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GARDEN CITY (2)
Dal Cairo, la voce di Marianna Massa


Non lo capiva lei, o forse faceva finta di non capirlo. Certi europei, specie quelli provenienti dai paesi freddi, sembravano trovare in Egitto un rifugio dai mali di quella società complicata che abbiamo creato.
Seppi anni dopo di un tedesco che era scappato via dalla Germania a causa di una forte depressione e che andò vicino a Nueiba, in un posto fatto di mare, sabbia e sole. Con alle spalle le montagne rosse del Sinai e davanti, dopo il mare, l'Arabia Saudita.
Aveva affittato una capanna e aveva detto a Guma, il proprietario, di lasciarlo stare, di non parlargli.
Ripartì da Nueiba mesi dopo, guarito dalla depressione, scrisse in un libro leggende beduine e lo pubblicò insieme alle foto che scattò. Lo dedicò a Guma che considerò come un fratello.
Incontrai un'artista ormai diventata anziana che aveva deciso di passare gli ultimi giorni della sua vita nell'oasi di Siwa, rivangando il suo glorioso passato.
- Non voglio più tornare in Germania. Mi disse.

L'amica di Samuel sembrava avere lo stesso bisogno di fuga verso il sole e il calore umano che avevano gli abitanti dei paesi caldi.
Le dicevo di non fidarsi troppo del calore umano che trovava qui, sentivo che a volte avrebbe potuto essere mirato ad altro. Mi disse: se non vuoi, basta dirlo.

La preghiera dell'alba

All'improvviso mentre cercavo di dormire, sentii un megafono dire qualcosa, un venditore ambulante? Penso…a quest'ora non può essere. Poi un altro megafono, e un altro e un altro, un coro di megafoni esplodeva nel silenzio della città dai mille minareti…
Dio è grande
Dio è grande…
Testimonio che non vi è altro Dio all'infuori di Dio
Testimonio che Muhammad è l'inviato di Dio
Venite alla preghiera…
Venite alla salvezza…
Il canto del muezzin irrompe all'alba nella città ancora addormentata.
Avevo letto da qualche parte che i musulmani fanno la preghiera cinque volte al giorno, e anche noi cristiani in teoria dovremmo ringraziare Dio più di una volta al giorno, prima di mangiare almeno, ma non lo fa più quasi nessuno. Là invece la preghiera fa parte della vita quotidiana.
Quando il canto del muezzin ha risuonato all'alba tutto continuava a essere tranquillo, era il normalissimo inizio di un giornata. Per me era la prova concreta, schiacciante di quanto sia importante la preghiera per i musulmani, era la dimostrazione della forza che hanno per ringraziare Dio ogni giorno, cinque volte al giorno per quello che dà, per quello che hanno, anche se è poco. Mi piaceva pensare a quanto era bella quest'abitudine di pregare, mi piaceva pensare in quei primi tempi al cairo che la gente che ringrazia Dio era quella che ha capito quanto vale la vita, che ha imparato a soffrire ed è più forte, ha vissuto nei sacrifici e ha poco, sa che quel poco è molto meglio di niente e se lo gode finchè può.
Col passare del tempo avrei realizzato che la maggior parte di quella gente erano persone disperate a cui non era rimasto altro da fare che pregare. Era gente che viveva nella miseria e sapeva di essere costretta a restarci per il resto di suoi giorni e quello che poteva fare era solo sperare che un altro giorno in un altro mondo non sarebbe più stato così.

Cercavo di continuare dormire ma il canto del muezzin mi era entrato nella testa come un lamento, una sonorità diversa da tutte quelle sentite fino ad allora, una voce stridula di megafono, dell'uomo che c'è dietro, e lo sguardo di quell'uomo addetto al richiamo della preghiera.
Com'era il Cairo addormentato negli occhi di quell'uomo? Chissà come lo conosceva bene, e quante volte lo aveva già visto dall'alto del minareto. Com'era l'immensità della città silente negli occhi di un uomo? Con tutti i suoi milioni di abitanti, automobili, saracinesche chiuse e finestre, tutte proiettate verso il suo richiamo. Chissà quanto doveva essergli familiare tutto questo che a me sembrava così nuovo e strano e gigante, e chissà come sembravo strana io, piccolo puntino rannicchiato sotto le lenzuola di una camera d'albergo che mi impressionavo al canto del muezzin.

Rubabicchia

Iniziammo a cercare casa con Filu, il quale ne approfittava nel frattempo per fare la corte ad Angela. Tutti gli egiziani sognavano segretamente un passaporto straniero, ma noi, ancora ingenui, credevamo sinceramente ai gesti di Filu e pensavamo che fosse davvero interessato ad Angela.
Scoprimmo dopo che contemporaneamente faceva la corte a un'atra ragazza italiana che pernottava nello stesso albergo e che avevamo conosciuto. Sarebbe diventata nostra compagna di scuola e un giorno per caso parlando con Angela sarebbe venuto alla luce il meschino doppio gioco di Filu... Comunque gli sono grata perché in quei primi giorni al Cairo fu lui ad aiutarci a cercare casa, a leggere gli annunci sul giornale e parlare con i proprietari. Ci accompagnò personalmente a vedere una casa e a contrattare. Noi non capivamo niente, non eravamo in grado di comunicare.

Andammo a Dokki per la prima volta in un pomeriggio per parlare con i proprietari di una casa. Nella strada che portava al loro ufficio c'era un negozio con su scritto in arabo e in inglese: "Compriamo qualsiasi cosa".
Non ce lo spiegavamo. Dentro c'erano mobili e cianfrusaglie varie.
Avremmo capito cosa voleva dire quando avremmo iniziato a sentire in ogni strada tutte le mattine, uomini con carretti gridare: Bicchia...Rubabicchia! Parola le cui origini italiane erano pressoché ignorate in quel paese. Roba vecchia! Qualsiasi oggetto rotto, vecchio, inutilizzato, qualsiasi cosa veniva accumulata giornalmente nei carretti per poi essere rinnovata ed esposta in negozi di quel genere "Compriamo qualsiasi cosa".
Lo studio di Issa, il proprietario, era visibilmente sporco e tenuto male, sotto la scrivania e sotto i divani si intravedevano scarpe abbandonate. Le pareti erano fortemente impregnate di fumo. Lo stesso che aveva fatto cadere la maggior parte dei denti di Issa e ne aveva annerito altri.
Non si presentava bene. Non sorrideva.
Rimanemmo a contrattare per un po'.
Andammo a vedere la casa. Io pensavo già di prenderla perché avevamo solo due mesi e bisognava cominciare subito a seguire le lezioni di arabo.
Era enorme, c'era un ampio salone, tre stanze, due bagni. A vederla così, a parte l'arredamento di pessimo gusto, non era male.
Mi convinsi che andava bene e se ne convinsero anche Angela e Domenico.
Decidemmo di trasferirci al più presto e chiedemmo a Issa di far pulire l'appartamento prima del nostro arrivo.

La ritrovammo giorni dopo così come l'avevamo lasciata e con dentro una ragazza seduta a guardare la tv. Le chiedemmo se aveva pulito. Sì, disse.

Con le nostre sei braccia ci impiegammo tre giornate di dura fatica a pulire l'appartamento. Al Kastan, il ristorante dietro casa, si erano abituati a vederci comparire in piena notte sporchi e stanchi per andare a mangiare.
Riuscimmo a iniziare le pratiche per iscriverci ai corsi quattro giorni dopo il nostro arrivo a Dokki.

La scuola della luna piena

Dokki era un quartiere abbastanza moderno, nella nostra grande casa molte cose non funzionavano, almeno due volte alla settimana dovevamo chiamare l'idraulico e/o l'elettricista.
C'eravamo letteralmente fatti prendere in giro da quelli che ce l'avevano affittata: il caro Issa e il suo amico imbroglione, il suo ghigno, il modo in cui si sistemava il risvolto dei capelli con quintali di gel, la bigiotteria di pessimo gusto che indossava erano tutti segni della sua vera natura. Ma noi ancora non sapevamo distinguere gli onesti dagli usurai.

Una cosa buona era che abitavamo a due passi dalla scuola: Badr School, la scuola della Luna piena, così ce l'avevano indicata all'ufficio degli studenti stranieri. Ma neanche questo sapevamo e allora, nonostante la scuola distasse pochi minuti a piedi da casa, la prima volta ci andammo in metropolitana.
Scendemmo dalla metro a Behoos e cominciammo a chiedere di Sharia Iran; erano già le quattro e sapevamo che ci avremmo impiegato più di mezz'ora per trovare la scuola, che ci saremmo passati davanti una decina di volte prima di capire che era proprio quella lì, e saremmo arrivati in ritardo come sempre, con Domenico incazzato.
Su Sharia Iran c'erano scuole elementari e medie.
Le pareti delle scuole erano disegnate e colorate, c'erano vignette a fumetti, versetti coranici.
Notai una scritta: Una goccia d'acqua = vita, accompagnata dal disegno di un rubinetto che perdeva acqua e di fianco il portone verde della Badr.
La nostra aula si trovava al primo piano, appena finite le scale ti trovavi di fronte un cartellone con la sura aprente, la prima del Corano:

nel nome di Dio clemente e misericordioso
lode a Dio signore dei mondi
Clemente e misericordioso
Sovrano del giorno della retribuzione
te ad oriamo, Te invochiamo
Guidaci sulla retta via
La Via di quelli che hai beneficiato
Non di quelli che sono nella tua collera
Né di quelli che sviano.

La Badr era una scuola media pubblica, per questo era decorata con versetti coranici e faccioni di Mubarak. Di pomeriggio la adibivano ai corsi di arabo per stranieri.
La lezione era già iniziata: l'aula era piccola e sporca, c'erano banchi di legno a tre posti, come se ne vedono nei film in bianco e nero, molto vecchi, vissuti da chissà quanti piccoli egiziani.
Ci sedemmo lontani, all'inizio non sembrava ci fossero altri europei. Erano tutti africani e asiatici. Di fianco a me c'era uno studente pakistano, aveva un'aria da sapientone, i capelli lisciati sulla fronte, un sorriso a 32 denti sempre stampato sulla faccia, annuiva ogni volta che il maestro lo guardava e non si è scomodato neanche per dirmi ciao.
Non osavo guardarmi intorno, perché lo sguardo da quelle parti è percepito come un invito. Per me lo sguardo era sempre stato un modo per conoscere, capire chi o cosa mi sta intorno, ambientarmi; per la prima volta provai a mettermi nei panni di chi recepiva il mio sguardo.
Che vuole quella? Che guarda?
Era legittimo fraintendere il mio sguardo.
Il mio vicino di banco, d'altronde, non era per niente un bello spettacolo.
C'erano almeno sessanta persone in quella classe, tra le quali avremmo trovato dei cari amici.
Molti di loro venivano dalle isole Comore, indossavano graziosi berretti di pelle bucherellati per ripararsi dal caldo. Mi divertivo a insegnare un po' di italiano a qualcuno di loro, mi divertiva l'idea che in un posto così sperduto, che nemmeno sapevo dov'era, ci fosse interesse per la mia lingua.

Gli Armeni si riconoscevano subito perché molti di loro non avevano mai visto il mare, l'Armenia è così stretta tra le terre che lo sguardo ei suoi abitanti sembrava chiuso, sbarrato. Tigran aveva lo sguardo più espressivo che avessi mai visto, due occhi verdi grandi come quel mare che non aveva mai visto, ma che aveva sempre sognato, e un neo tra le ciglia.
Odani, un giapponese, ogni tanto si sedeva in prima fila, lo conosceva tutta la classe. Era una macchietta.Ogni tanto il prof. Interagiva con lui a lezione, o lo chiamava alla lavagna. Non dimenticherò mai il giorno in cui lui e Daisko, il suo amico, con cui andava e veniva da qualsiasi parte, si misero a spiegare l'abaco, facendo dei disegni alla lavagna. Parlavano bene in arabo, nonostante l'enormi difficoltà di pronuncia. Non ci si poteva aspettare da persone che sorridono sempre, che fossero in grado di stringere la bocca per emettere il suono di una "uau".
Bastò, sembrava sceso da un treno del metrò di Parigi. Vestito come i rapper mulatti nei video di Jennifer Lopez, del colore dei chicchi di caffè, quando sorrideva faceva sorridere tutti perché sul suo volto spiccavano 32 denti bianchissimi leggermente storti in avanti, e il resto scompariva. Sarebbe diventato il nostro fratello africano.
Poi c'era Elisa, la romana poliglotta… e tanti altri, di cui non conoscevo neanche i nomi, ma che una volta appresi non avrei più scordato.

Il primo giorno di lezione fu abbastanza traumatico. Per la prima volta assistevamo a una lezione completamente in arabo. Domenico voleva subito scendere di livello.
Tareq, il prof., scandiva bene le parole, le ripeteva all'infinito pur di farcele entrare in testa. Parlava solo in arabo, non l'ho mai sentito dire una parola in inglese. Questo era il suo dono prezioso, ci faceva sentire capaci di capire questa lingua strana, così difficile per noi che eravamo solo all'inizio e venivamo da un paese in cui le lezioni di arabo erano sempre in italiano.
Io non capii tutto in quella prima lezione, ma quello che capii per me fu moltissimo. Capii per la prima volta quanto fosse importante essere lì, vivere nella lingua araba , studiarla stando al suo interno, portandomi quei suoni nelle orecchie in ogni momento, in ogni luogo, anche se non capivo. Tareq parlava in un impeccabile arabo classico, cercava di attirare la nostra attenzione mentre spiegava per farci rimanere impresso il significato delle parole: gesticolava, recitava, scherzava, ci chiamava per nome, e quando qualcuno diceva una cosa giusta gli regalava soldi o caramelle. Un po' come alla scuola elementare, così mi sarei potuta rifare di tutte le caramelle e di tutti i sorrisi che la mia maestra alle elementari non mi aveva mai dato.

Il maestro è nell'anima, e dentro l'anima per sempre resterà, diceva Paolo Conte in una canzone. Tareq mi sarebbe rimasto nell'anima.

(c) Marianna Massa
Residente al Cairo, Marianna Massa è anche la curatrice
della sezione Letteratura Araba del sito Progetto Babele
massamr@msn.com

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