si doveva scrivere qualcosa di fortemente avvertito, di profondamente vissuto, quella era ormai la mia convinzione. Avevo in testa una storia, ma non nasceva da un’esperienza reale; ancora una volta era frutto della mia fantasia, di cui ignoravo e tuttora ignoro le potenzialità. Non mi restava altro da fare che aspirare l’inverosimile, cercare l’avventura sempre desiderata ma mai realmente vissuta.
Chiesi aiuto ad Andrew. In realtà si chiamava Andrea: aveva cambiato il suo nome per apparire più virile, una dote importante per chi vuole sfondare nel mondo della celluloide. Era alto, un bel po’ più di me, si regolava in tutto e per tutto per non offendere nemmeno per un momento il suo corpo e arricchiva gli occhi celesti e i capelli biondi con una discreta eloquenza. Aveva fatto anche un po’ di carriera, dopo l’iniziale sbando che l’aveva condotto addirittura alla pornografia, arrivando a lavorare nel mondo dei fotoromanzi. A dir la verità, in fondo in fondo non recitava nemmeno male. Nell’ambiente aveva conosciuto Jenny, una giovane attrice che lo eguagliava in doti fisiche e intellettuali, ma dal carattere ben diverso dal suo: infatti a chiunque la conoscesse la ragazza appariva docile e dotata di una sincera umiltà.
Decisi che tutti e tre avremmo interpretato i personaggi della mia storia e che per farlo avremmo scelto un posto suggestivo, isolato, magico: l’isola al centro del lago. Era da molto tempo proprietà della mia famiglia. Sulla sommità si ergeva una casa tenebrosa, dalla facciata verde scuro e dalla finestre grandi, tanto grandi che da lontano sembrano occhi che aprendosi laceravano la foschia dei giorni invernali. Vivendo in prima persona la mia storia speravo di raggiungere lo slancio espressivo, che mi avrebbe permesso di realizzare un romanzo significativo.
L’isola si raggiungeva attraverso il traghetto pubblico; come da accordo ci incontrammo al porticciolo di buonora, per compiere all’arrivo un sopralluogo nella casa. L’edificio era stato fatto costruire da mio padre per trascorrere piacevoli week and, ma ben presto se ne era stancato; era un luogo troppo solitario e oscuro per una famiglia felice. Così iniziò la ricerca dell’acquirente migliore, per magari vendere la struttura insieme al resto dell’isola e con i soldi ricavati pagare i debiti, che il mio casato ormai da decine di anni accumulava per permettersi un elevato tenore di vita. Ma era stato tutto inutile: quel patrimonio non interessava a nessuno. Da qui l’inevitabile trascuratezza che condannava la suggestiva abitazione al lento degrado. Vi si accedeva mediante una stradina sterrata in salita. Per uno strano fenomeno atmosferico che non ho mai compreso, salendo la nebbia si faceva sempre più fitta, fino ad arrivare all’alto cancello ormai quasi interamente coperto di ruggine.
Spingemmo con forza quell’enorme ammasso di ferro deteriorato, che ormai stava in piedi a fatica. Jenny, terrorizzata dal luogo lugubre, si calmò solo quando si rese conto che nella nebbia la casa era illuminata dalla lontana luce del faro, unico riferimento del vicino paesello lacustre. L’abitazione con il suo aspetto austero, il muro aperto da lunghe e profonde crepe, come dolorose ferite, e il giardino abbandonato, incuteva nella ragazza un profondo timore; ma ormai aveva promesso di aiutarmi e una come lei non si sarebbe mai rimangiata la parola data.
Il protagonista della mia storia, che mi ero doverosamente preso l’impegno di interpretare, era un medico pienamente riuscito, ma avvelenato dalla passione per i giochi di micromagia con le carte e caduto in una profonda depressione. Avrebbe voluto essere un illusionista, ma nella vita quasi mai, purtroppo, si è cosa si desidera. In lui, probabilmente, avevo esorcizzato la mia paura di fallire, di non riuscire a scrivere un’opera significativa, per questo mi accingevo a interpretarlo con una certa perplessità. Jenny e Andrew se ne resero conto e, giunti nell’immensa sala, mi chiesero se ero pronto. Gli dissi di sì. Loro erano i compagni del dottore, che si precipitavano a soccorrerlo nel suo volontario esilio, in parte coscienti che il demonio lo aveva ormai posseduto. Davanti a loro il protagonista appariva vestito da prestigiatore: la giacca color rosa, dalla camicia bianca visibile solo in prossimità del petto (quasi una proiezione dell’anima), un largo cilindro nero che sollecitava la fantasia e due lunghi baffi.
Gli occhi di quel demone brillavano come due stelle nella notte invernale, mentre faceva scivolare velocemente le carte su se stesse per scaldare l’atmosfera e, infine, scopriva quella in precedenza estratta dalla ragazza. Jenny e Andrew fingevano di divertirsi, proprio come è necessario fare affrontando uno squilibrato: lo assecondavano per non suscitare la sua reazione. Era quello il ruolo che dovevano interpretare e lo facevano veramente bene. Sul volto riuscivano a simulare un terrore malcelato. Poi la luce negli occhi dell’illusionista si spengeva, due stelle oscurate dalla notte, e saltava al di là del tavolo con la bava alla bocca, simbolo della dannazione che aveva posseduto il suo corpo, per strangolare la ragazza.
Strinsi il collo di Jenny per vivere quel terribile momento intensamente; qualcosa si era impossessato di me. Sentivo che dovevo varcare il confine tra la realtà e la letteratura, facendo in modo che quest’ultima entrasse dentro di me, che la mia anima la assorbisse come una spugna si inzuppa di acqua.
Quando Andrew capì che cosa era accaduto era ormai troppo tardi. Il corpo di Jenny giaceva sul pavimento privo di vita, ma nessuno dei due aveva il coraggio di accettare la verità. Ci dicemmo che era stato un incidente; non potevamo buttare via il nostro futuro per un malaugurato incidente. Ormai Jenny era morta e rovinare anche le nostre esistenze non l’avrebbe riportata in vita. Raccontammo alla polizia che la ragazza era caduta dalla rupe posta alle spalle della mia abitazione, mentre aveva deciso di prendere un po’ d’aria prima di iniziare a recitare; noi le avevamo detto di fare attenzione, ma non ci aveva ascoltato. Il corpo sprofondato nel lago non fu mai ritrovato, così le indagini furono sospese.
Il romanzo breve ebbe un tale successo, che fin dalla prima edizione le vendite mi permisero larghi guadagni, ma il male che da sempre aveva attanagliato i membri della mia famiglia mi colpì inesorabilmente. In breve dilapidai tutti i soldi, assieme alla poca eredità lasciata da mio padre, così non mi rimase che imparare a vivere con il rimorso. Mi trasferii nella casa dell’omicidio e sopravvissi di traduzioni di libretti a buon mercato. Ogni sera rivisitavo quella storia per capire cosa mi aveva spinto ad ucciderla, ogni dannata sera della mia ormai inutile esistenza, ma era uno sforzo vano. Alla fine mi convinsi che quel giorno le mie mani non erano state mosse dalla volontà della mente, ma dal male, il quale si era insinuato in me perché avevo desiderato il successo letterario, e l’averlo raggiunto non poteva che condurmi alla rovina.
Nel raccontare Gualtiero aveva abbassato il capo, disperato ed estremamente colpevole per il suo gesto. Quando lo rialzò vide un nuovo angelo dal volto di giovane donna: era il volto di Jenny.
“Smettila di tormentarti; sappi che ti ho perdonato.”
“Ma allora se lo sai, dimmi cosa mi spinse quel giorno ad ucciderti.”
“Ormai non ha più importanza; guarda dentro lo specchio.”
Il vetro si illuminò di una luce accecante che emanava un tiepido calore, poi apparve una serie di immagini, come una sequenza apparentemente priva di senso: erano persone che leggevano.
“Vedi queste persone? Hanno letto il tuo romanzo e a ognuna di loro hai regalato un momento di serenità. Solo la letteratura solleva l’anima dell’uomo, ma per prendere forma ha bisogno di prosciugare le sua esistenza.”
Jenny prese Gualtiero per la mano, che camminò dopo tanti anni senza il suo bastone, accompagnandolo verso una luce molto più grande.
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Giampaolo Giampaoli
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