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Calabroni Verdi
di Anna Toninelli
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Calabroni Verdi

Tutto regolare. Sento i calabroni verdi che mi zampettano sui denti, si fanno strada dentro le gengive marce e spariscono nella testa, a cercare gli ultimi pensieri intrappolati. Ogni scena rimbomba nelle mie meningi decomposte, si proietta nei miei occhi ricoperti di terra. L’eco del mio ultimo pensiero, come una polaroid sfocata, mi riverbera ancora nella testa, tra le ossa senza carne, freme con i miei calabroni verdi. È questo ricordo che pulsa come sangue rappreso che i miei calabroni vi racconteranno.

In un’altra vita avevo un nome che non ricordo più.

Avevo gli occhi verdi, credo.

Avevo una chitarra elettrica – sudata risparmiando fino all’ultimo centesimo – strepitosa.

Avevo quindici anni.

Avevo un bastardino quattro zampe – Toby – perennemente rintanato in una cuccia tutta scassata.

Avevo una mamma completamente fusa con un lavoro part-time all’ipermarket e uno stipendio miseraccio.

Avevo una cartella rotta, un cesso di pagella e un coltellino svizzero.

Avevo un angolo schifoso di camera da letto in un bilocale marcio, che pareva l’universo intero quando mi gettavo i Nirvana a palla nelle orecchie.

Avevo un migliore amico fuori di zucca che chiamavo Edo. Suonava il basso e strimpellavamo qualcosa assieme.

Nel giorno in cui cominciò tutto quanto, Edo saltò su: “Facciamoci i capelli verdi!”

Non male come idea. Io, però, avrei preferito farmi biondo, come Kurt Cobain. Ma Edo non demordeva: “Se ci facciamo biondi non ci caga nessuno, troppo banale. Poi sembriamo due barbie ricchioni.”

“Insulti Kurt?!”  gli feci io.

“Ma che sei scemo? Piuttosto mi mangio la lingua. Dai, tingiamoci blu e non se ne parla più”. La rima mi convinse: blu era l’ideale come compromesso.

Scollammo le chiappe dalla panca, gettammo il mozzicone di canna e ci slanciammo dentro al negozio del barbiere. Ci guardò un attimo storto, ma non aprì bocca appena tirammo fuori i soldi. Ci fece accomodare e cominciò l’opera.

I calabroni si stanno dando tanto da fare per riesumare quei pochi ricordi che ancora non hanno divorato con le loro tenaglie. Se i miei occhi ci fossero ancora, stillerebbero acqua salata, renderebbero sterile questa terra di morte.

Mamma non ci stava più con la testa. I farmaci che le aveva prescritto il dottore avevano certamente qualcosa di strano. Neanche dopo dieci canne sarei mai stato in quel coma: non si ricordava più ciò che stava dicendo nel bel mezzo di una frase, si metteva a piangere e a ridere come una pazza di punto in bianco. E, spesso, mi chiamava Massimo – il nome di papà. Nei suoi momenti di maggior lucidità si limitava a dire che gli somigliavo tutto, e glielo ricordavo in ogni cosa. Una volta aveva persino tentato di baciarmi, strillando: “Perché non facciamo più l’amore, Massimo?”.

Contavo che il cambio di look la persuadesse della differenza tra me e lui. Tra l’altro, speravo che non facesse una delle sue pantomime da manicomio.

L’avevo sentita singhiozzare già sul pianerottolo. Era seduta a tavola, che frignava. “Mamma…?”

Appena sollevò la testa, blaterò qualcosa del tipo: “Che hai fatto ai capelli?”

“Nulla ma’, stai tranquilla. Perché piangi?”

Si era distratta un attimo, fissando nel vuoto. Poi, ricordandosi della mia domanda, urlò all’improvviso: “Davide è scomparso! È andato via, anche lui, mi ha lasciata senza dire niente, è partito. Stamattina sono entrata a casa sua, non c’era più. Non risponde da nessuna parte, non so che fine ha fatto, non so…” e riprese a frignare.

Davide era il tizio che andava a letto con mia madre da qualche tempo. Chissà che gli frullava in testa a uno del genere, per farsela con mia madre. Sicuramente nemmeno lui doveva essere completamente arrivato.

“Calmati, mamma. Ti stai preoccupando per niente.”

“No, sono una fallita, non riesco neanche a tenermi un uomo. Se ne vanno appena si sono accorti della mia irrecu…pe… come si dice?”

“Credo si dica irrecuperabilità. Mamma, riposati. Vedrai che appena può Davide si fa vivo.”

Mamma si guardò attorno confusa, arraffò una pasticca e schiaffò la faccia sul tavolo, secca di sonno.

Sgusciai nella mia stanza, accarezzai Toby e gli diedi la pappa. Poi sprofondai nel cuscino e serrai le palpebre, mentre la voce di Kurt leniva le mie sofferenze con Smells like teen spirit.

Poco dopo Edo era già da me, a smangiucchiare schifezze, le nostre dita arrossate scorrevano  imbizzarrite sulle chitarre e le nostre voci rotte biascicavano qualche strofa. Tra una rullata, una tirata e così via le nostre chiome azzurre si agitarono per tutta la sera. Poi, quando si era fatto davvero tardi, Edo era uscito per tornare a casa. Io, fattissimo, ero crollato a letto.

Mamma non era sempre stata così. Era cominciato tutto quando avevo all’incirca sette anni e lei aveva scoperto che papà le metteva le corna con la vicina di casa, la signora Zambiasi. La troia in questione – così come la chiamava mamma – era stata sposata col signor Zambiasi, appunto, e aveva una figlia poco più grande di me, che conoscevo appena.

Quando la storia tra la Zambiasi e papà si era scoperta, il signor Zambiasi non sembrava essersela presa troppo, e aveva lasciato correre. Si diceva che anche lui tradisse sua moglie, ma a chi importa?

Quel che è certo, è che la figlia degli Zambiasi, di lì a poco, era sparita completamente. Tentarono e ritentarono a lungo di trovare almeno un presunto cadavere, seguire una pista, ma niente. Scomparsa ogni traccia.

Per la disperazione, così si diceva, la madre era andata ad impiccarsi in qualche luogo sperduto. Nemmeno il suo corpo, però, era stato più rinvenuto; ma nessuno si era preso la briga di cercarlo sul serio. Di lì a breve, anche il vecchio Zambiasi decise di passare all’altro mondo.

Mamma, insomma, l’unica ad essere indignata dal tradimento fino a piombare nella depressione più profonda, è l’unica ancora viva, trascinandosi tra una droga e l’altra, certo.

Disperata, furibonda, ma non abbastanza coraggiosa da lasciare papà per quello che le aveva fatto. Massimo, però, di coraggio ne aveva eccome e un giorno, così, di punto in bianco, se l’era data a gambe. Senza dire niente, svanito nel nulla.

La mattina dopo, Edo non era a scuola. “Che sfigato, è collassato per le troppe canne”, avevo pensato. E ora quella stronza di sua madre sarebbe venuta a chiedere spiegazioni a me, a farmi la ramanzina. Cheppalle!

I calabroni verdi contorcono terrorizzati le loro fragili zampette. Sento l’orrore che attraversa i loro esili corpi d’insetti. Si rifiutano di procedere, hanno paura.

Tornato nel tempio dei Nirvana, avevo infilato la mano nella cuccia di Toby per i suoi croccantini. Avrò aspettato cinque minuti che le sua lingua gommosa sbucasse e mi leccasse le dita. Nulla. Abbassai il capo, controllai dentro. Le zampe di Toby erano piegate in una posizione innaturale; ma ben più raccapricciante era la sua testa, staccata dal corpo, gettata nell’angolo, rotolata sulla copertina insanguinata. Ero senza fiato. Non ebbi il tempo di realizzare tutto il mio orrore o il mio sconcerto. Il suono del citofono mi trapassò i timpani come uno spillo rovente. Al secondo squillo, mi decisi a rispondere.

Era la mamma di Edo. Si gettò in casa in lacrime, strillando: “Edo è qui? Ti prego dimmi che è qui! Ieri sera non è tornato a casa, è venuto qui? Dov’è andato? Rispondi!” Continuò a gridare, prima che trovassi la forza di sputare fuori che sì, ieri sera era stato lì, ma che poi se ne era tornato a casa. Sorvolai sulle condizioni in cui era uscito, ma lei continuò ad azzannarmi di domande e non potevo resistere e dovetti dire tutta la verità. Mentre lei urlava più forte, non la sentivo più: il sangue batteva assordante nelle mie orecchie infuocate come un tamburo impazzito. Non capivo più nulla. Forse minacciò di portarmi al commissariato. Mi strattonò. Mi gettò a terra. Non opposi resistenza. Mi spinse fuori di casa a calci, ululando come una belva.

E fu quello il momento in cui lo vidi. Tra le lacrime che mi appannavano gli occhi, laggiù, nell’angolo del giardino, distinsi un piccolo cespuglietto blu. In qualche modo, convinsi la madre di Edo a fermarsi. Lasciò che mi avvicinassi a quell’insolita forma di vegetazione, incuriosito. Poi, un’acida ondata di consapevolezza mi corrose come i succhi gastrici che mi riempivano la gola. Tra la foga dell’orrore e della disperazione, con le dita scavai forsennatamente attorno al cespuglio, finché spazzai via abbastanza terra da riuscire a riconoscerlo. La faccia di Edo mi guardava con gli occhi sbarrati della morte, la gola tagliata, la bocca aperta che mangiava terriccio. Non ebbi abbastanza forze per sentire l’urlo della madre, perché un grido più agghiacciante mi rivoltò le budella.

“Massimo! Sei tornato, sporco maiale!”

Il quadretto con mia madre, col volto deformato dalla pazzia, che brandisce un’ascia insanguinata decora ancora le profondità della mia retina. Aspetto solo che i calabroni verdi lo divorino, per spazzarlo via.

A volte parlo con Edo. È qui di fianco, ma non mi sente. Lui non ha più le orecchie. Come fargliene una colpa? Del resto, io non ho più la bocca. Poco lontano, ci sono gli Zambiasi al completo, Davide, la mamma di Edo, Toby e il papà. Tutti assieme siamo un’allegra combriccola.

Anche i calabroni non sono male, mi tengono compagnia. Abbiamo fatto amicizia in fretta. Appena la terra ha coperto l’ultima folata d’aria sulla mia testa, mi hanno portato un messaggio importante. Kurt è morto, si è sparato quasi nello stesso momento in cui son morto io. Deve averlo sentito, lo sapevo che mi conosceva meglio di chiunque altro. Nessuno di noi due poteva continuare a vivere se l’alto non c’era più.

A volte parlo con Kurt e insieme cantiamo Smells like teen spirit.

Per ringraziare i calabroni verdi di questa notizia, li ho lasciati entrare nella mia testa decapitata.

Dono loro i miei ricordi, qui non mi servono più.

© Anna Toninelli





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