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Quando ero piccolo mi succedeva una cosa strana. Una cosa di cui ho goduto, sino a quando ho capito. Poi non ho goduto più.
Camminando, per strada o da qualsiasi parte, le persone mi osservavano. Non so cosa cercassero, o cosa trovassero, però guardavano. In mille modi, sia buoni, sia cattivi. Perché la gente quando guarda… guarda. Cioè, alle volte insiste, arriva anche a rompere i cogl… e se ne accorge, ma continua. Intanto, cosa puoi dire.
Comunque, io mi accorgevo di essere guardato, e quando mi giravo per rispondere allo sguardo, lo alzavano un pochino, il loro, fino ai miei occhi. Che bello! Tanti, e lo sottoscrivo, mi sorridevano, ed erano sorrisi talmente belli da convincermi. Perché, giuro, io ero realmente sicuro di essere simpatico, carino, non zoppo. Purtroppo la mia convinzione che la Polio fosse equivalente ad una varicella o ad una rosolia, non aveva basi concrete, ma solo di comodo.
Non so, attraente per un bambino non si usa, ma qualcosa del genere. Sì, perché sorridevano a me, e soprattutto in quel modo, solo a me. Qualche volta, magari, nasceva il sorriso commiserevole all’indirizzo dei miei genitori, presumo rispedito al mittente. Quanta autostima ho accumulato in quel periodo! Per me passeggiare era rifocillante, anche se mi stancavo per colpa di una gambetta molto più debole dell’altra. Chissà perché gli occhi di un bambino non le vedono le cose dei grandi. Quando sentivo la parola “zoppo”, dedicata a qualcun’altro, non mi dava fastidio, non mi toccava neppure, io ne ero esente. Dopo, ho imparato ad odiarla e, fino a cancellazione avvenuta, continuerò a farlo.
Ero un bambino, forse questa è l’unica spiegazione, ma non mi consideravo uno di quelli, non lo so perché, però non poteva essere. Cioè, la mia testa non lo accettava, anzi non lo considerava affatto… forse si entra in protezione, a quell’età.
Poi in un giorno stupido, come la vita che lo comprende… tutto chiaro, di colpo.
Avevo un gruppetto di amichetti, eravamo quasi tutti coetanei, sette, otto anni. Io li avevo raggiunti, nel solito muretto, sotto casa. Come spesso capitava, uno di loro, Gianni, aveva portato, o dovuto portare, la sorellina più piccola. Tale Monica, quattro, cinque anni, bellina, bellina, con una voce decisamente squillante, e pronuncia non ancora formata completamente. Erano già trascorsi alcuni minuti, e successe la disgrazia. Non sto esagerando.
Monica: «Ma quando arriva quetto “tzoppo”?»
La cosa più strana fu il fatto che nessuno fiatò. L’imbarazzo dei bambini, quando riesce a prevalere, è più imbarazzo, ha qualcosa in più, forse perché viene gestito senza strani preamboli. E io guardavo in fondo alla strada, cercando qualcuno che non poteva esserci. Ancora silenzio, nessuno rispondeva, e quella domanda si rinnovava, con i suoi cinque anni d’insistenza e curiosità. Non ero sveglissimo, vero? Infatti, ho capito solo alla seconda strofa.
Monica: «Allora! Ianni! Ianni! Quando arriva quetto “tzoppo”? Dai! Quando arriva? Vojo vedello!»
Dai… rispondi, Gianni! Fottutissimo stronzo! Quando arriva? Eh? Sei sicuro che arriva? E se fosse già arrivato?
Lo sai, Gianni, quanto stavo bene prima? Di arrivare, intendo? A pensare che ero già arrivato, e non me ne ero accorto. Ma dove avevo la testa? Incredibile, non ho detto niente, mi sono voltato, ho iniziato a camminare verso casa, nel mio silenzio, zitto, zitto. Scoprire il dolore, alle volte può diventare più doloroso del dolore stesso.
Loro sono rimasti inchiodati al muretto, in un silenzio più grande del mio.
Per la prima volta, in quel pezzo di strada, che avevo fatto chissà quante altre volte per tornare a casa, ho sentito che il ritmo dei miei passi non era costante. Sembrava quasi che, trasformando in musica, sì, facessi una stecca. Una nota stonata, continua, che si ripeteva facendosi sentire non solo da me, ma da tutti, diventando sempre più forte, e scostante. Mi stavo incasinando, volevo scappare. Provavo a correre ma non ce la facevo, riuscivo solo a camminare, e molto peggio di quanto facessi di solito. Forse ero realmente ridicolo ma cercavo di dare un ordine al mio camminare, con molta attenzione. Loro, dal muretto, mi guardavano, ne ero sicuro. No, non potevo cadere, assolutamente, perché a quel punto tutte le cadute precedenti, evidentemente, non erano passate inosservate. Non era bastato dire che io non cadevo, che mi buttavo, perché intanto sarei caduto da lì a poco. Che strano come riescono a scomparire i colori, di colpo.
In quei casi Dio è impegnato in altro, ma La Madonna mi stava aiutando. E se non ci fosse stata Lei, ci sarebbe stato qualcun altro (se non c’è, te lo inventi). Mancava poco per uscire dalla loro visuale, ci stavo riuscendo, però quel rumore era sempre più forte, e mi faceva scoppiare le tempie. Il mio camminare stava litigando con non so quale parte del cervello, e mi dava fastidio, per la prima volta fastidio. Penso di aver provato quella che chiamano interruzione cerebrale. In pratica la coordinazione salta, ai comandi non risponde nessuna parte del corpo, tutto sembra che vada per fatti suoi, e abbia deciso di continuare a farlo. L’ho riprovata solo un’altra volta, quella sensazione, nel momento in cui mi è stata regalata la gioia di diventare padre, certo con un diverso significato ma con la stessa brutale intensità.
Poi, di colpo, loro, alle mie spalle, poggiati sul muretto, nelle stesse identiche posizioni di prima, che forti! Se non ci fossero stati loro, sarei caduto, ne sono certo, perché il rumore stava diventando insopportabile. Meno male, davvero, meno male che sono scoppiati a ridere, forte. Tanto forte da coprire i miei passi.
Poi in un giorno stupido, come la vita che lo comprende… tutto chiaro, di colpo. Vedi, che esistono i miracoli!
©
Cesare Furesi
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