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Avevo un disperato bisogno di trovare delle cravatte decenti. Mia moglie si era semplicemente dimenticata di mettere in valigia le mie migliori e, al momento di presentarmi al convegno, mi ero sentito come fossi rimasto tutto ad un tratto nudo.
Mi aveva soccorso Mario, factotum e improvvisatore ufficiale del convegno. La cravatta apparteneva al concierge dell’albergo, il quale me la consegnò con l’esitante riservatezza di un dignitario di corte, disposto a fare una eccezionale concessione.
Non perché fosse la cravatta di un concierge, ma, francamente, non era proprio un gran che. Volevo una cravatta da vero conferenziere. Il tono adatto, il colore appropriato, il giusto peso del nodo, stretto a regola d’arte. Tutto su una camicia dal bianco immacolato, i polsini d’oro ad occhieggiare da sotto le maniche di un doppiopetto d’alta classe, in equilibrato gioco con il fazzoletto del taschino e con il fermaglio d’argento andino che, questo sì, mi ero infallibilmente portato dietro.
Così, non appena ne ebbi l’occasione, il primo pensiero che mi spinse a fare un giro delle bancarelle di Piazza della Repubblica fu proprio questo, comperarmi delle cravatte. Ce n’erano di tutti i tipi e colori, sommerse da una miriade di chincaglierie, stendardi, statuette, quadretti, piattini, ciondoli e magliette dei più noti calciatori dell’epoca, soprattutto quella con il nove di Ronaldo in entrambe le versioni, interista e brasiliana. Ma non sarei stato proprio io a lasciarmi ingannare da uno di quei luccicanti pendagli di finta seta, offerti a piene mani, buoni magari per turisti frettolosi disposti a sborsare una manciata di dollari o yen per portarsi a casa una qualsiasi cosa con scritto sopra made in Italy.
Decisi allora di cercarne qualcuna nell’immenso androne della Stazione Termini, dove sicuramente avrei potuto soddisfare le mie ricercate esigenze, pur sapendo che le tasche avrebbero sofferto un considerevole salasso. E andavo dritto e deciso, senza neanche aver notato il gruppetto di giovani giapponesi, ognuno con l’emblematica Yashica al collo, piazzati a sfoderare un unico abbacinante sorriso davanti a una di loro, che li fotografava con alle spalle la facciata della stazione.
Quando però, intento com’ero a badare a dove mettevo i piedi in quel saliscendi di marciapiedi e isole pedonali che seguono il serpeggio delle innumerevoli strettoie riservate alle manovre dei bus, avvenne l’irreparabile.
La fotografa d’occasione fece un passo indietro per ampliare l’inquadratura, proprio nel momento in cui, con la testa in aria, scendevo un gradino nella stessa direzione e la mia mano penzoloni venne giù a sfiorare, come una delicata ghigliottina, il suo chiamiamolo tergo. Non l’avessi mai fatto.
— Mi deve scusare — furono le poche parole che mi venne di sussurrare lì per lì e forse erano le uniche che avrei potuto dire in tali frangenti.
Ma gli occhi a mandorla che mi vedevo per la prima volta davanti mi convinsero che forse avrei fatto meglio a starmene zitto.
Fluttuavano alla deriva su quel fiato mozzato che interdiceva qualsiasi presa di posizione, mentre le dentature del gruppo orientale continuavano ad abbarbagliare la scena come un flash all’inverso, ignare del senso e dei motivi dell’imprevista dilazione.
— Ma cosa pensi di star facendo? — Mi tradussero in buono ed educato italiano le ciglia aggrottate, che trasformavano a un tratto quel visino di bambola di cera in una truce maschera del teatro di Muromachi. — Vaglielo a toccare a tua mamma! — mi scaraventarono in faccia subito dopo, da quel che capii, cancellando definitivamente da quell’espressione perplessa qualsiasi traccia di buonismo.
In compenso, quando l’occhiataccia cominciò a dispiegarsi in un irrefrenabile sproloquio in stretto giapponese, il mio senso di colpa si dileguò all’istante, come se quel torrente verbale, invece di travolgermi verso l’abisso del rimorso, fosse servito appena a sciacquarmi l’anima.
Ripresi così rinfrancato il mio cammino verso le cravatte, consapevole dell’innocenza che l’esagerata reazione al mio atto inconsulto, intesa a gravarla dello stigma del boia, la confermava invece ineccepibile, come si conviene a quella di un’autentica vittima.
Ne trovai due, di cravatte, di fine fattura, che mi impressionarono per la compostezza. Ne ponderai il taglio, la caduta, la tessitura, i riflessi dei tubi fluorescenti sugli intrecci di piccole losanghe di filo dorato che variavano i toni cangianti dello sfondo blu scuro. Questa la prima. La seconda, sul bordò, era abbastanza più allegra, con i suoi ovoidi argentati che sfumavano in un degradé di toni sempre più spenti, fino a perdersi nella pur dignitosa indefinitezza del colore predominante. Le comprai, senza tuttavia essere riuscito a deviare un solo istante il pensiero dal recente incontro/scontro con la giapponese. Il fiotto adrenalinico infatti faceva roteare ancora, in un vortice incontenibile, la linea dei miei pensieri, quando, allo spingere la gran porta di vetro, mi vidi all’improvviso davanti ad un’immensa macchia blu.
Pensai subito che si trattasse di un plotone, ma era invece un unico poliziotto. Piazzato sulla banchina con le mani sui fianchi a sbarrarmi il passaggio, quasi occultava per intero il gruppo degli ossuti giapponesini di poco prima, asserragliati dietro la sua straordinaria mole. In prima fila intravedevo, alla sua destra, la fotografa con ancora quell’indecifrabile maschera, tenera e truce insieme. Alla sua sinistra, una sconosciuta che si era aggiunta al gruppo. Non è vero infatti che i giapponesi abbiano tutti la stessa faccia. Lo sapevo da tempo. Abito in una città piena di nipponici, e molti sono cari amici miei.
Questa rimaneva in punta di piedi, quasi appiccicata al grande orecchio dell’ufficiale, che non era poi tanto alto, a biascicare chissà che cosa di così importante e interminabile, con fare di chi sapeva il fatto suo.
— È vero quel che mi sta raccontando questa signora? — Quella signora tacque un istante. Si interrompeva soltanto per ascoltare il poliziotto o la connazionale a destra, che a sua volta sparava sottovoce qualche parola in giapponese di tanto in tanto.
Mi veniva da ridere, ma mi contenni. La pappagorgia del poliziotto ondulava sul nodo della cravatta di ordinanza con la prevedibile fedeltà di note musicali su di un pentagramma.
— Mi scusi, ma che le sta raccontando? Non riesco a sentirla — mi azzardai a dire.
La ciarliera alzò appena un po’ la voce, quel tanto che fosse sufficiente per farsi sentire da me. Parlava un italiano quasi monosillabico, ma si faceva capire, e sembrava anzi specializzata nel ricucire belle frasi fatte. Doveva essere l’interprete della comitiva, convocata d’urgenza a seguito di quel grave incidente internazionale.
— Lei ha toccato con mano lá dove non batte il sole a una figlia del sol levante — disse in tono monocorde.
Mi sbudellavo dentro dalle risa, ma rimasi impassibile fuori.
— La signora dice che lei si è permesso di invadere la sua privacy, palpeggiandole il mappamondo —. Accidenti, è decisamente tramontato il tempo in cui sorgevano come i funghi le barzellette sulla formazione letteraria di carabinieri e poliziotti. Dicono che adesso, per passare nei concorsi, ci vogliono almeno due lauree.
— L’ho capito, signor maresciallo — risposi con l’unica faccia tosta che mi ritrovavo —. Ma non lo sapevo che le figlie del sol levante avessero cul...
— A professò, e che dice pure le parolacce?
— Dicevo della cul...tura delle forme corporee — deviai la rotta del ragionamento sulla scorta della linea erudita nel primo momento intrapresa da quel sosia di un Aldo Fabrizi trentenne —.Veda, maresciallo Fabrizio...
— Sono solo appuntato. Appuntato Aldi — (appunto, pensai, appuntato Aldi Fabrizio. Non avrei certo potuto esigere che il nome fosse esattamente uguale).
— Appunto, signor appuntato, non avrei mai supposto che sugli antipodi dell’orbe terraqueo si attribuisse la stessa importanza nostra alle protuberanze dei bassifondi.
Il titolo di sosia di Aldo Fabrizi, alias sergente Bottoni di Guardie e ladri, più che al fatto di essere grasso, credo che fosse da ascriverglielo per merito di quella serietà distaccata, quella bonarietà compassata, quel tono comprensivo e paterno che contornava la difesa incondizionata delle regole con un’enorme passione per le immancabili eccezioni.
— La natura umana, a dispetto dei meridiani e dei paralleli, è sempre la stessa — filosofò, passando di seguito a considerazioni altrettanto sensate, anche se molto meno idealistiche. — E poi, dobbiamo tenerceli cari questi rampolli delle tigri asiatiche. Che senza i loro yen, fra qualche anno si rimane a bocca asciutta.
— Lei dice che non si sarebbe mai aspettata di sentirsi toccare il gluteo massimo proprio nella città eterna, detentrice del Circo Massimo — intervenne a sproposito la interprete. Si vedeva che era proprio una guida turistica.
Così, di eufemismo in eufemismo, la diatriba si dipanava su una rete di vincoli logici che avrebbe fatto impallidire qualsiasi gioco di linguaggio del secondo Wittgenstein.
— Ma è proprio questo il clou della questione...
— Badi a quel che dice — si intromise ancora, ma senza troppa convinzione ormai, l’appuntatone.
— Ho detto clou, clou... Non è un anagramma. E quanti ghirigori poi: il sedere, il fondoschiena, il di dietro, le natiche, il paniere, i fondelli, tutto per non dover dire quella che è l’unica parola giusta: culo. Ed è proprio questo che è mancato per configurare il reato. Anche se avessi avuto l’intenzione di ledere la turista, che danno le potevo arrecare infatti? Ma se neanche ce l’ha il deretano! Che errore ho fatto? Di cosa dovrei sentirmi colpevole, se non ne ho ricavato nessun vantaggio? Perché dovrei soffrire le conseguenze di un male che non ho fatto? Semplicemente perché non è successo proprio niente.
“Sine cul...” — l’ulteriore inarcamento di ciglia del superpoliziotto non fu sufficiente a interrompere la mia travolgente arringa. — “Sine culpa, nulla pœna”, come scrissero gli antichi legislatori romani sulle tavole di bronzo: “Sine damno, nullus error; sine errore, nulla culpa; sine culpa, nulla pœna” — scaraventai lì per lì. E ancor oggi sono rimasto convinto di averla inventata io quella frase.
Fu la stoccata finale che riuscì a sciogliere quell’apparentemente indissolubile nodo gordiano. L’orgoglio patriottico del genuino romano de Roma, a dispetto dello scarso latino imparato alle medie, prevalse su tutti gli innumerevoli altri interessi della grande anima di quel grandioso corpo che, in un agilissimo quanto insospettabile dietrofront, emanò il suo inappellabile verdetto, rivolto al piccolo, ma rispettabilissimo pubblico.
— A regà, avete sentito? Senza chiappe, niente da fare. Tutti a casa. Sgomberare.
©
Giuseppe Butera
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Giuseppe Butera
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La mia Landau ed altre storie di Giuseppe Butera
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Altre informazioni / L'autore
Gli emigranti finiscono spesso con lo sviluppare una doppia natura. Qualcosa a metà fra la necessità di sopravvivere ed il piacere di immergersi (o perdersi) in una nuova realtà. Nel caso di Giuseppe Butera, medico, emigrante, insegnante, siculo-brasiliano, scrittore, questo dualismo si manifesta narrativamente sotto forma di due cicli principali: quello “sudamericano” della Landau e quello, di ambientazione agrigentina, di Giovanna.
Possiamo seguire le peripezie di una rombante Landau sulle sconquassate strade di un sudamerica che ha più di un punto di contatto con quello nato dalla fantasia di Marquez, o dilettarci con i ragionamenti, solo apparentemente ingenui, di Giovanna Fonseca vedova Impallomeni, seguendola pigramente, le mani in tasca, tra il cielo azzurro e la terra bruciata di una Sicilia che forse non esiste più; qualunque strada decidiamo di prendere, troveremo comunque in Giuseppe Butera un anfitrione cortese ed un narratore affascinante e spiritoso, teneramente disincantato ed attento a non prendersi mai eccessivamente sul serio.
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