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Dante e l’esilio
di Riccardo Renzi
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Dante e l’esilio

L’indagine sull’esilio dantesco e le sue motivazioni si rivela fin da subito cosa assai ardua. Una prima problematica origina dalle accuse che hanno spinto i guelfi neri[1] a esiliarlo, queste sembrano pretestuose e ripetitive rispetto a quelle degli altri condannati. Basti pensare che tra le colpe imputate al Poeta è presente l’opposizione al papa e a Carlo di Valois[2]. Dante nei suoi scritti non derogò mai la sua iniziale posizione d’innocenza. D’altro canto non si può però immaginare che il Comune di Firenze, e per lui i guelfi neri, lo avesse accusato del tutto ingiustamente, solamente per voci circolanti in città. Gli oppositori politici condannando Dante vogliono attaccare direttamente la sua autorità, la sua “nobile figura”, poiché il poeta già in quegli anni era considerato un grande intellettuale e politico. Solo attraverso la condanna all’esilio i guelfi neri poterono scalfire la sua figura marmorea. Un dato rilevante è che Dante smise di essere un guelfo bianco agli inizi del 1303[3]. Sicuramente in un primo momento bramò di rientrare a Firenze, ma col passare del tempo si affezionò all’idea dell’esilio e ad un rientro in pompa magna per meriti letterari. Per quanto concerne tale questione si può affermare che il Poeta in tutte le sue opere non fece nulla per chiarire l’ambiguità sentimentale riguardante l’esilio. Illuminanti risultano essere le parole dell’esordio del Paradiso: 

«Se mai continga che ’l poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra,
sì che m’ha fatto per molti anni macro,                     
vinca la crudeltà che fuor mi serra
del bello ovile ov’io dormi’ agnello,
nimico ai lupi che li danno guerra;                         
con altra voce omai, con altro vello
ritornerò poeta, e in sul fonte
del mio battesmo prenderò ’l cappello;                    
però che ne la fede, che fa conte
l’anime a Dio, quivi intra’ io, e poi
Pietro per lei sì mi girò la fronte»[4].

A tale testimonianza si aggiunga che nelle sue opere ad un certo punto finiscono i continui richiami al suo stato di povertà dovuto all’esilio, tanto presenti nel Convivio e nel De vulgari eloquientia. Un’ulteriore testimonianza ci viene da Rime 15, CXVI, vv. 76-84: 

«O montanina mia canzon, tu vai:
forse vedrai Fiorenza, la mia terra,
che fuor di sé mi serra,
vota d’amore e nuda di pietate;
se dentro v’entri, va dicendo: Omai
non vi può far lo mio fattor più guerra:
là ond’io vegno una catena il serra
tal, che se piega vostra crudeltate,
non ha di ritornar qui libertate»[5].

Bisogna anche chiedersi chi altro fu esiliato in quel 1315, oltre a Dante e i suoi figli? Perché i fiorentini amarono così tanto il Poeta da rivendicarne le spoglie? Tutte le biografie dantesche riservano agli anni dell’esilio una sezione predominante, lasciando pochissimo spazio alla sua vita prima dell’esilio, i dati relativi alla sua vita si fanno assi tenebrosi proprio tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento[6]. Per la ricostruzione della vita dantesca e del suo esilio è bene basarsi sulle opere del poeta più che su dati incerti provenienti da fonti esterne. È risaputo che già prima della mitizzazione voluta dal Boccaccio, agli inizi del Trecento circolavano per Firenze numerosissimi commenti al poema[7]. Di contro a questa enorme fortuna post-mortem si oppone l’episodio del rogo a Bologna nel 1329 del De Monarchia attuato da Bertrando del Poggetto[8], nipote del papa[9]. Dell’episodio ci parla Giovanni Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante: 

Questo libro[10] più anni dopo la morte dell’auttore fu dannato da messer Beltrando cardinale del Poggetto e legato di papa nelle parti di Lombardia, sedente Giovanni papa XXII. E la cagione fu perciò che Lodovico, duca di Baviera, dagli elettori della Magna eletto in re de’ Romani, e venendo per la sua coronazione a Roma, contra il piacere del detto Giovanni papa essendo in Roma, fece, contra gli ordinamenti ecclesiastici, uno frate minore, chiamato frate Pietro della Corvara, papa, e molti cardinali e vescovi; e quivi a questo papa si fece coronare. E, nata poi in molti casi della sua auttorità quistione, egli e’ suoi seguaci, trovato questo libro, a difensione di quella e di sé molti degli argomenti in esso posti cominciarono a usare; per la qual cosa il libro, il quale infino allora appena era saputo, divenne molto famoso. Ma poi, tornatosi il detto Lodovico nella Magna, e li suoi seguaci, e massimamente i cherici, venuti al dichino e dispersi, il detto cardinale, non essendo chi a ciò s’opponesse, avuto il soprascritto libro, quello in publico, sì come cose eretiche contenente, dannò al fuoco. E il simigliante si sforzava di fare dell’ossa dell’auttore a etterna infamia e confusione della sua memoria, se a ciò non si fosse opposto un valoroso e nobile cavaliere fiorentino, il cui nome fu Pino della Tosa, il quale allora a Bologna, dove ciò si trattava, si trovò, e con lui messer Ostagio da Polenta, potente ciascuno assai nel cospetto del cardinale di sopra detto[11].

La distruzione dell’opera in pubblico, fu per il Boccaccio quasi un atto sacrilego, poiché la grandezza di Dante è sacra. Il rogo però non servì a molto, poiché già pochi anni dopo l’opera torno in auge. 

Tornando a discutere dell’esilio e della sua mitizzazione, come già detto in precedenza, il Poeta col passare del tempo si affezionò all’idea dell’esilio e a un ritorno glorioso a Firenze solo attraverso meriti letterari. L’unico modo per raggiungere ed ottenere tale gloria è la stesura di un’opera che rimanga nei secoli, un poema eterno che trascenda il terreno: la Commedia. Quest’opera rappresenta per il Poeta il riscatto che brama da tutta la vita. Il mezzo con il quale rientrare nella città natia in trionfo. 

L’opera è impostata come un continuo cammino e pellegrinaggio, propri solo di chi ha vissuto una vita in continuo movimento. Nel primo verso dell’opera[12] gli accenti di sesta e di decima cadono sulle parole cammin e vita, ciò naturalmente non è un caso, ma si vuole sottolineare che ad un certo punto la vita del Poeta diviene itinerante. Inoltre è presente la metafora della vita come un cammino ed un eterno pellegrinaggio. Nel verso un elemento salta all’occhio, il plurale «nostra vita», che sta a sottolineare che la vita di tutti è un continuo cammino, non solo quella del Poeta che ha vissuto la sciagura dell’esilio. Bisogna inoltre aggiungere che i temi del cammino sacro e del pellegrinaggio, nel Medioevo, assumono un significato sacro e rituale, l’homo viator in cammino verso la patria celeste. La vita come cammino e viaggio non è dunque nella cultura cristiana un’allusione generica, ma un chiaro riferimento al pellegrinaggio verso una meta santa o verso il regno dei cieli. Ogni uomo ha vissuto un esilio interno, dovuto all’allontanamento da Dio (dovuto alla nascita) e la vita non rappresenta altro che un lento cammino di ritorno a Dio. Dunque, il Poeta vive due esili, il primo comune a tutti gli uomini, dovuto all’allontanamento da Dio, il secondo, quello terreno, voluto dai guelfi neri[13]. Sarebbe impossibile comprendere le numerose immagini di pellegrinaggio presenti nella Commedia, se non fossero collegate al macro-tema dell’esilio. 

Nella Commedia il tema dell’esilio è stato studiato soprattutto come specchio di quello reale vissuto dal Poeta. Ma mediante un’analisi più attenta si comprende come tale esperienza concreta di Dante, «l’esilio diventa l’immagine, la metafora fondamentale per comprendere la condizione e il destino dell’uomo, sia nella sua dimensione terrena, sia in quella ultraterrena»[14]. Nella Commedia la parola “esilio” è pronunziata solamente sei volte e solo una di queste allude all’esilio politico e terreno del Poeta, quella pronunciata da Cacciaguida (Par. XVII 57)[15]. Dunque si può affermare con forza che, fatta eccezione per il prof. Ledda[16] che ha concentrato la maggior parte dei suoi studi sul concetto dell’esilio ultraterreno in Dante, tutti gli altri studiosi hanno rivolto troppo la loro attenzione solo all’esilio politico. 

Il Poeta trova nell’esilio politico dei significati più ampi, più profondi, che si allacciano con quelli ultraterreni e che cingono tutta l’umanità. tale immagine è fatta pronunciare nella Commedia proprio ad Adamo, il quale dovette vivere in esilio, lontano da Dio, per un totale di 5232 anni, precisamente 930 anni di vita sulla terra più altri 4302 anni passati nel Limbo, da dove poi lo libererà Cristo[17]. Dante ad un certo punto della sua vita prende coscienza del fatto che esiste un solo esilio, quello ultraterreno, quello che comporta l’allontanamento e il lungo riavvicinamento a Dio, dunque dinnanzi a tale esilio, quello politico, quello terreno, inizia a perdere di valore. Tale ragionamento spiegherebbe bene perché il Poeta ad un certo punto della sua vita smetta di lamentarsi per il suo esilio politico, anzi inizia ad abituarsi, quasi ad amare l’idea di “esser sempre forestiero”. L’esilio ultraterreno, assume un’importanza maggiore rispetto a quello terreno, poiché molti uomini saranno condannati ad esser esuli in eterno, per qualcuno non finirà mai. La vera definizione della dannazione, dell’eterna condanna all’Inferno, non è attraverso la poena sensus, le diverse pene che i dannati subiscono, ma attraverso la poena damni, l’eterna esclusione dalla possibilità di tornare a Dio: «l’etterno essilio» (Inf. XXIII 126)[18]. L’esilio eterno, o meglio l’eterna dannazione, brucia l’uomo dall’interno, poiché gli toglie ogni speranza di salvezza, ogni speranza di ricongiunzione con il padre, con Dio.

La parola “essilio” è presente anche nel Purgatorio, qui la parola è pronunciata da Virgilio che incontrando un’anima del Purgatorio in cammino per il monte della penitenza, che poi si rivelerà essere quella di Stazio, la saluta così: «Nel beato concilio / ti ponga in pace la verace corte / che me rilega ne l’etterno essilio» (Purg. XXI 16-8). 

All’esilio dal regno dei cieli, nell’interpretazione cristiana medioevale, sono collegati due episodi biblici: l’esilio del popolo eletto e la schiavitù in Egitto[19] o a Babilonia[20]. Tali esili divengono l’immagine dell’esiliato sulla terra, condannato dalla schiavitù del peccato e lontano da Dio, mentre la liberazione dalla schiavitù, la fine dell’esilio, il ritorno a Gerusalemme diventano immagini della liberazione dell’uomo dall’esilio terreno per tornare a Dio. Solo Dio può liberare l’uomo dalla condizione originaria del peccato, tale condizione riduce l’uomo all’esilio. Non a caso, all’inizio del Purgatorio le anime che giungono, traghettate dall’angelo nocchiero, sulla spiaggia del Purgatorio, pronte a iniziare il processo di penitenza che le porterà alla salvezza, intonano il salmo 113, In exitu Israel de Aegypto, il salmo che celebra la liberazione del popolo ebraico dall’esilio in Egitto (Purg. II 46). L’altro esilio, quello babilonese, è invece ricordato nel Paradiso, dove sono descritte la gloria e la bellezza della beatitudine, che viene definita un tesoro conquistato attraverso il pianto e la sofferenza nella vita terrena, chiamata appunto «lo essilio / di Babillòn»: «Quivi si vive e gode del tesoro / che s’acquistò piangendo ne lo essilio / di Babillòn, ove si lasciò l’oro» (Par. XXIII 133-5).

La Commedia si presenta quindi come un percorso di purificazione non solo del Poeta, ma dell’intera umanità. Da una situazione di «essilio»[21]da Dio, mediante la pena della vita terrena, si ritorna a Dio. A questo punto si presentano tre tipologie di uomini: coloro che non potranno mai tornare a Dio e che vivranno un esilio eterno (i condannati all’Inferno; quelli che prima di tornare nella grazia di Dio dovranno scontare la loro pena per i peccati commessi sulla terra (i condannati al Purgatorio); infine coloro che dopo l’esilio terreno potranno riconciliarsi subito con Dio (i beati in Paradiso). Il poema riassume dunque tutta l’esistenza dell’umanità. 

Il “poema sacro” si collega anche alla redenzione terrena di Dante, mediante il quale egli vuole raggiungere la gloria poetica e il rientro trionfale in patria. Il Poeta spera di poter tornare a Firenze e ricevere l’incoronazione poetica nel Battistero di San Giovanni[22], dove aveva ricevuto il battesimo. Il poema va però oltre all’esilio politi, come già sottolineato in precedenza e rovescia i termini della questione. Beatrice sottolinea nello stesso canto XXV del Paradiso il privilegio che è concesso a Dante: «però li è conceduto che d’Egitto / vegna in Ierusalemme per vedere, / anzi che ’l militar li sia prescritto» (Par. XXV 55-7)[23]. Il Poeta è un unicum, un privilegiato, a cui è concesso andare nell’aldilà e di tornare sulla terra per poter raccontare ciò che ha vissuto agli altri uomini. Da esiliato, da ultimo tra gli ultimi, come per contrappasso, diviene un privilegiato. Tale situazione è vissuta dal Poeta come un premio divino che riscatta le sofferenze terrene dovute all’esilio. 

Potremmo dunque dire che la Commedia rappresenti sia il riscatto terreno, che quello celeste dalle due situazioni di esilio, quella terrena da Firenze e quella divina dal regno dei cieli.

Note: 

[1] I guelfi bianchi e i guelfi neri furono le due fazioni in cui si opposero, intorno alla fine del XIII secolo i guelfi di Pistoia prima e successivamente quelli di Firenze, ormai il partito egemonico in città dopo la cacciata dei ghibellini. Le due fazioni lottavano per l’egemonia politica, e quindi economica, in città. A livello della situazione extracittadina, seppur entrambe sostenitrici del papa, erano opposte per carattere politico, ideologico ed economico. I guelfi bianchi, favorevoli alla signoria, erano un gruppo di famiglie aperte alle forze popolari, perseguivano l’indipendenza politica ed erano fautori di una politica di maggior autonomia nei confronti del pontefice, rifiutandone l’ingerenza nel governo della città e nelle decisioni di varia natura. I guelfi neri, invece, che rappresentavano soprattutto gli interessi delle famiglie più ricche di Firenze, erano strettamente legati al papa per interessi economici e ne ammettevano il pieno controllo negli affari interni di Firenze, incoraggiando anche l’espansione dell’autorità pontificia in tutta la Toscana. La rivalità tra i guelfi bianchi e i guelfi neri fu al centro della vita sociale e politica, tra la fine del XIII secolo e il primo decennio del Trecento a Firenze, a Pistoia e in altre città della Toscana. Episodi storici legati ai contrasti nati all’interno del Partito guelfo sono ampiamente trattati nella Divina Commedia, che proprio in quegli anni veniva scritta da Dante Alighieri. Si veda F. Cardini, Guelfi e Ghibellini, in La piazza e il chiostro. San Pellegrino Laziosi, Forlì e la Romagna nel tardo Medioevo. Atti delle giornate di studio tenutesi a Forlì il 3 e 4 maggio 1996, pp. 111-126.

[2] Carlo di Valois (Valenciennes, 12 marzo 1270 – Nogent-le-Roi, 16 dicembre 1325) è stato conte di Valois dal 1286, per matrimonio fu inoltre Conte di Angiò e del Maine dal 1290, inoltre anche conte d’Alençon dal 1291 e conte di Chartres dal 1293 alla sua morte. Fu inoltre Imperatore consorte titolare dell’Impero Romano d’Oriente dal 1301 al 1308 e re titolare d’Aragona dal 1283 al 1295. Era il terzogenito del re di Francia Filippo III e di Isabella d’Aragona e quindi fratello del re di Francia, Filippo IV. Carlo è l’iniziatore della dinastia Capetingia cadetta dei Valois che regnò sulla Francia a partire dal suo stesso figlio, Filippo VI. Si veda D. Carron, Il principe ’senzaterra’ : Carlo di Valois, in Nel Duecento di Dante: i personaggi, a cura di Franco Suitner , 15, pp. 283-306.

[3] C. Marchi, Dante in esilio, Milano, Longanesi, 1964, p. 123.

[4] Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di E. Malato, Roma, Salerno editore, 2018, p. 899. Commedia, Paradiso, canto XXV, vv. 1-12.


[5] Dante Alighieri, Rime, a cura di Gianfranco Contini, Torino, Einaudi, 1973, p. 232.


[6] R.W.B. Lewis, Dante Alighieri: una biografia attraverso le opere, traduzione di Giuseppina Oneto, Roma, Fazi, 2005, pp. 41-42.


[7] E. Tonello, Il testo della ’Commedia’ nelle ’Esposizioni’ di Boccaccio, in Intorno a Boccaccio/Boccaccio e dintorni 2015: atti del seminario internazionale di studi (Certaldo Alta, Casa di Giovanni Boccaccio, 9 settembre 2015), a cura di Stefano Zamponi, Firenze, Firenze University press, 2016, pp. 109-127.


[8] Bertrando nacque da una nobile famiglia originaria del Quercy, ed avviato – in quanto figlio cadetto – alla carriera ecclesiastica: in questa scelta influì senz’altro lo zio materno di Bertrand, Jacques Duèze, all’epoca vescovo di Avignone e futuro Papa con il nome di Giovanni XXII. Ottenuto il dottorato in teologia ed in diritto canonico, Bertrando, con la protezione dello zio vescovo, iniziò ad accumulare diversi benefici ecclesiastici: canonico della chiesa di Notre-Dame de Pont-Fract (1310) e poi decano di Issigeac (1312). Nel 1316 il suo protettore divenne papa, prendendo il nome di Giovanni XXII: questi gli concesse ulteriori titoli quali quello di canonico della cattedrale di Narbona ed arcidiacono di Le Mans. Il 17 dicembre di quello stesso 1316, infine, Giovanni XXII lo elevò alla porpora cardinalizia con il titolo di San Marcello. La cattività avignonese aveva indebolito l’autorità pontificia sull’Italia. Del vuoto di potere creatosi aveva approfittato l’imperatore Ludovico il Bavaro per rinvigore i suoi sostenitori italiani, i ghibellini (contrapposti ai guelfi, sostenitori del Papa). Aveva quindi conferito il titolo di vicario imperiale a Matteo Visconti, signore di Milano: costui aveva intrapreso una poderosa campagna bellica nell’Italia settentrionale (1314-1316), conquistando Pavia, Alessandria, Tortona, Vercelli, Parma e Piacenza. Il signore di Verona Cangrande della Scala, nel frattempo, stava estendendo i propri possedimenti in Veneto e Passerino Bonacolsi, signore di Mantova, aveva ottenuto il controllo su Modena. Per fronteggiare l’aggressività ghibellina, nel 1314 Clemente V (un mese prima di morire) aveva nominato vicario pontificio Roberto d’Angiò, re di Napoli e principale sostenitore della politica guelfa in Italia, assieme alla Repubblica di Firenze. Giovanni XXII, succeduto a Clemente V dopo più di due anni di vacanza della Santa Sede, si affrettò a riconfermare la nomina fatta dal suo predecessore. L’aspra politica antighibellina di Giovanni XXII (il quale diffidò i Signori di Milano, Verona e Mantova dal fregiarsi del titolo di vicari imperiali, non riconobbe l’elezione imperiale e fece scomunicare Matteo Visconti per eresia), portò ad una consolidazione del fronte ghibellino, capeggiato dai Visconti di Milano, gli Scaglieri di Verona, e i Bonacolsi di Mantova, sostenuti dall’imperatore Ludovico. Nonostante gli sforzi del pontefice, la posizione della Chiesa in Italia rischiava di venir seriamente compromessa dall’avanzata ghibellina, minacciando in questo modo non solo i sostenitori storici della Chiesa (Firenze e Napoli), ma anche gli stessi possedimenti pontifici, in particolare la Romagna: questa terra era infatti divisa in molte piccole signorie, che però ufficialmente derivavano la loro autorità dalla nomina pontificia. Si veda: L. Giommi, Il comune reggiano alla discesa in Italia di Bertrando del Poggetto, in Atti e memorie della R. Deputazione di storia patria per le provincie modenesi, s. 5., v. 11 (1917), pp. 8-24.


[9] Giovanni XXII.


[10] Ci si riferisce al De Monarchia.


[11] Giovanni Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, introduzione, prefazione e note di Luigi Sasso, Milano, Garzanti, 1995, p. 131.


[12] «Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / ché la diritta via era smarrita». Tale incipit allude al verso biblico: «In dimidio dierum meorum vadam ad portas inferi» (Is 38, 10). Tra i due versi però esiste una differenza macroscopica, infatti il Poeta aggiunge due elementi: inserisce proprio l’immagine della vita come un cammino e sostituisce l’aggettivo possessivo singolare mio («dierum meorum») con il plurale nostra: «nostra vita».


[13] I guelfi bianchi e i guelfi neri furono le due fazioni in cui si opposero, intorno alla fine del XIII secolo i guelfi di Pistoia prima e successivamente quelli di Firenze, ormai il partito egemonico in città dopo la cacciata dei ghibellini. Le due fazioni lottavano per l’egemonia politica, e quindi economica, in città. A livello della situazione extracittadina, seppur entrambe sostenitrici del papa, erano opposte per carattere politico, ideologico ed economico. I guelfi bianchi, favorevoli alla signoria, erano un gruppo di famiglie aperte alle forze popolari, perseguivano l’indipendenza politica ed erano fautori di una politica di maggior autonomia nei confronti del pontefice, rifiutandone l’ingerenza nel governo della città e nelle decisioni di varia natura. I guelfi neri, invece, che rappresentavano soprattutto gli interessi delle famiglie più ricche di Firenze, erano strettamente legati al papa per interessi economici e ne ammettevano il pieno controllo negli affari interni di Firenze, incoraggiando anche l’espansione dell’autorità pontificia in tutta la Toscana. La rivalità tra i guelfi bianchi e i guelfi neri fu al centro della vita sociale e politica, tra la fine del XIII secolo e il primo decennio del Trecento a Firenze, a Pistoia e in altre città della Toscana. Episodi storici legati ai contrasti nati all’interno del Partito guelfo sono ampiamente trattati nella Divina Commedia, che proprio in quegli anni veniva scritta da Dante Alighieri.

[14] G. Ledda, Immagini di pellegrinaggio e di esilio nella Commedia di Dante, in Annali Online di Ferrara - Lettere Vol. 1 (2012) 295/308.

[15] «Tu lascerai ogne cosa diletta / più caramente; e questo è quello strale / che l’arco de lo essilio pria saetta» (Par. XVII 55-7).


[16] Giuseppe Ledda è professore associato di Letteratura italiana all’Università di Bologna, dove insegna Letteratura e critica dantesca, Letteratura e Filologia dantesca, Letteratura italiana. È nato nel 1964 a Macomer, in Sardegna, dove è vissuto fino al conseguimento della maturità scientifica (1983). 
Si veda: G. Ledda, Come finisce la Commedia? Per una diversa interpretazione del verso «Ma già volgeva il mio disio e ’l velle» («Par.» XXXIII, 143), «STUDI E PROBLEMI DI CRITICA TESTUALE», 2021, 103, pp. 221 – 232; G. Ledda, Dante Alighieri, Divina Commedia, a cura di Emilio Pasquini, Giuseppe Ledda, Giancarlo Benevolo, Bologna, Scripta Maneant, 2021; G.  Ledda, I modelli biblici nei primi canti della «Commedia» di Dante («Inferno» I-II), in Aggiornamenti sulla «Commedia», Ravenna, Longo Editore, 2021, pp. 13 – 32; G. Ledda, Verso il purgatorio, verso il cielo: temi penitenziali nei primi cinque canti del «Purgatorio» di Dante, «P.R.I.S.M.I.», 2021, ns. 2, pp. 67 – 90; G. Ledda, Dante poeta cristiano e la cultura religiosa medievale. In ricordo di Anna Maria Chiavacci Leonardi. Atti del Convegno internazionale di Studi (Ravenna, 26 novembre 2015), Ravenna, Centro Dantesco dei Frati Minori Conventuali, 2018; G. Ledda, La navigazione come metafora testuale nei poemi epico-cavallereschi: da Pulci ad Ariosto, «ITALIANISTICA», 2017, XLVI, pp. 67 – 87; G. Ledda, Leggere la Commedia, Bologna, Il Mulino, 2016; G. Ledda, L’esilio, la speranza, la poesia: modelli biblici e strutture autobiografiche nel canto XXV del «Paradiso», «STUDI E PROBLEMI DI CRITICA TESTUALE», 2015, 90, pp. 257 – 277; G. Ledda, Immagini di pellegrinaggio e di esilio nella Commedia di Dante, in Annali Online di Ferrara - Lettere Vol. 1 (2012) 295/308.

[17] «Or, figliuol, non il gustar del legno / fu per sé la cagion di tanto essilio, / ma solamente il trapassar del segno» (Par. XXVI 115-7).


[18] Questa è la prima occorrenza del termine essilio nella Commedia ed è l’unica nell’Inferno. Tale occorrenza è riferita a Cafia, ma è rivolta a tutti i dannati in generale.


[19] P. Worm, L’ Esodo, ossia Dall’uscita degli Ebrei dall’Egitto, a tutto il Vecchio Testamento, Firenze, Salani Editore, 1968.


[20] P. Stefani, L’esilio babilonese nella Bibbia e nel Nabucco, in Dalla Bibbia al Nabucco / Piero Stefani (ed.), pp. 115-143.


[21] Come compare nella Commedia.


[22] Le origini del monumento costituiscono uno dei temi più oscuri e discussi della storia dell’architettura. Fino al Cinquecento era ritenuta credibile la tradizione fiorentina secondo cui esso sarebbe stato in origine un antico tempio romano del dio Marte, modificato nel Medioevo solo nell’abside e nella lanterna. Nei secoli seguenti questa idea incontrò un graduale scetticismo, finché fu del tutto abbandonata alla fine dell’Ottocento, quando scavando sotto l’edificio apparvero i resti di domus romane, probabilmente del I secolo d.C., con pavimenti a mosaico a motivi geometrici. Si ritenne che ciò dimostrasse l’origine medievale del monumento, e su questo presupposto si basano la maggior parte delle teorie attuali. Oggi gli studiosi restano comunque divisi tra chi, basandosi sulle caratteristiche classicheggianti dell’architettura, pensa a una costruzione di epoca paleocristiana (IV-V secolo d.C.), e chi invece la data intorno al Mille per i rinvenimenti archeologici che si è detto e anche per un documento che ne attestava la consacrazione avvenuta a opera di papa Niccolò II il 6 novembre 1059; e c’è anche chi ipotizza successivi rimaneggiamenti tra VII e XI secolo e anche oltre, addirittura fino alle soglie del Rinascimento. Queste spiegazioni così diverse fanno capire quanto il problema sia ancora aperto, e va aggiunto che negli ultimi anni è stata anche avanzata l’ipotesi che le tradizioni fiorentine dicessero sostanzialmente il vero quando raccontavano che il monumento era stato un ’Tempio di Marte’ (di cui non è stata mai trovata traccia), nel senso non di tempio pagano, ma di edificio commemorativo della vittoria di Stilicone su Radagaiso, avvenuta a Firenze nel 406 e ricordata da tutti gli storici del tempo come un fatto straordinario, tanto che lo stesso Sant’Agostino la portò come argomento contro i pagani a dimostrazione della potenza di Dio. Solo in un secondo tempo, poi, l’edificio sarebbe stato consacrato all’uso cristiano, come accaduto per molti altri monumenti antichi. In questa ipotesi i reperti romani degli scavi andrebbero spiegati non come resti di devastazioni barbariche del VI secolo, ma come demolizioni eseguite nello stesso V secolo prima della costruzione e proprio per far posto all’edificio. La qualità della sua architettura andrebbe perciò riferita non al romanico fiorentino ma alla tarda romanità. Nei documenti scritti, la prima citazione del monumento risale all’anno 897, quando si sa che l’inviato dell’imperatore amministrava la giustizia sotto il portico davanti alla chiesa di San Giovanni Battista. Il termine chiesa fa capire che a quella data l’edificio era officiato, anche se non è chiaro se avesse già le funzioni di battistero. Comunque sia, la consacrazione da parte di papa Niccolò II avvenne probabilmente dopo vari lavori di restauro. Nel 1128 l’edificio diventò ufficialmente battistero cittadino e intorno alla metà dello stesso secolo venne eseguito un rivestimento esterno in marmo, successivamente completato anche all’interno; il pavimento in tarsie marmoree venne realizzato nel 1209. Secondo alcuni la cupola sarebbe stata realizzata nella seconda metà del XIII secolo, ma di ciò non esiste nessun documento, e tecnicamente l’ipotesi è assai discutibile. I mosaici della scarsella risalgono verso il 1220 e successivamente fu eseguito il complesso mosaico della cupola a spicchi ottagonali, al quale si lavora tra il 1270 e il 1300, con l’intervento di frate Jacopo e la partecipazione di Coppo di Marcovaldo e di Cimabue. Tra il 1330 e il 1336 viene eseguita la prima delle tre porte bronzee, con l’utilizzo di 28 formelle, commissionata ad Andrea Pisano dall’Arte di Calimala, l’arte più antica dalla quale discendono tutte le altre, sotto la cui tutela era il battistero: essa era di fatto in competizione con l’Arte della Lana che patronava invece il vicino duomo. La porta, forse inizialmente collocata sul lato est, il più importante, di fronte al Duomo, fu spostata sul lato sud per collocare al posto d’onore la seconda porta: tale notizia, riportata dal Vasari e ripresa un po’ da tutte le fonti fino ad oggi, è stata messa recentemente in dubbio per discrepanze nelle misure tra le due aperture.
Il battistero ha una pianta ottagonale, con un diametro di 25,60 m, quasi la metà di quello della cupola del Duomo. La tipologia dei Battisteri a forma ottagonale della pianta è molto diffusa. La pianta centrale deriva dall’architettura antica greca e romana, ma nell’architettura cristiana assunse un significato simbolico correlato al numero otto dei lati. Il riferimento sarebbe all’ottavo giorno , il primo oltre i sette della creazione. L’Octava dies è un concetto escatologico: è il tempo dell’eternità che si aprirà alla fine dei tempi e al quale avranno accesso i risorti destinati alla salvazione. Per i cristiani, infatti, il sacramento del Battesimo è necessario per poter accedere alla fine dei tempi a questa nuova vita di beatitudine. Un tempo questo significato salvifico del sacramento era reso più esplicito dal fatto che il Battistero si trovava in un’area cimiteriale connotata da molte sepolture. Il grande Cristo giudice, raffigurato nella vela ovest dei mosaici della volta, ha sotto di sé i sepolcri scoperchiati da cui escono i risorti. La necessità di un edificio di vaste dimensioni si spiega con l’esigenza di accogliere la folla che riceveva il battesimo solo in due date prestabilite all’anno. Anticamente era sopraelevato di alcuni gradini, scomparsi con l’innalzamento graduale del piano del calpestio, che Leonardo da Vinci aveva pensato di ricreare studiando un modo per sollevare in blocco l’edificio e ricreare una nuova piattaforma. L’edificio è coperto da una cupola ad otto spicchi, mascherata all’esterno dall’attico e coperta da una piramide ottagonale. Sul lato opposto all’ingresso sporge il corpo dell’abside rettangolare. L’ornamento esterno, in marmo bianco di Carrara e verde di Prato, è scandito da tre fasce orizzontali, ornate da riquadri geometrici, quella mediana occupata da tre archi per lato, nei quali sono inserite superiormente finestre con timpani. Ai pilastri in marmo verde del registro inferiore corrispondono colonne poligonali in strisce bianche e nere in quello superiore, reggenti gli archi a tutto sesto. I pilastri angolari, originariamente in pietra serena, furono poi rivestiti pure di marmo. Si tratta di uno spartito di gusto classico, usato già in altri monumenti romanici come la facciata di San Miniato al Monte, che testimonia il perdurare a Firenze della tradizione architettonica della Roma antica.

Sul Battistero si veda: G. Marchini Langewiesche, Baptisterium, Dom und Dommuseum in Florenz, K.R. Langewiesche, Königstein im Taunus, 1980.
[23] Beatrice per enfatizzare il privilegio concesso a Dante utilizza immagini bibliche comuni nel pensiero cristiano dell’epoca.

A cura di Riccardo Renzi



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