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Due scrittrici
di Renata Di Sano
Pubblicato su PBUNIBOOK2009


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"Gentilissima R.C.,

pur trattandosi di contributo pregevole e di indubbio interesse, la pubblicazione dell'opera da Lei proposta non è in linea con i nostri prossimi progetti editoriali. Pertanto, non potrebbe essere sostenuta dal Settore Marketing con l'attenzione che merita. Pur apprezzandone la qualità, la Casa Editrice esprime bla bla bla, La terremo informata, cordiali saluti eccetera eccetera."

La lettera è sempre la stessa, ne stampo a decine tutte uguali. Mi basta cambiare solo il nome al destinatario e il gioco è fatto. E' la legge del siamo-spiacenti, del sì-ma, del vorrei-ma-non-posso. E' la legge della ghigliottina, che condanna i sacrifici di migliaia di principianti velleitari della scrittura a finire tagliuzzati in coriandoli e stelle filanti, nell'eterno carnevale delle illusioni editoriali. Mi pagano per questo. Per accompagnare al patibolo le belle speranze d'autore. Dalla macchina da scrivere alla macchina trituratrice, senza passare dalla libreria. Il passo è breve.

Quando ho cominciato, mi immergevo tutta intera a guadare il grigio fiume di carta che quotidianamente si scaricava sulla mia scrivania. Mani e piedi nel pantano, col setaccio un'intera giornata ripassavo i paragrafi stagnanti frase per frase, le frasi parola per parola, in cerca della briciola d'oro, perché non mi sfuggisse, nel fango, il brillio della gemma.Volevo scoprire il talento, volevo essere io a riconoscere nella melma il segno del genio, a salvare un superstite degno in quel mare d'inchiostro ordinario. Non uno qualunque, ma l'astro nascente, quello destinato a lasciare un'impronta per sempre.

Per andar dietro alla mia coscienza zelante, mi perdevo completamente in quel lavoraccio sporco e ingrato, senza pause, perché sapevo che sullo sfondo, dietro ai plichi di A4 ordinati e tutti uguali, sta la fatica di persone in carne ed ossa. Ogni manoscritto che esaminavo era un'anima sospesa in attesa del responso,  il creatore dell'  universo scopiazzato aspettava conferme, al di là dell'invenzione, c'era un'esistenza in bilico che parlava alla mia. 

E così, alla fine del gioco, ho messo su il mio catalogo personale di aspiranti scrittori, distinti per categorie: l'impiegato che scrive in ufficio, la casalinga depressa che scrive in vestaglia, lo studente impegnato che scrive di notte, la cassiera che scrive al principe azzurro. Non è cinismo, è massacrante lavoro di braccia. Io da sola, una contro tutti. Loro insieme contro di me, a contendersi lo spazio della vetrina.

Finché ho capito: ci sono pagine scritte solo per essere scritte, altre scritte per essere lette. Semplicemente, io non avrei mai potuto leggere le migliaia di pagine affamate di gloria che loro scrivevano. Almeno, non leggerle veramente. Guardarle, forse, darci un'occhiata, non di più. E' per questo che qualcuno  mi paga, non per reggere al carico delle loro aspirazioni. Non devo leggere sul serio, ma fingere di aver letto, e poi prendermi la briga di rispondere no, educatamente, no.

Insomma, mi basta guardare da fuori, affacciarmi sull'orlo del frontespizio. Come adesso, con il romanzo dell'ultima gentilissima di turno, questa R.C., di cui cerco d' immaginare l'espressione, il sapore amaro in bocca, quando riceverà la lettera che ho appena chiuso nella busta per lei.

Mia cara R.C., il tuo romanzo è veramente brutto, avrei dovuto scriverle, senza falsi orpelli e giri di parole pietose. A partire dal titolo, un libro che nessuno avrebbe comprato mai: "Ai confini del vento". Improponibile. Uno spartito stonato. Guardo la copertina vuota e, senza pensarci, copro con la mano le ultime due parole. Resta "Ai confini" e già suona meglio. In un attimo la matita corre da sola sulla preposizione e d'istinto fa fuori anche quella.

"Confini" è un bel titolo, funziona. Sicuramente più commerciale, appetibile, più al passo coi tempi. Studio dall'alto quell'unica parola rimasta sul foglio bianco, la vedo volare, prendere aria, respirare, dilatarsi, fino a riempire di sé lo spazio intorno, mandare una luce nuova. Mi sventaglio sotto al naso le duecentocinquanta pagine contate e non m'importa quello che c'è scritto: nel soffio d'aria smossa aspiro comunque un buon odore di carta e di polvere. Lo riconosco, è il mio lavoro, annusare gli scritti altrui, pesare i volumi, ficcare l'occhio di sguincio nelle carte sudate a lungo da qualcun altro, quel tanto che mi basta a giudicare, ad emettere il verdetto finale. "Ai confini del vento" non va, non va, non ho bisogno di sapere altro.

Eppure, nel rapido frusciare dei fogli, il mio sguardo, allenato alla fretta di leggere, è caduto su un nome da uomo: Giovanni. Sussulto, forse ho letto male. Il mucchietto di carte è chiuso davanti a me, rassegnato alla fine che si merita, ma io non riesco a resistere alla tentazione di provarci di nuovo, così mi sporgo al davanzale di una pagina a caso, è la novantasettesima, e cerco di riannodare nel mezzo il filo del racconto:  "irritato l'uomo spegne il cellulare quando legge nel display il numero della moglie". Richiudo il libro immediatamente, è una porta spalancata su una cantina buia che sbatto con troppa forza. E' colpa mia se ho paura di un fantasma, visto che ogni riferimento a fatti o personaggi veramente esistiti è da ritenersi puramente casuale. Ma da quando quel farabutto di Gianni mi ha fatto quello che mi ha fatto, aver visto il suo nome scritto nero su bianco è stato un colpo di fucile alle spalle. Non sono ancora pronta, sono ancora troppo fragile, ancora maledettamente esposta alle coincidenze sospette della vita.

Apro di nuovo a casaccio, imbocco la scorciatoia e vado a curiosare direttamente verso la fine,  scoprendo che "Caterina si asciugava le lacrime guardando il cuscino vuoto al suo fianco, che ancora portava l'impronta calda del suo corpo". Che orrore. Prendo le duecentocinquanta pagine stampate fitte fitte, arial corpo 12, e le infilo così come stanno nel cestino sotto alla scrivania. Voglio essere proprio sicura che nessun Giovanni mi capiti di nuovo fra le mani, nemmeno la parola scritta.

Però "Confini" come titolo non era male. E' il nome di lui che proprio non va: Giovanni. Perché non Giorgio ? Per non parlare dell'atmosfera stantia, quattro frasi fatte, fatte di niente, dei dialoghi insipidi e ripetitivi, dei caratteri privi di carattere. Una storia senza ritmo, senza testa né gambe, appiccicata col miele.

Non c'è niente da fare, è più forte di me: riprendo il malloppo dal secchio, sollevo la copertina e mi metto davanti alla prima pagina. Solo l'inizio, solo due righe, mi dico, e sono loro a venire da me: "Cadeva una pioggerellina sottile, ma nel suo cuore all'improvviso era arrivata la primavera. Finalmente lui si era accorto di lei." Può bastare. Ho fatto più di quanto d'ufficio mi tocchi. Nessun ripensamento, nessun dubbio, nessun rimpianto professionale. Nessun editore pubblicherebbe un romanzo dopo un incipit così. Il dattiloscritto è un disastro, onestamente, da gettare. Eppure, non so cosa mi prende, prima di andarmene me lo spingo nella borsa come una ladra. Mi convince con

l'inganno questo "Confini", un sottile veleno instillato goccia a goccia.

Messo sul tavolo della mia cucina, il libretto è tornato inoffensivo, ha un aspetto quasi familiare, come se ci conoscessimo. Caterina. Questo nome non mi è mai piaciuto. Riprendo la lettura dall'inizio e capisco che questa Caterina deve essere una straniera, una giovane infermiera magari, o studentessa, visto che la pioggia la coglie nel cortile dell'Università. E quale Università ? Non si capisce dove è ambientata la storia, lo stile è mediocre, i personaggi melensi, il tutto piuttosto banale e insignificante, ma... ecco che arriva Giovanni. E' proprio lui, lo sapevo. Leggo cinque pagine, giusto per indovinare che Giovanni è un docente universitario e la ragazza gli ha messo gli occhi addosso. O forse, non è ben chiaro, forse è lui che ha messo gli occhi addosso a lei, che, a quanto pare, "ha i capelli color cioccolato, la pelle di luna e gli occhi due gocce di mare". Disgustoso! Arrivo comunque alla fine del primo capitolo, perché ormai la febbre nervosa mi ha levato il sonno e temo che, al ricordo di Giovanni, mi suoni in petto l'allarme del cuore, pressione a duecentocinquanta, come le pagine di questa specie di liala fatto in casa. Farei meglio a bruciarle subito, hanno un che di perverso, ma il secondo capitolo comincia con un nome femminile che non può lasciarmi indifferente, visto che è il mio. "Elena avanzava incerta in un orribile paio di scarpe senza tacchi che la rendevano ancora più goffa". Questo è troppo. Afferro la penna con rabbia e sostituisco la prima parola del capitolo due. Ora è Lucia ad avanzare incerta e goffa nel corridoio dell'Ospedale. E per forza, ha appena saputo della sua malattia. Elena l'ha scampata per un pelo.

Ora i conti tornano: all'ombra della straniera bella e spregiudicata, sicuramente un'oca sciocca e presuntuosa, vivacchia la brutta, la donna informe e sfortunata, la perdente nata. Giovanni non ha scelta. Ci avrei scommesso, senz'altro la ragazzina. Per poi cambiare idea nel finale, perché nei romanzi succede come nei film, la vita è un susseguirsi di colpi di scena calcolati. Come quando vengo a sapere che lei aspetta un figlio da lui. Ma come ? Lui chi ? Giovanni ?

Questa storia confusa la riconosco, la prevedibile storia di R.C., la mia storia, difficile distinguere  il vero dal falso, ciò che è mio da ciò che è suo, non ce la faccio.

Nel cuore della notte, non posso più tirarmi indietro. Smonto i protagonisti insulsi costruiti da R.C. e le stesse figure cambiano, viste da una prospettiva diversa, dicono altre parole. Parlano un'altra lingua, vivono un'altra vita. Le frasi usuali riscritte daccapo danno alle pagine un nuovo, imprevedibile colore, guizzi di smalto brillante dove serve, dove la vicenda si allenta, pencola in basso, si scuce, si appende. Lui, lei, l'altra: una storia difettosa, scontata, svenduta. Non tira. Meglio lui, lei, lui. Non lui di lei, ma lui di lui, del marito. Ecco la novità, il marito omosessuale, ecco qual era il problema del suo matrimonio: la moglie.

Ci siamo, il dolore cattivo che ho lasciato depositato sul fondo comincia a cercare una voce, a gridare vendetta. La studentessa non è più una studentessa, ma una ballerina brasiliana che vuole tentare il salto di qualità, da puttana a velina, semplicemente cavalcando l'uomo giusto: Giovanni, appunto. Ho cancellato ventidue aggettivi e undici avverbi e sono appena a pagina sette. Scopro sulla mia pelle che la strana alchimia della scrittura è fatta di lettere e lacrime, di sangue e sudore. Non è come farsi un'orzata. Non basta diluire due dita di sciroppo in un bicchiere d'acqua e girare col cucchiaino. Quante volte ci ho provato, a scrivere, quanta melassa ho buttato, quante buone intenzioni strappate, prima di approdare alla scrivania del siamo-spiacenti.

Ora, invece, tutto mi viene facile seguendo la brutta copia di R.C.: lavo, strofino, pulisco, lucido, spolvero, passo la spugna. La storia resuscita, decolla, trova la strada, procede spedita. Correggo, modifico, metto e tolgo, pospongo, anticipo, taglio e ricucio. Inserisco. Plasmo. Riadatto. La storia di R.C. diventa la mia storia. Ho scritto il primo romanzo della mia vita, grazie gentilissima R.C..

"Gentilissima R.C.,

pur trattandosi di contributo pregevole e di indubbio interesse, ai fini della pubblicazione, l'opera da Lei proposta richiede alcune  modifiche, in linea con i nostri prossimi progetti editoriali. Certi di farLe cosa gradita, La invitiamo a contattare al più presto la nostra incaricata, al recapito  telefonico indicato. Cordiali saluti."

© Renata Di Sano





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