
Siamo
arrivati al Cairo un pomeriggio di fine febbraio.
Faceva caldo, o forse no
forse era solo colpa
del maglione di lana con cui avevo salutato linverno
in Italia.
Un omino scuro, magro con un largo sorriso e un
cartello ci aspettava allaeroporto, deserto.
Garden City House. Angela Leo diceva
il cartello.
Lomino si chiamava Samuel. Ci ha accompagnati
a fare il visto e poi al pulmino dellalbergo.
Il pulmino era confortevole, ma sporco e impolverato.
Dalle tendine nere scorgevo per la prima volta
il Cairo.
Ero già lì! Al Cairo! Dopo averlo
studiato per un anno, quel posto fatto solo di
inchiostro e carta, diventava realtà. Non
riuscivo a crederci.
Vedevo cose assurde da quelle tendine, ma lentusiasmo
di aver raggiunto quella meta era troppo forte
e sorridevo senza accorgermene, inebetita dal
pensiero di essere per la prima volta in un paese
arabo, da tutte quelle scritte in arabo e quelle
kefiah sulle teste della gente.
Per attraversare la strada si doveva correre a
gambe levate, gli autisti erano come impazziti,
sembravano accanirsi contro i coraggiosi pedoni
che osavano sfidarli.
Sorridevo, non pensavo che presto sarei stata
anchio un coraggioso pedone contro milioni
di autisti indemoniati.
I passanti più avventurosi si scagliavano
contro le macchine in corsa, e giù con
clacson e fiato mozzato. Roba da corrida.
I più prudenti invece attraversavano a
tappe piazzandosi negli spazi vuoti tra una macchina
e laltra, mentre le vedevano arrivare,cercando
di prendere bene la mira.
Una volta, mesi dopo, avrei chiesto al console
italiano per telefono se cera qualcosa che
potevo dire ai miei per tranquillizzarli dopo
gli attentati; la risposta sarebbe stata Dì
a tua madre di stare tranquilla, il pericolo degli
attentati non è niente in confronto a quello
che si rischia anche semplicemente attraversando
la strada.
Sui palazzi cerano scritte in arabo e
io cercavo di leggerle, ma il pulmino andava
di gran lunga più veloce dei miei occhi
Lalbergo era nei pressi di Midan el-Tahrir.
La conoscevo di nome da una settimana. Me ne
parlò una ragazza che avevo conosciuto
a Napoli e che era stata al Cairo lanno
prima e anche un mio zio che avevo visto poco
prima di partire.
Dal pulmino vedevo solo macchine, polvere e
il Mugamma, baluardo della burocrazia cairota,
emblema del caos. Svoltammo dietro un enorme
albergo di lusso di un centinaio di piani, il
Semiramis Intercontinental e arrivammo a Garden
City House: venti stanze, al terzo piano di
una palazzina fatiscente. Cominciamo a conoscere
le enormi contraddizioni del Cairo
Cera un vecchio ascensore con le corde
e le carrucole incrostate di grasso nero e polvere
ricordava molto gli atri dei palazzi del centro
storico a Napoli.
Due anni dopo un pittore italo-greco omosessuale
in visita al Cairo mi avrebbe raccontato di
aver avuto una love story con un ragazzo egiziano
che abitava in quel palazzo e che proprio in
quellascensore consumavano i loro preziosi
momenti di intimità
Samuel era limpiegato dellalbergo,
lunico che disponeva di un completo elegante,
ecco perchè andava a prendere allaeroporto
tutti i nuovi arrivati, a qualsiasi ora del
giorno
e della notte poverino. Nonostante
lo sguardo innocente, doveva essere un uomo
profondamente vissuto, visto il suo soggiorno
messicano lungo un matrimonio fallito.
Samuel, come dimostrava il suo nome, non era
musulmano, era il primo copto che incontravo.
Al Garden City House erano tutti copti, e per
distinguersi avevano tatuate sul corpo delle
piccole croci di cui andavano molto fieri. Si
distinguevano così, avrei visto croci
tatuate sui polsi delle studentesse che tenevano
i libri in braccio, su quelli degli uomini aggrappati
ai pali della metropolitana e su tanti altri
polsi.
Lho fatta quando avevo quindici
anni, ne andavo fiero perché me lero
meritata. Disse Filu un giorno mostrando
la sua croce. Filaimun era il suo nome completo,
lavorava anche lui allhotel, diceva di
essere follemente innamorato di Angela, e contemporaneamente
lo era anche di Silvia, e chissà di quante
altre. Un ometto magro, di media statura, ma
dal cuore grande insomma. Lo chiamavano tutti
Filu, che in arabo vuol dire: elefantino.
Le stanze dellalbergo erano sporche, cera
polvere ovunque, le lenzuola gli asciugamani
erano grigi, persino le saponette.
Masr balad et-turab si dice qui,
lEgitto è il paese della polvere.
Avrei combattuto contro questo invadente ospite
per mesi e mesi, prima di capire che non lavrei
mai avuta vinta. Ma poi, nonostante questo impatto
poco felice, mi sarei inguaribilmente affezionata
a quella polvere.
Lasciammo le valigie in camera e uscimmo subito,
io, Angela e Domenica, andammo a cercare lAmbasciata
Italiana. Cera polizia ovunque la città
sembrava in stato dassedio e la cosa non
mi colpì positivamente, anzi mi dette
un senso di agitazione. Solo molto dopo avrei
capito che cerano guardie ovunque perché
quello era il quartiere che ospitava gli edifici
più importanti del Cairo; quel pullulare
di polizia mi avrebbe dato alla fine un senso
di sicurezza: non esiste la microcriminalità
al Cairo, nessuno si sognerebbe mai di torcerti
un capello in mezzo alla strada, di scipparti,
persino di salire su un mezzo pubblico senza
pagare il biglietto. Non in quartieri come Garden
City.
Non
trovando lAmbasciata, chiedemmo indicazioni
a un poliziotto. Ci rispose in una lingua nuova,
il dialetto egiziano. Io avevo studiacchiato
qualcosa su un libricino acquistato a Parigi
e durante un corso di ben 2 ore, ma il dialetto
egiziano per me era nuovo tanto quanto lo era
per i miei compagni di viaggio.
A gesti cercammo di comunicare con i poliziotti
che ci mandavano da una parte allaltra,
forse la facevano apposta per disorientarci
come fanno i napoletani
Al calare del Sole entrammo in un ufficio dellAmbasciata
dove trovammo solo un carabiniere. Antonio.
Pensavamo di trovare qualcosa di più
in unambasciata, ma Antonio fu come un
angelo mandato dalla Provvidenza a rassicurarci,
noi tre poveri dispersi in una grande metropoli,
soli in mezzo al caos più totale. Antonio
era lì da quattro anni e non spiccicava
una parola in arabo, il che non fu una buona
notizia per noi che avevamo solo 2 mesi per
impararlo. Ci raccontò di come era stato
per lui questo cambiamento, di come si fosse
ambientato subito anche se sembrava tutto così
diverso, allinizio, di come nonostante
la sua pigrizia linguistica, la sua bambina
di cinque anni dopo appena un anno di scuola,
parlava fluentemente il dialetto egiziano tanto
da essere lei a discutere con i tassisti sul
prezzo da pagare per le corse.
Ce ne andammo di lì sollevati. Ritornammo
allalbergo pensando che forse non era
stata una completa follia intraprendere quel
viaggio.
Alle nove scendemmo a cena al Felfela.
Cera un felfela povero, un fast food,
e due passi più avanti, un felfela ricco.
Ma noi ancora non la sapevamo e ci buttammo
nel primo felfela che trovammo. Quello che doveva
essere un lussuoso ristorante, si rivelò
essere uno squallido take-away dove servivano
minuscole porzioni di cibo, tutte in pagnotte
arabe.
Quella sera tornai a casa a stomaco quasi vuoto,
ma fu la prima e lultima volta.
Filu, Samuel e Magdi, gli impiegati dellhotel
ci invitarono a uscire con loro. Io mi vergognavo
perché Magdi mi ha vista piangere al
telefono e non mi piaceva il modo in cui mi
guardava, inquisitorio, dal basso verso laltro,
mi scrutava.
Decidiamo di andare, con degli egiziani ci saremmo
sentiti più sicuri di non perderci.
Cera una signora grande con noi, sembrava
europea, era alta bionda e seria.
Andammo in un pub a Muhandeseen. Un vero e proprio
pub con tanto di musica ad alto volume, mista
occidentale e egiziana, alcolici e scollature.
Quel contesto sarebbe stato molto occidentale,se
non fosse stato per il fatto che le belle ragazze
dai sorrisi e dalle scollature eleganti erano
le stesse che la mattina andavano velate da
capo a piedi per non far dispiacere i genitori.
Ma la notte no. La notte è già
un velo di per sé e allora perché
velarsi ancora di più. Così la
ragazze egiziane assaporavano un po di
libertà, senza eccedenza né indecenza.
Iniziai a parlare con la signora bionda perché
lei non parlava con nessuno. Era tedesca e veniva
in Egitto ogni anno per farsi una vacanza e
per trovare quel calore umano che non esiste
nella fredda Germania. Mi raccontava di come
le piacciono gli animali selvatici, di come
era stata entusiasta quando aveva dato da mangiare
a un ippopotamo, pagando il padrone ad ogni
boccone del pachiderma, finchè non aveva
finito tutti i soldi e continuò a dar
da mangiare allippopotamo, ipnotizzata.
Ma il suo animale selvatico preferito in quel
contesto era Samuel. Forse era venuta stavolta
alla ricerca di qualcosa da mangiare, o meglio,di
qualcuno. E Samuel era un omino dolce e simpatico
ma , come la maggior parte degli egiziani, con
le straniere ci si voleva solo divertire.
(c) Marianna Massa
Residente al Cairo, Marianna Massa è
anche la curatrice
della sezione Letteratura
Araba del sito Progetto Babele
massamr@msn.com
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