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Del siciliano
Considerazioni linguistiche a cura di Marco Scalabrino
tratto da PB15


"Noi non siamo né Joni né Dori, ma Siculi". L'affermazione di Ermocrate, di fatto, sanciva - nel 424 a. C. - la costituzione della nazione siciliana. L'identità nazionale del popolo siciliano, favorita dall'esigenza della difesa, dalla radicata denominazione etnica e dalla naturale insularità trovò veicolo ideale nella lingua. La lingua, considerata a ragione l'elemento di sintesi di una nazione; la lingua, che Wilhelm Humboldt ( filosofo e scrittore tedesco vissuto tra il 1767 e il 1835 ) definì una vera e propria concezione del mondo.
Una lingua, nel caso in specie, capace di resistere alle influenze delle disparate altre culture con le quali si è " incontrata "; capace di acquisire da ognuna di esse quanto, di volta in volta, più utile al suo arricchimento e di stratificare, nei secoli, tali conquiste sulle proprie, originarie fondamenta. E allora, ecco il greco-siculo, il latino-siculo, l'arabo-siculo, il franco-siculo, l'ispano-siculo. Ma, sostanzialmente, sempre una lingua, una sola: il Siciliano.
Il Siciliano che, dopo il disfacimento del Latino, divenne la prima lingua letteraria italiana (Dante, nel De Vulgari Eloquentia: tutto ciò che gli italiani poeticamente compongono si chiama siciliano; e il Devoto: la Sicilia a partire dal XII secolo, nel periodo delle due grandi monarchie, la normanna e la sveva, ha elaborato la prima lingua letteraria italiana ).
Un Siciliano colto, quale fu quello delle opere degli scrittori siciliani del XIII secolo alla Scuola poetica - la Magna Curia - fiorita, a Palermo, alla corte di Federico II.
Si diceva, dianzi, delle fondamenta. Il Latino, notoriamente; ma leggiamo altresì cosa scrive Giovanni Ragusa:
I Siculi erano un popolo indo-europeo. Dall'India essi vennero verso l'Europa e quelli che, in seguito, giunsero nella nostra Isola, guidati da Siculo, furono chiamati Siculi. La loro lingua pertanto doveva essere, se non la sanscrita, una che certamente ne derivava. Alcuni vocaboli: il nostro pùtra (puledro ) nel sanscrito è pùtra che vuol dire figlio; il nostro màtri non deriva dal latino mater, ma dal sanscrito màtr; il nostro bària (balia ) nel sanscrito è bhâryâ e vuol dire moglie. E prosegue: I Siculi, sottomessi dai Greci, furono costretti per necessità a far proprio il lessico dei dominatori, ma lo espressero con la fonetica che era ad essi congenita, naturale. Ciò avviene anche a noi che, dovendo parlare l'italiano, lo esprimiamo (foneticamente e sintatticamente ) come ci è naturale; e ciò fa sì che veniamo riconosciuti " siciliani " in ogni luogo e da tutti. Sappiamo che la nostra lingua, figlia del sanscrito, ha come il sanscrito soltanto vocali a, i, u. Sappiamo che la lingua siciliana rifiuta in modo assoluto la e e la o atone. Sappiamo anche che si esprime con regole diverse da quelle delle lingue latina e italiana. Di essa non dobbiamo vergognarci, perché non ci rivela, come dicono i concittadini del Nord Italia, terroni, ma gente di antica e nobile civiltà.
L'unità d'Italia e l'affermazione del Toscano quale lingua dei sudditi del Regno avrebbero voluto - dovuto - decretare la scomparsa dei dialetti, di tutti i dialetti della penisola; Siciliano compreso dunque, malgrado il suo plurisecolare passato di storia e i poeti - quali Antonio Veneziano, Giovanni Meli, Domenico Tempio, per citarne solo alcuni - che l'avevano celebrato. E invero, esso sembrò smarrirsi, parve quasi soccombere. Salvo ritrovarsi, a fine Ottocento, col Verismo prima e con autori del calibro di Nino Martoglio successivamente. Col Novecento poi, quanto più la funzione della comunicazione andò ripiegando in favore dell'Italiano, tanto più se ne andò estendendo l'impiego letterario, in particolare nella poesia. Tale fenomeno ha generato, nel secolo appena trascorso, degli autori di assoluto pregio, tra i quali Ignazio Buttitta è di certo il più noto. Anche Giovanni Formisano, l'autore di " E vui durmiti ancora ", è assai conosciuto. Altri, parimenti degni e tuttavia meno fortunati, pazientemente aspettano che qualche spirito illuminato, un giorno o l'altro, li " scopra ".
Nell'intento di approfondire la questione, che da taluni oggi viene posta, circa la dignità del Dialetto, scorriamo adesso le autorevoli valutazioni storico-critico-letterarie di Mario Sansone e di Salvatore Camilleri:
1) dal punto di vista glottologico ed espressivo non c'è alcuna differenza, essendo la lingua letteraria un dialetto assurto a dignità nazionale e ad un ufficio unitario per complesse ragioni storiche;
2) il Siciliano, con la poesia alla corte di Federico II, è stato determinante per la nascita della poesia italiana;
3) il Siciliano è stato lingua ufficiale per oltre due secoli (il XIII e il XIV );
4) il Siciliano è stato strumento letterario di poesia e di prosa: nella seconda metà del sec. XV diede vita alle Ottave o Canzuni, nel sec. XVIII a un autentico poeta come Giovanni Meli e nel XIX secolo a Nino Martoglio, ad Alessio Di Giovanni, al Premio Nobel Luigi Pirandello.
E riportiamo ancora brevi stralci tratti dall'articolo " Le lingue minoritarie parlate nel territorio dello Stato Italiano " di Roberto Bolognesi: " Tecnicamente i termini lingua e dialetto sono interscambiabili ", " il loro uso non implica nessuna precisa distinzione genetica e/o gerarchica. Tutti i cosiddetti dialetti italiani sono lingue distinte e non dialetti dell'Italiano ".
" Il dialetto - asserisce a tal proposito Salvatore Riolo - non è una corruzione né una degenerazione della lingua e non potrebbe mai esserlo, perché i dialetti non sono dialetti dell'italiano, non derivano, cioè, da esso ma dal latino, e soltanto di questo potrebbero eventualmente essere considerati corruzione ".
E citiamo infine lo Studio del Centro Ethnologue di Dallas: " Il Siciliano è differente dall'Italiano standard in modo abbastanza sufficiente per essere considerato una lingua separata ", " è inoltre una lingua ancora molto utilizzata e si può parlare di parlanti bilingui " in Siciliano e in Italiano standard.
Ulteriori considerazioni (appena ricordando peraltro che nella Sicilia del Cinquecento operavano già due Università: quella di Catania e quella di Messina, nonché la proposta del 1543, del siracusano Claudio Mario Arezzo, di istituire il siciliano come lingua nazionale ) potrebbero passare attraverso la presenza di Vocabolari, di testi di Ortografia, di Grammatica, di Critica, eccetera.
E allora, quale Siciliano? Quello di Catania o quello di Palermo? Quello di Siracusa o quello di Trapani? E perché non tutti assieme, il prodotto di tutti essi? L'Agrigentino, l'Ennese, il Messinese, il Nisseno, il Ragusano non sono pure essi Siciliano?

© Marco Scalabrino

 
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