12 settembre 2001
Anir, stanca, si trascina nel deserto infuocato.
Non è stata un'impresa facile, ma per fortuna è tutto finito. Le torri sono cadute come castelli di sabbia; l'egemonia americana è stata scalfita, l'orgoglio arabo riprende quota.
Il sole dardeggia raggi infuocati in un cielo fulvo ed incandescente.
Al suo fianco Sayed avanza con fatica, a passi lenti e precisi. Anir è sfinita, quando giungono al villaggio. Sono accolti con gli onori riservati ai capi di stato. Sayed è avvolto da abbracci di calore e stima. Anir subisce le cure di donne premurose che gli offrono cibo e acqua.
La sera è calata, il deserto volge il suo lato più freddo e l'intero villaggio si raduna intorno al fuoco. I capi discutono delle prossime mosse, prevedono con presuntuosa esattezza la loro vittoria. Anir in disparte, rincuora gli animi delle famiglie dei kamikaze che hanno donato la loro vita per una causa che qualcuno aveva deciso era giusta. Racconta ciò che vogliono ascoltare: con quanto onore si sono lanciati in quelle torri di vetro, con quanta fermezza hanno tenuto a bada i passeggeri e l'equipaggio, sordi alle loro imprecazioni e suppliche.
Dopo, tutti si abbandonano al sonno.
15 settembre 2001
Anir è svegliata da uno strano presentimento o, forse, da un rumore.
Indossa il burka ed esce dalla tenda.
Un finto silenzio non la convince; un altro sguardo intorno e dà l'allarme.
In pochi minuti tutti sono armati e pronti per combattere un nemico ancora invisibile. Il capo del villaggio punta Anir con sguardo torvo, ma le sue ragioni non si lasciano attendere: il rumore di un aereo che si avvicina desta i guerrieri che con un grido esorcizzano la paura.
Dalle dune, soldati americani sbucano inferociti e armati di coltelli e pistole. Pochi secondi ed è carneficina. Sangue e teste sgozzate affondano nella sabbia incandescente.
Anir guarda impietrita la scena. Non è tutto quel sangue a fargli orrore, ma i capelli dorati di un soldato che nella foga della battaglia ha perso il suo casco, scoprendo la gialla chioma. Anir lo guarda stupita, mentre uccide i suoi fratelli, le sue amiche del cuore, e anche i figli di Hamman che abbracciano la madre morente. Lo riconoscerebbe in mezzo a mille; si stropiccia gli occhi, non vuole crederci, ma Tommy, il suo amore, è lì e sta contribuendo a quell'orrore con sadica professionalità.
Lo aveva conosciuto durante i suoi viaggi di preparazione in America e se n'era subito innamorata.
Si sarebbero dovuti incontrare a Parigi tra due settimane, e invece è davanti a se con una pistola in mano e odio negli occhi.
Non è lo stesso Tommy che su una panchina a Manhattan, l'ha baciata, arrossendo un poco. No, non può essere lui. Forse è un miraggio creato da questo deserto maledetto.
Anir brandisce una spada che un guerriero ha abbandonato per raggiungere il regno di Allah e con la punta tesa avanti a se corre in mezzo a quella orgia di sangue urlando amore e rabbia in direzione del suo Tommy.
Il militare si volta, vede un balugino e un lieve dolore. La spada gli è entrata nella spalla sinistra, ma lui è allenato a questo, è un milite, lui. Così schiva il secondo colpo, para il terzo, al quarto centra lo stomaco di quella isterica sconosciuta. Il corpo di Anir si accascia a terra, al soldato gli sembra di sentir sussurrato il suo nome, mentre il corpo scivola nella sabbia. Si avvicina a lei porgendogli l'orecchio; di nuovo quel sussurro, di nuovo quel nome: Tommy.
Il soldato è preso da sgomento, le mani gli tremano, mentre sfila il cappuccio del burka.
Intorno a lui, silenzio. Gli uomini che danzano quel ballo di morte sguainando spade, non sono più guerrieri, non sono più soldati ma mosche fastidiose.
Anir lo guarda con i suoi occhi neri. Tommy piange e la stringe forte a se. Anir è immobile. Sa che la sua vita è solo qualche battito di ciglia ancora. Vorrebbe dire tante cose al suo Tommy: dichiarargli il suo amore, e quanto forte è stato il desiderio di condividere il sogno di un futuro senza bandiere.
Vorrebbe lasciarlo donandogli un'ultima frase, una frase da portare nel cuore per tutto il resto della vita. Una frase come una canzone, di quelle belle che lui gli faceva ascoltare alla blanda luce della luna, una frase che, sentirla ogni volta, gli farebbe ricordare di Anir e dei suoi occhi corvini, una frase memorabile, speciale come un verso di una poesia... ecco, una poesia, una rima da recitare...la mente veloce si porta ai maggiori scrittori statunitensi: Gardner, Hemingway, Capote, Wolfe, ma niente gli sembra adatto. La mente vaga per stade ripide e tortuose mentre il battito rallenta. Tommy gli accarezza i riccioli neri, mentre le lacrime scivolano e si nascondono tra le pieghe del burka.
Uno scatto di memoria, un'iperbole intuitiva riporta nella mente di Anir il ricordo del folle amore tra Clorinda e Tancredi: Gerusalemme liberata, di un autore italiano dal nome strano e cognome buffo. La imparò quasi tutta a memoria, restò folgorata e rapita da quella prosa così musicale e piena di vitalità.
Anir, capisce subito quale passaggio lasciare in dono al suo amore, inspira forte e con la forza dell'ultimo anelito, sussurra: Tu per me prega / sì che fedel amore possa / in ogni fortuna a te raccorsi.
Dopo, buio e silenzio.