Non
lo capiva lei, o forse faceva finta di non capirlo.
Certi europei, specie quelli provenienti dai paesi
freddi, sembravano trovare in Egitto un rifugio
dai mali di quella società complicata che
abbiamo creato.
Seppi anni dopo di un tedesco che era scappato
via dalla Germania a causa di una forte depressione
e che andò vicino a Nueiba, in un posto
fatto di mare, sabbia e sole. Con alle spalle
le montagne rosse del Sinai e davanti, dopo il
mare, l'Arabia Saudita.
Aveva affittato una capanna e aveva detto a Guma,
il proprietario, di lasciarlo stare, di non parlargli.
Ripartì da Nueiba mesi dopo, guarito dalla
depressione, scrisse in un libro leggende beduine
e lo pubblicò insieme alle foto che scattò.
Lo dedicò a Guma che considerò come
un fratello.
Incontrai un'artista ormai diventata anziana che
aveva deciso di passare gli ultimi giorni della
sua vita nell'oasi di Siwa, rivangando il suo
glorioso passato.
- Non voglio più tornare in Germania. Mi
disse.
L'amica di Samuel sembrava avere lo stesso
bisogno di fuga verso il sole e il calore umano
che avevano gli abitanti dei paesi caldi.
Le dicevo di non fidarsi troppo del calore umano
che trovava qui, sentivo che a volte avrebbe
potuto essere mirato ad altro. Mi disse: se
non vuoi, basta dirlo.
La preghiera dell'alba
All'improvviso mentre cercavo di dormire, sentii
un megafono dire qualcosa, un venditore ambulante?
Penso
a quest'ora non può essere.
Poi un altro megafono, e un altro e un altro,
un coro di megafoni esplodeva nel silenzio della
città dai mille minareti
Dio è grande
Dio è grande
Testimonio che non vi è altro Dio all'infuori
di Dio
Testimonio che Muhammad è l'inviato di
Dio
Venite alla preghiera
Venite alla salvezza
Il canto del muezzin irrompe all'alba nella
città ancora addormentata.
Avevo letto da qualche parte che i musulmani
fanno la preghiera cinque volte al giorno, e
anche noi cristiani in teoria dovremmo ringraziare
Dio più di una volta al giorno, prima
di mangiare almeno, ma non lo fa più
quasi nessuno. Là invece la preghiera
fa parte della vita quotidiana.
Quando il canto del muezzin ha risuonato all'alba
tutto continuava a essere tranquillo, era il
normalissimo inizio di un giornata. Per me era
la prova concreta, schiacciante di quanto sia
importante la preghiera per i musulmani, era
la dimostrazione della forza che hanno per ringraziare
Dio ogni giorno, cinque volte al giorno per
quello che dà, per quello che hanno,
anche se è poco. Mi piaceva pensare a
quanto era bella quest'abitudine di pregare,
mi piaceva pensare in quei primi tempi al cairo
che la gente che ringrazia Dio era quella che
ha capito quanto vale la vita, che ha imparato
a soffrire ed è più forte, ha
vissuto nei sacrifici e ha poco, sa che quel
poco è molto meglio di niente e se lo
gode finchè può.
Col passare del tempo avrei realizzato che la
maggior parte di quella gente erano persone
disperate a cui non era rimasto altro da fare
che pregare. Era gente che viveva nella miseria
e sapeva di essere costretta a restarci per
il resto di suoi giorni e quello che poteva
fare era solo sperare che un altro giorno in
un altro mondo non sarebbe più stato
così.
Cercavo di continuare dormire ma il canto del
muezzin mi era entrato nella testa come un lamento,
una sonorità diversa da tutte quelle
sentite fino ad allora, una voce stridula di
megafono, dell'uomo che c'è dietro, e
lo sguardo di quell'uomo addetto al richiamo
della preghiera.
Com'era il Cairo addormentato negli occhi di
quell'uomo? Chissà come lo conosceva
bene, e quante volte lo aveva già visto
dall'alto del minareto. Com'era l'immensità
della città silente negli occhi di un
uomo? Con tutti i suoi milioni di abitanti,
automobili, saracinesche chiuse e finestre,
tutte proiettate verso il suo richiamo. Chissà
quanto doveva essergli familiare tutto questo
che a me sembrava così nuovo e strano
e gigante, e chissà come sembravo strana
io, piccolo puntino rannicchiato sotto le lenzuola
di una camera d'albergo che mi impressionavo
al canto del muezzin.
Rubabicchia
Iniziammo a cercare casa con Filu, il quale
ne approfittava nel frattempo per fare la corte
ad Angela. Tutti gli egiziani sognavano segretamente
un passaporto straniero, ma noi, ancora ingenui,
credevamo sinceramente ai gesti di Filu e pensavamo
che fosse davvero interessato ad Angela.
Scoprimmo dopo che contemporaneamente faceva
la corte a un'atra ragazza italiana che pernottava
nello stesso albergo e che avevamo conosciuto.
Sarebbe diventata nostra compagna di scuola
e un giorno per caso parlando con Angela sarebbe
venuto alla luce il meschino doppio gioco di
Filu... Comunque gli sono grata perché
in quei primi giorni al Cairo fu lui ad aiutarci
a cercare casa, a leggere gli annunci sul giornale
e parlare con i proprietari. Ci accompagnò
personalmente a vedere una casa e a contrattare.
Noi non capivamo niente, non eravamo in grado
di comunicare.
Andammo a Dokki per la prima volta in un pomeriggio
per parlare con i proprietari di una casa. Nella
strada che portava al loro ufficio c'era un
negozio con su scritto in arabo e in inglese:
"Compriamo qualsiasi cosa".
Non ce lo spiegavamo. Dentro c'erano mobili
e cianfrusaglie varie.
Avremmo capito cosa voleva dire quando avremmo
iniziato a sentire in ogni strada tutte le mattine,
uomini con carretti gridare: Bicchia...Rubabicchia!
Parola le cui origini italiane erano pressoché
ignorate in quel paese. Roba vecchia! Qualsiasi
oggetto rotto, vecchio, inutilizzato, qualsiasi
cosa veniva accumulata giornalmente nei carretti
per poi essere rinnovata ed esposta in negozi
di quel genere "Compriamo qualsiasi cosa".
Lo studio di Issa, il proprietario, era visibilmente
sporco e tenuto male, sotto la scrivania e sotto
i divani si intravedevano scarpe abbandonate.
Le pareti erano fortemente impregnate di fumo.
Lo stesso che aveva fatto cadere la maggior
parte dei denti di Issa e ne aveva annerito
altri.
Non si presentava bene. Non sorrideva.
Rimanemmo a contrattare per un po'.
Andammo a vedere la casa. Io pensavo già
di prenderla perché avevamo solo due
mesi e bisognava cominciare subito a seguire
le lezioni di arabo.
Era enorme, c'era un ampio salone, tre stanze,
due bagni. A vederla così, a parte l'arredamento
di pessimo gusto, non era male.
Mi convinsi che andava bene e se ne convinsero
anche Angela e Domenico.
Decidemmo di trasferirci al più presto
e chiedemmo a Issa di far pulire l'appartamento
prima del nostro arrivo.
La ritrovammo giorni dopo così come
l'avevamo lasciata e con dentro una ragazza
seduta a guardare la tv. Le chiedemmo se aveva
pulito. Sì, disse.
Con le nostre sei braccia ci impiegammo tre
giornate di dura fatica a pulire l'appartamento.
Al Kastan, il ristorante dietro casa, si erano
abituati a vederci comparire in piena notte
sporchi e stanchi per andare a mangiare.
Riuscimmo a iniziare le pratiche per iscriverci
ai corsi quattro giorni dopo il nostro arrivo
a Dokki.
La scuola della luna piena
Dokki
era un quartiere abbastanza moderno, nella nostra
grande casa molte cose non funzionavano, almeno
due volte alla settimana dovevamo chiamare l'idraulico
e/o l'elettricista.
C'eravamo letteralmente fatti prendere in giro
da quelli che ce l'avevano affittata: il caro
Issa e il suo amico imbroglione, il suo ghigno,
il modo in cui si sistemava il risvolto dei
capelli con quintali di gel, la bigiotteria
di pessimo gusto che indossava erano tutti segni
della sua vera natura. Ma noi ancora non sapevamo
distinguere gli onesti dagli usurai.
Una cosa buona era che abitavamo a due passi
dalla scuola: Badr School, la scuola della Luna
piena, così ce l'avevano indicata all'ufficio
degli studenti stranieri. Ma neanche questo
sapevamo e allora, nonostante la scuola distasse
pochi minuti a piedi da casa, la prima volta
ci andammo in metropolitana.
Scendemmo dalla metro a Behoos e cominciammo
a chiedere di Sharia Iran; erano già
le quattro e sapevamo che ci avremmo impiegato
più di mezz'ora per trovare la scuola,
che ci saremmo passati davanti una decina di
volte prima di capire che era proprio quella
lì, e saremmo arrivati in ritardo come
sempre, con Domenico incazzato.
Su Sharia Iran c'erano scuole elementari e medie.
Le pareti delle scuole erano disegnate e colorate,
c'erano vignette a fumetti, versetti coranici.
Notai una scritta: Una goccia d'acqua = vita,
accompagnata dal disegno di un rubinetto che
perdeva acqua e di fianco il portone verde della
Badr.
La nostra aula si trovava al primo piano, appena
finite le scale ti trovavi di fronte un cartellone
con la sura aprente, la prima del Corano:
nel nome di Dio clemente e misericordioso
lode a Dio signore dei mondi
Clemente e misericordioso
Sovrano del giorno della retribuzione
te ad oriamo, Te invochiamo
Guidaci sulla retta via
La Via di quelli che hai beneficiato
Non di quelli che sono nella tua collera
Né di quelli che sviano.
La Badr era una scuola media pubblica, per
questo era decorata con versetti coranici e
faccioni di Mubarak. Di pomeriggio la adibivano
ai corsi di arabo per stranieri.
La lezione era già iniziata: l'aula era
piccola e sporca, c'erano banchi di legno a
tre posti, come se ne vedono nei film in bianco
e nero, molto vecchi, vissuti da chissà
quanti piccoli egiziani.
Ci sedemmo lontani, all'inizio non sembrava
ci fossero altri europei. Erano tutti africani
e asiatici. Di fianco a me c'era uno studente
pakistano, aveva un'aria da sapientone, i capelli
lisciati sulla fronte, un sorriso a 32 denti
sempre stampato sulla faccia, annuiva ogni volta
che il maestro lo guardava e non si è
scomodato neanche per dirmi ciao.
Non osavo guardarmi intorno, perché lo
sguardo da quelle parti è percepito come
un invito. Per me lo sguardo era sempre stato
un modo per conoscere, capire chi o cosa mi
sta intorno, ambientarmi; per la prima volta
provai a mettermi nei panni di chi recepiva
il mio sguardo.
Che vuole quella? Che guarda?
Era legittimo fraintendere il mio sguardo.
Il mio vicino di banco, d'altronde, non era
per niente un bello spettacolo.
C'erano almeno sessanta persone in quella classe,
tra le quali avremmo trovato dei cari amici.
Molti di loro venivano dalle isole Comore, indossavano
graziosi berretti di pelle bucherellati per
ripararsi dal caldo. Mi divertivo a insegnare
un po' di italiano a qualcuno di loro, mi divertiva
l'idea che in un posto così sperduto,
che nemmeno sapevo dov'era, ci fosse interesse
per la mia lingua.
Gli Armeni si riconoscevano subito perché
molti di loro non avevano mai visto il mare,
l'Armenia è così stretta tra le
terre che lo sguardo ei suoi abitanti sembrava
chiuso, sbarrato. Tigran aveva lo sguardo più
espressivo che avessi mai visto, due occhi verdi
grandi come quel mare che non aveva mai visto,
ma che aveva sempre sognato, e un neo tra le
ciglia.
Odani, un giapponese, ogni tanto si sedeva in
prima fila, lo conosceva tutta la classe. Era
una macchietta.Ogni tanto il prof. Interagiva
con lui a lezione, o lo chiamava alla lavagna.
Non dimenticherò mai il giorno in cui
lui e Daisko, il suo amico, con cui andava e
veniva da qualsiasi parte, si misero a spiegare
l'abaco, facendo dei disegni alla lavagna. Parlavano
bene in arabo, nonostante l'enormi difficoltà
di pronuncia. Non ci si poteva aspettare da
persone che sorridono sempre, che fossero in
grado di stringere la bocca per emettere il
suono di una "uau".
Bastò, sembrava sceso da un treno del
metrò di Parigi. Vestito come i rapper
mulatti nei video di Jennifer Lopez, del colore
dei chicchi di caffè, quando sorrideva
faceva sorridere tutti perché sul suo
volto spiccavano 32 denti bianchissimi leggermente
storti in avanti, e il resto scompariva. Sarebbe
diventato il nostro fratello africano.
Poi c'era Elisa, la romana poliglotta
e tanti altri, di cui non conoscevo neanche
i nomi, ma che una volta appresi non avrei più
scordato.
Il primo giorno di lezione fu abbastanza traumatico.
Per la prima volta assistevamo a una lezione
completamente in arabo. Domenico voleva subito
scendere di livello.
Tareq, il prof., scandiva bene le parole, le
ripeteva all'infinito pur di farcele entrare
in testa. Parlava solo in arabo, non l'ho mai
sentito dire una parola in inglese. Questo era
il suo dono prezioso, ci faceva sentire capaci
di capire questa lingua strana, così
difficile per noi che eravamo solo all'inizio
e venivamo da un paese in cui le lezioni di
arabo erano sempre in italiano.
Io non capii tutto in quella prima lezione,
ma quello che capii per me fu moltissimo. Capii
per la prima volta quanto fosse importante essere
lì, vivere nella lingua araba , studiarla
stando al suo interno, portandomi quei suoni
nelle orecchie in ogni momento, in ogni luogo,
anche se non capivo. Tareq parlava in un impeccabile
arabo classico, cercava di attirare la nostra
attenzione mentre spiegava per farci rimanere
impresso il significato delle parole: gesticolava,
recitava, scherzava, ci chiamava per nome, e
quando qualcuno diceva una cosa giusta gli regalava
soldi o caramelle. Un po' come alla scuola elementare,
così mi sarei potuta rifare di tutte
le caramelle e di tutti i sorrisi che la mia
maestra alle elementari non mi aveva mai dato.
Il maestro è nell'anima, e dentro
l'anima per sempre resterà, diceva
Paolo Conte in una canzone. Tareq mi sarebbe
rimasto nell'anima.
(c) Marianna Massa
Residente al Cairo, Marianna Massa è
anche la curatrice
della sezione Letteratura
Araba del sito Progetto Babele
massamr@msn.com
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