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La divoratrice di anime
di Davide Stocovaz
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Morgan Servillo aumentò la velocità. Con ambo le mani, scostò un intricato ammasso di cespugli, vi s’immerse. I rami aguzzi si impigliarono nella maglietta grigia, si infilarono nei calzoni verde assenzio, come volessero trattenerlo. L’uomo si scosse tutto, scalciò, si districò e riprese a correre. A ogni falcata, emetteva uno sbuffo d’aria. I polmoni gli bruciavano. Il fiato faticava a salirgli in gola. Continuò a correre, passando in mezzo a larici, a pini, scivolando tra rocce ingobbite che sbucavano dal terreno disseminato di foglie e rami.

Un abbaiare concitato appestava l’aria. Grida umane si alzavano in lontananza.

Servillo piegò a destra, senza una meta precisa.

Fuggire dal carcere, che s’innalzava solitario in mezzo alla foresta, non era stato uno scherzo. Fin dal primo minuto, da quando ne aveva varcato i cancelli, la sua mente era partita alla ricerca di un modo per uscirne. Aveva atteso paziente il momento opportuno, finché, approfittando della distrazione di una guardia, si era gettato in un carrello della biancheria sudicia. Il carrello era stato portato nel cortile esterno, poi a bordo di un furgone. Appena il veicolo aveva lasciato l’edificio, Servillo era uscito dal carrello, aveva spalancato la porta posteriore del mezzo ed era balzato a terra. Per sua sfortuna, il furgone non era ancora ben lontano dal carcere e una vedetta l’aveva subito individuato, lanciando l’allarme.

Ora, Morgan Servillo sperava di distanziare quanto più possibile le guardie che erano sulle sue tracce.

Si trovò ai piedi di un pendio. Lo discese, prendendo slancio. Lasciò correre le gambe. Evitò con grazia la marea di tronchi e rami che gli si paravano davanti, minacciandolo ogni passo. Balzò oltre a un tronco caduto di traverso. L’abbaiare si fece confuso. Sembrò più distante.

Servillo proseguì la corsa. Una vampata di calore gli risalì la gola. Per un attimo, l’aria venne a mancargli. Si fermò, piegandosi su se stesso. Esalò un gemito. Una rapida occhiata intorno gli fece capire che la foresta si estendeva ovunque, forse per chilometri. Trasse un respiro profondo, e riprese a correre.

Il crepuscolo iniziò a calare. Un vento si alzò da est, sfiorandogli le guance. Alzò lo sguardo al cielo. Con apprensione, vide nubi scure e rapide addensarsi come una parete compatta di tenebre, annunciando un violento temporale.

L’uomo proseguì l’avanzata. Ormai, comprese che non sarebbe mai riuscito a raggiungere un villaggio, o un qualsiasi altro centro abitato, prima dell’esplosione della tempesta.

L’oscurità si stese sulla foresta. Le nubi basse si fecero ancora più minacciose. Il vento si fece più deciso, violento. Un lampo distante rischiarò il cielo, seguito subito dopo da un rombo che echeggiò tra gli alberi. Gocce d’acqua iniziarono a cadere sulla sua testa.

Un attimo ancora, e scorse una luce; la luce di una finestra attraverso gli alberi e le tenebre. Ansioso di trovare un riparo, l’uomo si lanciò in quella direzione.

Per qualche istante, credette di imbattersi in una capanna o in una baracca di tronchi, perciò fu grande la sua sorpresa quando, scostata la fronda bassa di un larice, si trovò davanti a una graziosa villetta a due piani, in condizioni che testimoniavano cure precise e attente.

La luce proveniva da una finestra al piano terra. Saliti dei gradini, bussò forte alla porta.

Dopo qualche istante, una voce femminile, dai riflessi dolci, pronunciò una sola parola: “Avanti”

Spinse la porta, che non era chiusa a chiave. Entrò in un corridoio in penombra, rischiarato solo parzialmente dalla luce proveniente da un uscio aperto sulla destra. Oltre a esso, c’era una stanza ricolma di libri.

Servillo si chiuse la porta alle spalle. Non poté fare a meno di sentire uno strano odore: debole, indefinile, ricordava vagamente l’essenza di fiori di campo.

La ragazza, che aveva parlato, era seduta in una poltrona davanti a un tavolo centrale in marmo. Indossava una lunga veste verde-acqua, che le metteva in risalto i lineamenti esili del corpo, i seni minuti, le gambe lunghe. Il lucore di un’abat-jour le metteva in risalto il viso sottile, dai tratti dolci, i grandi occhi di un verde denso, tanto da sembrare neri nella penombra. I capelli castano scuro, dai riflessi rossicci, le ricadevano sulle spalle, mettendole in risalto la carnagione straordinariamente bianca, quasi fosse stata di avorio.

Benché esausto, Servillo si sentì avvampare da quella visione. Deglutì un nodo di saliva, la bocca gli riarsava, e non solamente per il bisogno insopportabile di un bicchiere d’acqua.

“Scusami il disturbo… cerco solo un po’ di riparo dal temporale.”

A conferma delle sue parole, ci fu un lampo accecante, il ruggito di un tuono, e lo scrosciare di una pioggia torrenziale che iniziò a picchiare impazzita alle finestre.

La ragazza sembrava ignorare la furia della tempesta. I suoi occhi diffondevano una serenità ipnotica.

“Sei il benvenuto. Ti offrirò tutta l’ospitalità necessaria.”

“Ho solo bisogno… ho solo bisogno di un bicchiere d’acqua… e di un letto caldo”, mormorò Servillo, stravolto.

“Certamente”, disse lei, alzandosi con disinvoltura. Gli passò davanti e si diresse lungo il corridoio, facendogli segno di seguirla. La ragazza non camminava, sembrava danzare leggiadra a ogni passo. Tutta la sua figura emenava un odore inebriante, fresco, non dissimile dall’acqua di rose, solamente più intenso.

Servillo la seguì in cucina, subito dopo il corridoio. Era uno spazio arioso, con un’isola di marmo al centro. La ragazza riempì un bicchiere d’acqua dal lavabo. L’uomo rimase in disparte, ad ammirare le sue movenze leggiadre. Quando lei gli porse il bicchiere, lui lo prese sfiorandole inavvertitamente una mano. Rabbrividì nel sentire il tocco della sua pelle morbida, soffice. Bevve tutto d’un sorso. Ne chiese ancora. Nel frattempo, fuori dalla finestra, sembrava si stesse scatenando un inferno: i lampi rischiaravano l’oscurità a giorno, mettendo in risalto le sagome degli alberi, mentre la pioggia sembrava voler entrare con forza nell’abitazione.

Servillo ingollò anche il secondo bicchiere d’acqua.

“Immagino sarai stanco… di sopra ci sono due camere da letto, una è per te, se vuoi”, mormorò la ragazza.

“Grazie, sei davvero molto gentile.”

Un sorriso radioso le si dipinse sulle labbra. Per un attimo, l’uomo sentì il pavimento mancargli da sotto i piedi.

“Vado… allora, vado”, mormorò.

“Prego… io resto ancora un po’ qui, leggerò un po’. Buona notte.”

Servillo si ritirò, salendo una piccola scala che emetteva gemiti legnosi a ogni suo passo. Si trovò davanti a due porte. Ne aprì una e trasse un respiro di sollievo. Una graziosa, quanto piccola, camera da letto gli si parò davanti; era arredata in modo semplice: un letto, un armadio contro la parete di destra, un tavolino a sinistra, vicino la finestra colpita ripetutamente dalla pioggia. L’uomo chiuse la porta, si trascinò nella stanza. E crollò sul letto.

Morgan Servillo non poté rendersi conto di quanto avesse effettivamente dormito. Si destò di colpo, col cuore in tumulto, il fiato strozzato. A giudicare dalla pioggia insistente, dal rombo continuo dei tuoni, sembrava di trovarsi nel cuore della tempesta. Ma non fu questa a destarlo. Era stato un grido, l’urlo acuto di un uomo, proveniente da qualche parte della casa.

Servillo rimase in attesa, in ascolto. Non sentì più nulla. Forse, si era trattato di una sua impressione. Infatti, non sembravano esserci altri inquilini nell’abitazione. Forse, si era trattato solamente di un incubo.

Servillo tornò a stendersi. Chiuse gli occhi. Scivolò in un sonno leggero, agitato. Nelle orecchie aveva il rombare dei tuoni, l’imperversare della pioggia. Poi gli sembrò di sentire dei latrati, degli ululati. Grida umane. Riaprì gli occhi. Il fatto di essere un ricercato sembrava non volergli dare tregua. Pensò alle guardie: forse, grazie alla tempesta, avevano interrotto le ricerche. Forse. Di certo, saranno state sorprese dal temporale. Sorrise nell’immaginarsele inzuppate, sperdute nella foresta, tra grida di rabbia e bestemmie.

Poi, un lampo rischiarò una figura, immobile all’altezza della porta d’ingresso. Servillo sgranò gli occhi, cercando di capire se si trattasse di un’illusione, di una svista. Calò il buio. Alzò il busto sul materasso, tese le orecchie. Non udì nessun suono di passi, solamente la pioggia insistente.

Rimase in attesa, serrando i pugni. Se la vista non l’aveva ingannato, non era solo nella stanza. Il cuore iniziò a pulsargli all’impazzata, lo sentiva martellare nella gabbia toracica. La saliva gli si azzerò nella bocca. Non riusciva nemmeno a deglutire.

Un altro lampo. La stanza biancheggiò. Il cuore dell’uomo parve fermarsi. Al capezzale c’era la ragazza. Il suo odore inebriante gli inondava le narici. Se ne stava immobile lì, le braccia lungo i fianchi esili. Aveva uno strano ghigno sinistro alle labbra sottili. Gli occhi, ora, parevano due tizzoni fosforescenti. Buio.

Servillo si sentì ritorcere le viscere; un macigno di marmo gli scivolò alla bocca dello stomaco.

Nel chiarore del lampo successivo, sobbalzò dalla sorpresa: il volto della ragazza era a qualche centimetro dal suo naso, gli occhi fissi nei suoi. Era scivolata sul letto con grazia felina, senza ch’egli potesse rendersene conto. La vide aprire la bocca. Vide piccoli denti seghettati rifulgere negli ultimi bagliori del lampo.

Servillo gridò. Si gettò a destra, rovinando a terra. Nel movimento, non sentì l’urto col corpo della ragazza che, come minimo, avrebbe dovuto subire almeno un colpo. Avanzò rapido verso la porta della stanza, tastando la parete. Colpì con la spalla uno spigolo del tavolo vicino la finestra. Si spostò a sinistra. Le sue mani annaspavano nel vuoto. Ci fu un lampo, e l’uomo vide la porta stagliarsi davanti a lui. Non si girò a guardare. Non ne ebbe la forza, né il coraggio. Abbassò la maniglia e si gettò lungo le scale. La mano destra raschiava la parete. La sinistra seguiva il corrimano di legno. Il corridoio era privo di finestre, perciò non riusciva a vedere per bene i gradini che scorrevano sotto le sue scarpe. Sentì il boato di un tuono. Nella fretta, preda del terrore più cieco, mise il piede destro troppo avanti rispetto a un gradino; la sua scarpa scivolò nel vuoto. Provò ad afferrare il corrimano. Le dita scivolarono sul legno, poi graffiarono l’aria.

Cadde. Rovinò lungo le scale. Al buio, nel moto della caduta, gli sembrò di stare all’interno di una centrifuga. Crollò sul pavimento del corridoio, espellendo tutta l’aria che aveva nei polmoni. Provava un dolore acuto lungo la spina dorsale; le altre parti del corpo, gambe, braccia, torso, sembravano coperti da tizzoni ardenti. Alzò lo sguardo. La ragazza era lì, immobile, davanti a lui. Vide la sua sagoma abbassarsi, divenire un’ombra più grande. Si sentì afferrare le braccia. Poi si sentì trascinare lungo il corridoio. Si sorprese non poco della forza di lei. Nel buio, udì una porta aprirsi, cigolare sui cardini. Sentì dei gradini colpirlo ritmicamente alla schiena. Stavano scendendo, probabilmente in una cantina. Dopo qualche secondo, sentì un pavimento duro sotto di sé. La ragazza lo lasciò. Servillo roteò gli occhi. Non riusciva a vedere nulla. Poteva solo sentire un odore acre, pungente, invadergli le narici. Ci fu il brillio di una lampadina. Poi la stanza venne rischiarata da un lucore verdognolo. L’uomo si sentì venir meno.

Una serie di ganci da macellaio correvano lungo la parete di destra. Appeso a uno di questi, c’era un uomo anziano: la testa abbassata sul petto; un rivolo di sangue gli colava dalle labbra immobili e macchiava il pavimento, allargandosi verso un cesto pieno di funghi.

Servillo girò la testa dalla parte opposta, il corpo scosso da brividi di gelo.

Vide un grande armadio di legno; copriva tutta la parete di sinistra; sulle mensole, tappezzate da ragnatele e veli di polvere, c’erano dei grossi contenitori di vetro. Parevano contenere lucciole bluastre, dalla luminescenza pulsante.

Servillo non comprese di cosa si trattasse. L’effluvio di acqua di rose coprì ogni odore. Volgendo il capo verso il soffitto, l’uomo poté vedere la bocca della ragazza spalancarsi; i denti seghettati guizzarono in avanti. La ragazza lo baciò, intensamente. Sentì la lingua morbida cozzare contro la sua. Poi, la ragazza inspirò a forza, con quanto fiato aveva in corpo.

Lui cercò di afferrarle i capelli, ma si sentì subito svuotare di ogni energia. La testa gli si fece stranamente leggera. Venne sopraffatto da un torpore intenso, persino piacevole. La ragazza lo inchiodò al pavimento. Fece una pausa, poi riprese ad aspirare con più decisione.

L’uomo abbandonò le braccia lungo il corpo. Un bagliore bluastro lo avvolse, accecandolo. Non riuscì a esalare nemmeno il gemito più flebile. Il bagliore crebbe di intensità. La vista gli si offuscò del tutto, ogni suono si spense, ogni odore svanì e Morgan Servillo scivolò in una tenebra densa, senza fine.

© Davide Stocovaz





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