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Una questione di cuore
di Luciano Urietti
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UNA QUESTIONE DI CUORE.
==============================
di Luciano D. Urietti.


Grant sentiva il cuore impazzirgli alle tempia. Stava appoggiato con le spalle alla porta della sua cabina. Ma sapeva che sarebbe stato tutto inutile. Loro sarebbero presto riusciti ad entrare ed a prenderlo.
Grosse gocce di sudore gli rigavano la fronte.
- Maledetto mercante arabo. - ansimò Grant. – E’ tutta colpa sua. -
Dall’esterno provenivano le urla dei suoi marinai disperatamente impegnati in quella lotta contro la morte. Il capitano Grant chiuse gli occhi e rivide la testa di Slide , il suo primo ufficiale di goletta, aprirsi come un frutto maturo sotto il terribile fendente che quel negro gli aveva vibrato usando le catene che gli serravano i polsi. Per alcuni istanti Slide aveva corso, urlando impazzito dal dolore, sul ponte della nave mentre cercava di prendersi fra le mani ciò che restava della sua testa orribilmente maciullata. Quella rivolta degli schiavi era iniziata così, e Grant sapeva bene che non si sarebbe conclusa sino a che un solo bianco fosse ancora vivo sulla goletta che ora filava lisca senza più comando sul tranquillo specchio dell’oceano in quella calma giornata di sole di quel 26 luglio del 1653.
In quell’epoca questo ben triste commercio di uomini era considerato alla stregua di una qualsiasi altra transazione di affari. E così veloci e capienti golette facevano la spola da una costa all’altra dell’ oceano atlantico trasportando schiavi dalla loro terra natia, l’ Africa, alle grandi piantagioni di cotone e tabacco impiantate nel nuovo mondo. Erano tempi in cui la schiavitù veniva accetta e tollerata in nome di un sempre maggior sviluppo delle colonie che gli imperi europei aveva dato vita in America.
Già, altri tempi, a noi ora cosi lontani negli anni e nel ricordo .
E già altre volte, in altri viaggi, il capitano Grant aveva visto gli schiavi lamentarsi, cercare di ribellarsi durante le uscite sul ponte per ‘ l’aria ‘ . Ma questa volta era diverso, improvvisa ed indomabile era scattata l’azione di quei ‘ diavoli neri ‘.
Quello non sembrava essere un carico di schiavi, ma un carico di demoni neri.
Era come se quei sette giorni passati dagli schiavi a marcire, incatenati nel buio delle stive, invece di indebolirli fiaccandone le forze, fossero stati per loro sette giorni trascorsi in preparazione di quel massacro. Grant, quando ormai credeva ammansiti quegli schiavi caricati sette giorni prima in Guinea, aveva ordinato ai suoi marinai di far loro prendere un po’ d’aria e di sole sul ponte della nave. Non voleva che quella bella ‘ partita di merce ‘ si deteriorasse troppo, non voleva trasportare dei cadaveri; nessuno glieli avrebbe comprati.
Ora, invece, fra urla di disperazione , imprecazioni di rabbia e gemiti di dolore, la sua nave si stava riempiendo di cadaveri. Ed erano tutti cadaveri dei suoi marinai.
Presto sarebbe toccato a lui. – Maledetto mercante arabo. - tornò a ripetere Grant.


Tutto era iniziato una quindicina di giorni prima, quando la goletta del capitano Grant aveva gettato l’ancora al largo delle coste della Guinea. Grant era sceso a terra con i suoi marinai ed aveva iniziato a cercare qualche mercante di schiavi che potesse riempirgli le stive di merce di ottima qualità. Più gli schiavi erano giovani e forti e più ci sarebbe stato di che arricchirsi una volta raggiunte le piantagioni americane. Ed era proprio per questo che Grant si era lasciato convincere da quel mercante arabo. Ain-Khilal aveva detto: - Conosco un capo tribù che potrà fornirci schiavi giovani, robusti e sani. Tutta merce buona. Il suo villaggio è a due giorni di marcia da qui, ma ne vale la pena. - E così si erano messi in marcia verso l’interno. Il caldo era insopportabile ed il sentiero appena marcato; il viaggio fu molto faticoso. Ma quando giunsero al villaggio indicato dal mercante arabo nel mezzo della foresta. Grant tornò di buon umore; ne era valsa veramente la pena. Gli schiavi che erano in vendita erano i più robusti e sani che lui avesse mai visto. Erano prigionieri di guerra che Elek Baksi, il capo tribù conosciuto da Ain-Khilal , era riuscito a catturare in una azione di brigantaggio nei confronti delle popolazioni che abitavano ancora più all’interno della foresta. Con l’aiuto di un interprete, Grant ed Ain-Khilal riuscirono a comprare dal capo negro quegli schiavi in cambio di pochi fucili, qualche pezzo di stoffa, ed alcune casse di pessimo whisky. Era stato un ottimo affare, quei negri si sarebbero vendute le mogli per del puzzolente whisky di infima qualità e di poco valore. I problemi per Grant incominciarono quando Ain-Khilal iniziò a parlare del suo compenso. – Sono stato io a farti concludere questo affare. E’ giusto che io abbia la mia parte. Ricaverai tanto oro quanto pesano da questi schiavi. Voglio anch’io un po’ di questa ricchezza. - Grant sapeva che quell’arabo era furbo quanto intrigante ed avido; sapeva che non avrebbe smesso di tormentarlo sino a che lui non avesse acconsentito alle sue richieste. Quell’arabo era così insistente e petulante nelle sue pretese di compenso che difficilmente si sarebbe accontentato del poco che aveva avuto il capo tribù. Quella partita di schiavi era veramente la migliore che lui avesse mai posseduto in tanti anni di viaggi, ma Grant ora non voleva dividere quel tesoro con nessuno. Tanto meno con uno sporco ed avido mercante arabo. Quel villaggio in mezzo alla foresta era il posto adatto, Ain-Khilal era solo e nessuno avrebbe mai più saputo niente di lui. E così Grant decise di chiudere per sempre i suoi rapporti con quel mercante : affondò rapido la lunga lama bianca del suo coltello nella gola dell’arabo, e quella gola finì per sempre di infastidirlo con le sue richieste di compensi. Questo si era svolto nella capanna assegnata dal capo tribù a loro due, quando però Grant ritirò la lama del suo coltello insanguinato si accorse che sulla soglia della capanna qualcuno, nel buio della sera, aveva assistito al delitto. Il capitano Grant rabbrividì, preparandosi a difendersi, l’ombra sulla porta della capanna venne avanti e lui si accorse con stupore che si trattava di Elek Baksi, il capo tribù. Per un momento i due uomini si guardarono in silenzio, poi il capo tribù guardò il cadavere di Ain-Khilal riverso al suolo, infine tornò a guardare Grant e scoppiò in una fragorosa risata. Grant esterrefatto aspettò che il negro spiegasse il suo strano comportamento. – Elek Baksi dice bene. – tradusse l’interprete negro quando il capo tribù si decise a parlare. – Ain-Khilal ha avuto ciò che meritava. Lui solo serpente velenoso, tu fatto bene ad uccidere serpente. - Grant emise un sospiro di sollievo; dunque era d’accordo anche quel ciccione negro. Tanto meglio; aveva temuto che potessero nascere delle complicazioni, ma così non era stato. Poi Elek Baksi invitò Grant ed i suoi marinai a cenare con lui. Il capitano Grant sarebbe ripartito il giorno dopo portandosi dietro quella gran bella partita di schiavi che ora non doveva più dividere con nessuno. Seduti attorno ai fuochi, mentre la notte aveva, nella foresta tutto intorno, mille voci, Grant ed i suoi uomini dovevano dimostrarsi ospiti soddisfatti ed accettare sorridendo tutto quanto veniva loro offerto. Contrariare Elek Baksi sarebbe potuto costare loro la vita. Anche se lì, nella notte lacerata dai fuochi, quei negri sembravano non essere capaci di far altro che rimpinzarsi smodatamente, ridere sguaiatamente e scolare scompostamente sdraiati quelle bottiglie di whisky ottenute in cambio dei loro fratelli neri ora incatenati nelle capanne; in realtà quei negri potevano diventare pericolosi. Grant lo sapeva bene. Ecco perché continuava a ridere, fingendo di essere completamente a suo agio e sforzandosi di consumare le piccanti e calde vivande che gli venivano offerte. Sul finire della festa Elek Baksi si voltò verso Grant e disse: - Anche tuoi schiavi … … devono mangiare - il negro che traduceva mostrava difficoltà a parlare a causa del troppo whisky - Non giusto loro niente … … Io molto generoso con loro .. … … loro essere tribù nemica, ma io molto generoso con loro. – e così dicendo il capo tribù fece un cenno ad un servo ed impartì un ordine secco, nella sua voce non vi era nessun segno del molto whisky bevuto, pareva che su di lui il liquore non avesse avuto nessun effetto. Grant rabbrividì al pensiero che quell’omone, così immune dal fumi dell’alcool, poteva aver ordinato che tutti i bianchi fossero uccisi. Quella tribù di invasati, ubriachi fradici come erano in quel momento, poteva ridurre lui ed i suoi uomini a pezzi, senza che per loro ci fosse alcuna speranza di fuga. Per un istante si sentì perso, mentre fredde gocce di sudore gli rigavano la fronte. Elek Bakshi parve cogliere negli occhi di Grant il terrore che si agitava nella sua mente, e quasi godendo nel sapere quel suo ospite bianco in preda al panico più disperato per un lungo istante tacque limitandosi a scrutare lo sguardo di Grant. Poi ancora una volta scoppiò in una forte e sguaiata risata e, dando di gomito al traduttore che gli sedeva di fianco, disse. – Ecco che torna il mio servo. - tra i bagliori dei fuochi comparvero due nere figure che reggeva una grossa pentola ricolma di carne ancora fumante. – Tuoi schiavi, loro molto piacere carne … … … io preparato loro buona carne. Così loro rimane forti, … … tu assaggia buona carne. - Elek Baksi scelse con cura un pezzo di carne ai bordi della pentola e l’offerse al capitano. Grant guardò il pezzo: era un bel pezzo di carne, ma cucinato certamente con salse così piccanti che gli avrebbero bruciato la gola. Però sapeva bene di non poter rifiutare. – Tu mangia questo buon pezzo… … carne molto buona. Io scelto apposta per te. - Grant si sforzo di dimostrasi il più calmo possibile, era importante dare l’impressione di essere sicuro e tranquillo,capace di controllare ogni timore e paura. Prese il pezzo di carne che gli veniva offerto e si costrinse a trangugiare quella vivanda ancora calda.
- Buono ? – chiese il capo tribù dopo aver seguito con attenzione il masticare veloce del suo ospite, quasi a voler accertarsi che nulla andasse sciupato di quel pezzo di carne fumante. Grant assentì con un ampio sorriso ed inchinandosi dopo aver tracannato un lungo sorso di whisky che lo aiutasse a spingere in fondo stomaco quanto gli aveva arso la gola. Quel modo di insaporire i cibi era veramente insopportabile per chi non ne fosse sin da piccolo abituato.
- Bene … … ora tu sai … … tuoi schiavi mangia bene. - ed ad un cenno i servi portarono quella pentola verso le capanne ove erano rinchiusi gli schiavi. – Io do loro carne … perché loro piace molto carne. – disse Elek Baksi dopo un lungo sorso di whisky. – Loro mangiare sempre molta carne … … … loro mangia anche miei uomini quando loro cattura miei uomini. – A queste parole Grant si sentì gelare: erano cannibali. Aveva comprato de cannibali. Ancora una volta Elek Baksi sembrò accorgersi del terrore negli occhi di Grant, ma questa volta non se ne compiacque, anzi si affrettò a dire, quasi a voler rassicurare il suo ospite. – Ora loro non più mangiare uomini … … . ora tuoi schiavi, forti catene loro mani e loro piedi. Ora loro non più mangiare uomini se tu non volere. – e nuovamente quell’omone nero scoppiò in una fragorosa risata.
Il capitano Grant cercava di dominare la paura, ma sapeva di essere impallidito e si sentiva colare il sudore gelato lungo la schiena.
- Loro tribù mangia guerrieri nemici.... - continuò Elek Baksi - perché dice prende coraggio di nemico mangiato … … loro mangia cuore, cervello, fegato braccia, mani, muscoli tutti di guerriero nemico perché dice prende sua forza, sua potenza e astuzia di nemico mangiato – il grande capo tribù era tornato serio - … … una cosa solo loro non mangia … loro non mangia piede di nemico … perché piede serve a scappare. Se loro mangia piede loro prende paura di nemico e loro scappa. –
Grant seguiva quel terrificante racconto sforzandosi di capire le reali intenzioni di Elek Baksi, e quanto questi tornò a sghignazzare aggrappandosi al collo di una bottiglia, lui si sentì meglio. Probabilmente anche Elek Baksi stava incominciando a patire gli effetti della grande bevuta ed aveva raccontato quella storia solo per spaventarlo e divertirsi alle sue spalle.
Ciononostante Grant si sentì più tranquillo solo quando la mattina seguente lasciò il villaggio per tornare alla sua goletta; gli schiavi furono incolonnati e Grant si preoccupò personalmente di controllare che le catene fossero strettamente serrate ai loro polsi ed alle loro caviglie.
Anche il ritorno verso la goletta fu un viaggio faticoso, ma tutti quanti, sia il capitano Grant, sia i suoi uomini erano quanto mai impazienti di poter quanto prima rimettere piede sulla loro nave e salpare verso l’America. Solo quando gli schiavi furono stivati ed incatenati in quel loro buio inferno, tutto l’equipaggio si senti più scuro. Furono dispiegate le vele e la goletta prese il largo; il vento era favorevole e l’oceano calmo, tutti credettero che ora non rimaneva loro che giorni di tranquilla navigazione … … .

La porta della cabina del capitano Grant crollò sotto i colpi dei rivoltosi negri. Grant vide due colossi neri venire avanti brandendo come armi le catene che legavano i loro polsi. Lui sparò contro di loro, ma con terrore si accorse che quegli schiavi continuavano ad avanzare. Era la fine. Dietro ai primi due negri veniva un terzo che stringeva fra le mani un lungo coltello. Alla vista di quella lama Grant si ricordò della lama del suo pugnale lorda del sangue di Ain-Khilal, gli parve di sentire il tepore di quel sangue macchiargli ancora le mani. Con un urlo di terrore corse nell’angolo opposto della cabina, cercando infantilmente di rifugiarsi dietro la cuccetta. Gli schiavi negri continuavano ad avanzare verso di lui. Vide che uno sanguinava dal petto. Grant lo aveva colpito, ma il negro sembrava insensibile alla ferita e gli era ormai sopra. Il capitano Grant avrebbe voluto poter sprofondare nell’oceano pur di evitare quei negri. E fu a quel punto che si accorse di essere sempre scappato, sin dall’inizio della rivolta degli schiavi. Era proprio per quella sua fuga che i suoi marinai erano rimasti in balia dei loro assalitori; lui non aveva neanche tentato di organizzare la difesa della nave, non aveva dato nessun ordine, ne si era posto al comando dei suoi marinai. Si era subito precipitato a cercare rifugio nella sua cabina, si era limitato a scappare come un coniglio in preda al terrore. Perché ? Perché quella fuga così vergognosa e stupida ? Improvvisamente a rispondergli fu un sapore che gli ritornò in gola. Rimase quasi folgorato da quel sapore e paralizzato da quanto quel sapore stava svelandogli.
Era un sapore di carne cucinata con abbondanza di salse. Era incredibile, ma dopo così tanti giorni quel sapore gli si risvegliò in gola come se avesse appena mangiato quel pezzo di carne offertogli da Elek Baksi. Ed in quel momento tutto fu chiaro, in quel momento la spiegazione di quel suo fuggire come un coniglio terrorizzato lo fulminò con lucente , innegabile logica. Ora ne era sicuro: quel pezzo di carne altro non era che… un pezzo di piede di Ain-Khilal. Lui aveva mangiato un pezzo di piede dell’arabo che aveva assassinato appositamente cucinato per lui ed offertogli da Elek Baksi …. Loro no, i suoi schiavi, loro aveva mangiato tutto il resto, ma certo non i piedi.
La lama del lungo coltello che il negro stringeva gli entrò nel petto quasi a voler liberare chi in quel petto stava impazzendo.
Sentì il freddo di quella lama mitigarsi al tepore del suo sangue.
Poi Grant fece ancora in tempo a pensare: “ Stanno cercando il cuore ... il mio cuore …


Fine.

© Luciano Urietti





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