"Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia".
Da bambino, Renzo non pensava certo a Shakespeare, né avrebbe potuto immaginare quanto quelle parole suonassero profetiche.
In verità, qualche segnale gli era pervenuto, ma lui non era stato in grado di decifrarlo.
Per esempio, durante le innocenti partite casalinghe a "scala quaranta".
Dopo cena, il papà sparecchiava la tavola e chiamava a raccolta la famiglia: la mamma, il fratello maggiore Luciano, e appunto Renzo, e tutti si sedevano a giocare.
Si trattava di un gioco individuale, e Renzo vinceva quasi sempre; non perché avesse strategie di gioco migliori, ma solo per quella che i suoi genitori chiamavano “una bella fortuna” e Luciano, senza complimenti, battezzava “un culo del diavolo”.
Renzo non aveva analizzato la cosa, a lui piaceva vincere e basta. Si era però accorto che il culo, insomma la sua fortuna, non c'entrava per nulla. Infatti, in modo empirico ma inequivocabile, aveva imparato che, se gli serviva una carta particolare, bastava che ci pensasse intensamente. A quel punto, chi doveva scartare prima di lui, se l’aveva in mano e non era incastrata in qualche combinazione già chiusa, gli consegnava infallibilmente la “sua”, carta, l’unica che gli servisse.
Poi il tempo delle partitine in famiglia finì, i passatempi serali dei ragazzi, come si sa, sono altri.
Renzo arrivò brillantemente alla laurea, seguendo una sua passione per la matematica e in particolare per il mondo delle probabilità dove, a dispetto dell'apparente casualità, vigevano delle leggi tanto ferree quanto complesse.
La sua tesi dall'astruso titolo "Oltre le catene di Markov finite" gli era valsa un trenta e lode con pubblicazione, nonchè un colloquio di assunzione presso una grande compagnia di assicurazioni.
Chi lo intervistò, come la maggior parte dei comuni mortali, non aveva la più pallida idea di cosa fossero le catene di Markov, finite o non finite, ma non l'avrebbe confessato nemmeno sotto tortura. Così Renzo ebbe un ottimo impiego nel settore “assunzione rischi”, che in realtà significava, come aveva imparato molto presto, non fare assumere alla compagnia alcun rischio, visto che il premio da pagare sarebbe stato comunque molte volte superiore alle probabilità che l’evento accadesse.
Il ricordo di quelle partite a scala quaranta e della strana fortuna che le avevano accompagnate era oramai nascosto da tempo in qualche polveroso giunto sinaptico della sua mente, ma un Venerdì pomeriggio d'estate, a pochi mesi dalla sua assunzione, accadde qualcosa.
Renzo ebbe una discussione col suo capo, il dottor Oronzo Caldara, detto “lo stronzo” per motivi che poco avevano a che fare con la rima.
Il dottor Caldara era entrato nell’ufficio di Renzo alle 17 precise.
- Pilon - il capo bisognava chiamarlo “dottore”, ma per lui tutti gli altri erano come brufoli sul culo della terra ed era già tanto se usava il “lei” - quella relazione sul rischio Agrati, la voglio Lunedì alle 9 sul tavolo, intesi ? -
- Ma dottore, è Venerdì, sono le cinque e sto uscendo per il fine settimana. Lei mi ha dato il fascicolo due ore fa -
- Allora ci lavori Sabato, e pure Domenica, non me ne frega niente; Lunedì mattina alle 9 l’aspetto nel mio ufficio per discutere la relazione.-
Il “vaffa” sussurrato da Renzo si perse per sua fortuna nel rumore della porta dell’ufficio, sbattuta violentemente.
Renzo tentò di calmarsi, ma l’immagine delle tette di Monica, la ragazza con la quale avrebbe dovuto passare il fine settimana al mare, gli si affacciava di continuo alla mente. Prima di prendere il telefono per informarla della novità - lei lo avrebbe piantato all’istante, questo era sicuro - si affacciò alla finestra per respirare. Vide il dottor Caldara salire sulla sua Mercedes coupé da centomila euro e partire sparato, come faceva sempre, verso la sbarra del parcheggio privato.
" Quante probabilità ci sono che la sbarra non si alzi al comando dello stronzo? ", si chiese a denti stretti Renzo, fissando con intensità il congegno rosso a strisce bianche. " Le probabilità sono minime, ma superiori a zero", gli rispose l’esperto che era in lui.
L’idea che qualcuno o qualcosa non avrebbe obbedito a un suo comando non sfiorava nemmeno il dottor Caldara e così, quando realizzò che quel piccolo, insignificante meccanismo non si stava sollevando, ne rimase talmente sorpreso che non tentò nemmeno di alzare il piede dall’acceleratore.
L’impatto fu devastante, in primo luogo per la sbarra, che volò a metri di distanza, poi per il parabrezza che andò in frantumi e infine per il tetto dell’auto che si deformò vistosamente. Tutto l’assortimento di airbag della vettura entrò in funzione e così l’occupante non riportò seri danni fisici, uscendo da quello sconquasso con le sue gambe, con danni per migliaia di euro e tremante come una foglia. Il suo ego invece aveva riportato ferite insanabili, visto che il tutto si era svolto sotto lo sguardo divertito di decine di suoi dipendenti, che di sicuro in cuor loro avevano applaudito la povera sbarra defunta e la sera stessa l’avrebbero commemorata tutti insieme, al bar, brindando allegramente alla sua memoria.
Dalla finestra anche Renzo aveva assistito alla scena, con sorpresa e maligna soddisfazione; ma poi incominciò a porsi delle domande.
Gli vennero in mente episodi ai quali non aveva dato importanza.
La macchinetta del caffé, per esempio, che era andata a fuoco - per un cortocircuito, disse poi il tecnico - dopo che lui l’aveva insultata e fissata con rabbia per essersi mangiata l’ultima sua monetina. Oppure, ma questo non lo ricordava volentieri, il suo collega “leccaculo Smith” Fumagalli, la lingua più veloce della Brianza, così nominato per la prontezza con la quale riusciva ad eseguire l’operazione nei confronti del Capo. Dopo essere stato abilmente messo in ridicolo dal Fumagalli in una riunione, Renzo lo aveva guardato con odio, mentre, tutto tronfio, si avviava verso le scale. " Chissà che probabilità ci sono che inciampi e si rompa una gamba? ", si era chiesto. Anche in quella occasione, mentre fissava il malcapitato, si era risposto: " le probabilità sono minime, ma superiori a zero ".
Il risultato fu una prognosi di sessanta giorni per la frattura scomposta di tibia e perone.
Infine, di colpo, a Renzo tornarono alla mente quelle partite a scala quaranta, da bambino.
Da bravo matematico fece 2 + 2.
Non era possibile.
Eppure… forse…
Riusciva con la mente a controllare le probabilità!
Questa folgorazione lo lasciò senza fiato, perché le implicazioni erano incredibili. Ricchezza e qualunque altra cosa avesse voluto erano alla sua portata.
Nei giorni successivi si mise d’impegno a fare esperimenti.
Non l’aveva mai fatto, ma provò a giocare al totocalcio e al lotto. Poi, all’ora delle partite e delle estrazioni, pensò alle probabilità di vittoria. I risultati furono deludenti, quindi stabilì che così non funzionava.
Andò all’ippodromo, c’erano delle corse al trotto. Si informò su chi fosse il meno favorito e puntò una discreta sommetta trenta a uno. Si portò sulla tribuna per assistere alla gara e, mentre il suo cavallo navigava nelle retrovie, più Ronzinante che Ippogrifo, si mise a pensare alle probabilità che si verificasse qualche cosa che lo avrebbe fatto vincere.
Un paio di secondi dopo, il cavallo di testa andò in rottura, coinvolgendo anche il secondo, mentre il sulky del terzo, senza una causa apparente perse una ruota, la quale andò a intralciare la corsa del quarto, provocandone uno scarto che gli fece perdere l’andatura.
Il suo cavallo invece trovò miracolosamente la via più breve in mezzo a quel bailamme e tra l’incredulità generale vinse la prima e unica corsa della sua carriera.
Quindi funzionava! Ma solo se aveva una visione diretta dell’evento che voleva controllare, stabilì Renzo.
Ma certo: il Casinò, la roulette, niente di meglio per avere la prova definitiva.
Il sabato successivo, da solo, perché come previsto Monica l’aveva piantato, andò a Saint Vincent. Si disse che se avesse funzionato non doveva strafare, non doveva dare nell’occhio. Niente vincite clamorose; voleva arricchirsi, certo, ma poteva farlo con calma. Intanto doveva imparare a controllare bene questo suo potere.
E tutto andò come si era augurato. Aveva cambiato in gettoni un migliaio di euro e si era messo alla roulette, giocando solo sul pari e dispari, sulle dozzine e sul colore. A volte evitava di pensare alle probabilità e perdeva, ma quando fissava la pallina e si chiedeva quali probabilità ci fossero che uscisse ciò che aveva puntato, non sbagliava un colpo.
Alla fine della serata cambiò i suoi gettoni con circa diecimila euro, per lui una bella sommetta ma non tale da attirare l’attenzione: lì, in poche ore, aveva visto persone vincere o perdere senza battere ciglio somme che lui avrebbe guadagnato in un paio d'anni.
Ma soprattutto aveva avuto la conferma definitiva della sua teoria: col solo pensiero poteva forzare le probabilità che un evento accadesse, a patto di avere il contatto visivo con l’oggetto o la persona in questione.
Così nel giro di un mese e cambiando ogni volta casinò, mise da parte un bel gruzzolo e si permise il lusso di comperare una spider da far impallidire il dottor Caldara. Aveva giustificato quella spesa con la solita eredità di un lontano zio, tanto nessuno si sarebbe preso la briga di controllare.
Nei mesi successivi si riprometteva di fare altre puntate al casinò, ma soprattutto avrebbe iniziato la scalata ai vertici aziendali. Lavorare gli piaceva e l’idea di mettersi a vivere di rendita non l’aveva ancora sfiorato.
Renzo aveva un piano: avrebbe iniziato a far avvenire disastri per la carriera dei suoi concorrenti all’interno dell’azienda, mentre le sue iniziative sarebbero sempre state coronate da successo. Non sarebbe stato difficile, era solo questione di tempo.
Intanto aveva conosciuto Diana, una magnifica ragazza mora e formosa, proprio del tipo che lo faceva impazzire. Ma Diana non era una ragazza facile da conquistare e, sino a quel momento, tutti gli appuntamenti si erano conclusi con qualche promettente affettuosità e, per lui, con grandi dolori al basso ventre per la prolungata eccitazione senza sbocchi.
Quell'undici agosto - Renzo era attento ai cambiamenti e sapeva che la notte delle stelle cadenti si era trasferita al giorno dopo - propose a Diana di andare a vedere lo spettacolo celeste. Confidava che in una serata del genere, romantica per eccellenza, lui e lei da soli sulla sua magnifica spider, finalmente avrebbe raggiunto lo scopo, che poi era quello cui tendono tutti gli uomini quando portano una ragazza a vedere le stelle, con buona pace del romanticismo.
Così mise una bottiglia di Ferrari Brut e due bicchieri nel minifrigo dell’auto e alle dieci di sera andò a prendere Diana.
Rimase senza fiato nel vedere la minigonna e il bolerino corto corto, che lasciava l’ombelico bene in vista e faceva sapere a chiunque guardasse che sotto non c’era proprio altro.
La serata prometteva bene.
L’auto imboccò una stradina sterrata che, arrampicandosi tra gli alberi, portava a uno spiazzo al sommo di una collinetta. Luogo buio, ideale per osservare le stelle e altre bellezze naturali, come provavano altre automobili ferme a luci spente ma percorse da strani fremiti alle sospensioni.
Renzo non aveva fretta. Il tettuccio dell’auto era aperto e il cielo stellato era di per sé uno spettacolo. Lo spumante fu stappato e Diana rifiutò di usare i bicchieri, bevendo dalla bottiglia con un gesto così sensuale che fece immediatamente scattare una visibile reazione fisiologica all’altezza del cavallo dei calzoni di Renzo.
- Guarda Renzo, ecco una stella cadente! -
Ah, già, le stelle cadenti: era quella la ragione ufficiale per la quale erano lassù.
Diana gli aveva porto la bottiglia dopo averne bevuto una bella sorsata; gli occhi le brillavano e il suo sguardo cadde dove Renzo sperava che cadesse. Una manina si appoggiò quasi distrattamente nei paraggi, mentre Diana tornava ad ammirare il cielo con aria innocente.
- Un’altra, guarda! Pensa se ci piombasse addosso! -
Renzo era distratto da quella mano e le sue facoltà erano concentrate su tutt’altro argomento; così, senza pensarci, alzò lo sguardo, vide la scia luminosa e proferì automaticamente una delle sue frasi preferite:
- Le probabilità sono minime, ma superiori a zero, tesoro.