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La prima volta
di Luca Pozzoli
Pubblicato su SITO


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RACCONTO SEGNALATO DALLA GIURIA NELLA
II EDIZIONE DEL CONCORSO LETTERARIO UNIBOOK - PROGETTO BABELE

Quando vennero a prenderci dormivamo da poco, abbracciati stretti l’uno all’altra ci eravamo addormentati sereni, convinti che il peggio ormai fosse passato; ci sentivamo al sicuro rintanati in quella minuscola casa presa in affitto da un’anziana signora, lontani da tutto fatta eccezione per il confine, il giorno dopo finalmente l’avremmo varcato.

Quella notte per la prima volta avevamo fatto l’amore, subito dopo ci eravamo addormentati sfiniti e sorridenti.

Il più grosso dei tre si occupò di Marta: un pugno sul naso per stordirla e far sì che smettesse di urlare, poi l’agguantò per i capelli e senza dire una parola la trascinò fuori dalla stanza mentre lei nell’inutile tentativo di divincolarsi si lamentava piangendo ed invocando il mio nome. Gli altri due nel frattempo si prendevano cura di me: il biondo dall’accento slavo mi lanciò giù dal letto assestandomi una pedata via l’altra alla bocca dello stomaco, nel frattempo il suo amico frugava tra i pochi stracci trovati nella stanza alla ricerca dei soldi che non avevamo.

“Hai fatto una stronzata, amico” mi disse lo straniero.

“Innamorarsi di una puttana come quella…” spiegò l’altro “cosa diavolo ti passa per la mente?”

Sputai sangue insieme ai denti rotti dai calci.

“E cosa hai risolto?” mi disse l’italiano “domani quella si fa sbattere di nuovo per strada e tu ti ritrovi a ciucciare cazzi all’inferno!”

Stava chinato per potermi guardare dritto negli occhi, gli sputai in faccia e quello per un istante istintivamente chiuse gli occhi girandosi dall’altra parte. Tastai il terreno con la mano destra alla ricerca di qualcosa con cui colpirlo, presi un lungo cacciavite dimenticato da chissà quanto tempo sotto il letto e con forza glielo piantai nell’occhio, prima di rendersi conto di quello che gli era capitato cadde morto.

Ebbi il tempo di notare lo stupore sul volto dell’altro figlio di puttana mentre estraeva la pistola dalla tasca della giacca, in un attimo gli fui addosso bersagliandolo di pugni e ginocchiate nel bassoventre, riuscii non so come a schiantargli la testa contro il muro e quello frastornato cadde a terra. Appoggiai il mio ginocchio sinistro sul collo dello slavo cercando di concentrare in quel punto tutto il mio peso, tutta la mia forza, quando strozzato quello bofonchiò un’incomprensibile supplica premetti più forte. Solo allora mi alzai.

Vuotai le tasche dei due cadaveri di pistola, chiavi della macchina e soldi. Pisciai sui loro corpi, poi diedi fuoco alla camera.

La strada era deserta, solo lo scricchiolio delle fiamme a rompere il silenzio. Una sola macchina parcheggiata fuori, era la Ford dei due cadaveri; l’altra con Marta a bordo doveva essere ormai lontana, lei, merce preziosa per quei figli di puttana, era probabilmente già in viaggio verso Bologna, le sarebbero toccate alcune ore di botte e torture, una cicatrice in una zona del corpo non visibile ai clienti, poi altri interminabili giorni sulla strada a battere. A soddisfare i bisogni di uomini nemmeno degni di questo nome, stimati professionisti e padri di famiglia: arrivano dalle province limitrofe su auto comprate a rate, le stesse macchine con cui portano a spasso la domenica moglie e bambini, zie e nipoti, ignari di quali peccati inconfessabili sporchino quei sedili. Colpevoli pure loro.

Il mattino dopo mi svegliai nel parcheggio del primo autogrill dell’autostrada che mi divideva dall’Emilia, ancora addormentato con una mano cercai il corpo di Marta prima di ricordare ciò che era accaduto la notte prima.

Iniziai a piangere. Poi fu il dolore diffuso ad avere il sopravvento sull’angoscia e sulla rabbia: dovevo avere alcune costole inclinate, un grosso livido viola scuro copriva l’occhio sinistro e buona parte del mio volto, di denti in bocca me ne rimanevano pochi. Scesi dalla macchina barcollando ed un camionista notato il mio stato penoso venne verso di me per darmi aiuto; mi diede salviette e sapone, cotone ed alcol per disinfettare le ferite. Nel bagno del bar cercai di ripulirmi, consapevole di  dover riacquistare un aspetto il più possibile normale  per non dare nell’occhio.

Nella cronaca locale la notizia dell’incendio della notte precedente occupava un’intera pagina: fonti vicine alla polizia assicuravano non essersi trattato di un incidente, con tutta probabilità all’interno della casa era avvenuto un regolamento di conti tra bande rivali immischiate in affari di droga o prostituzione. I due uomini trovati morti non erano ancora stati identificati e lo sarebbero stati difficilmente dato le condizioni dei corpi carbonizzati e la mancanza di documenti. D’altra parte l’affittuaria della stanza, un’ottantenne con scarsa memoria e vista, non era riuscita a dare alcuna descrizione utile dell’uomo e della donna che avevano affittato l’appartamento e le generalità fornite dai due si erano rivelate false.

Con parte dei soldi trovati nelle tasche dei due bastardi acquistai due pacchetti di sigarette, mi scolai due caffè prima di ripartire alla volta di Bologna.

Avevo conosciuto Marta la notte prima.

Durante il turno notturno al pronto soccorso dell’ospedale in cui prestavo servizio come infermiere professionista, si presentò in lacrime, disse di aver fatto metà tangenziale a piedi per raggiungere l’ospedale, disse di aver paura di morire. Capii immediatamente che si trattava di una prostituta, ne avevo viste tante, arrivare massacrate di botte da qualche cliente troppo violento, oppure scaricate da una macchina in corsa, prese a cinghiate o mutilate dal protettore di turno per non aver rispettato gli ordini o per essersi intascate parte dei soldi guadagnati sulla strada.

Marta non era stata picchiata, mi disse di essere incinta e che da qualche ora perdeva sangue.

Come prima cosa presi del cotone per ripulirla dal trucco volgare che insieme alle lacrime colava dal suo viso. Il viso più bello mai visto in vita mia, all’istante me ne innamorai.

La diagnosi fu di aborto spontaneo.

Quando le comunicai la notizia lei si aggrappò al mio collo singhiozzando, per alcuni istanti mi domandai se sarebbe mai riuscita a smettere. Alla fine si ricompose, mi guardò negli occhi.

“Portami via…” mi disse.

Alla fine del turno di lavoro il parcheggio riservato ai dipendenti era deserto, io e Marta più simili ad ombre che ad esseri umani fatti di carne e di ossa ci avvicinammo all’utilitaria, notai la figura di un uomo, prima guardò chi fossero i passeggeri e subito dopo sembrò prendere nota della targa; anche Marta ebbe la stessa impressione. Andarcene in macchina sembrava avventato così senza nemmeno passare da casa mi diressi verso la stazione centrale, parcheggiai un paio di chilometri prima, da lì ci incamminammo confondendoci con la massa di studenti e lavoratori, le vie affollate a quell’ora del mattino ci assicuravano il massimo anonimato.

“Verranno a cercarci…” disse Marta aggrappandosi al mio braccio.

“E noi non ci faremo trovare.” Abbozzai un sorriso.

Sul treno verso Milano mi raccontò la sua storia. Una storia simile a quelle di migliaia di ragazze come lei, arrivate dall’est con la promessa di un lavoro onesto e redditizio, le assicurazioni di un caro amico di famiglia o di un parente addirittura, da lì l’inferno, le violenze e gli abusi, l’odio e la rabbia a poco a poco trasformate in rassegnazione ed impotenza.

I clienti sono tutti uguali: contrattano sul prezzo, allungano le mani, mordono i seni, ti chiamano puttana, alcuni dopo essere venuti si mettono a piangere, altri ti chiamano mamma e chiedono scusa.  Le promesse degli sfruttatori: se ti comporti bene e guadagni parecchio dopo qualche anno di esperienza sulla strada potrebbero farti il regalo di lavorare in casa, ti assicurano che quella è un’altra vita, basta coi sedili sudici e stanze di motel prese ad ore, clienti altolocati e più rispettosi si affezionano e fanno regali, alcuni ti portano addirittura a cena.

La zona a luci rosse di Bologna è affollata di clienti come un lunapark di famiglie, nel fine settimana e nei giorni di festa a volte addirittura c’è coda per quelle strade, volanti della polizia passano avanti e indietro tutto il giorno, non si fermano quasi mai.

Un giorno una volante si avvicinò a Marta, il più giovane dei ragazzi a bordo iniziò a parlare.

“Quanti anni hai?” le chiese.

“Venticinque” rispose mentendo.

“Io li ammazzerei quelli che ti sfruttano” disse lo sbirro “noi poliziotti abbiamo le mani legate, dovete essere voi a fare il primo passo, dovete denunciare chi vi fa fare questa vita di merda! Solo allora noi possiamo intervenire.”

Il collega di quello che stava parlando le fissava insistentemente la scollatura.

“Andatevene per favore!” li supplicò “così mi mettete solo nei guai.”

Quelli andarono.

Il giorno dopo lo sbirro silenzioso si presentò da solo e in borghese, non era alla ricerca di notizie riguardanti i magnaccia che avevano il controllo della zona, non cercava prove e non era un infiltrato, voleva solo farsi una scopata gratis.

Sulla strada l’unico aiuto può venire dalla droga e dall’alcool, alcune ragazze si fanno di qualsiasi cosa pur di non pensare: eroina, cocaina e pasticche, fiumi di vodka e vino in cartone. Tante ne erano arrivate in ospedale in overdose o ubriache fradice, ricordo gli occhi spenti di una di loro, il braccio martoriato dai buchi, perché non mi lasci morire, mi chiese, mentre le iniettavo una dose di Narcan; non doveva avere più di diciassette anni. Sono i protettori stessi, mi raccontò Marta, a spingere le ragazze a fare uso di droghe, sono loro a venderla o a regalarla in quanto è più facile sottomettere delle tossiche; serve ad azzerare in loro ogni desiderio di rivalsa, in cambio dell’illusoria convinzione di un antidoto all’inferno riescono a renderle schiave due volte.

Marta, mi disse con orgoglio, nel tentativo di conservare intatto il dolore e la rabbia nella mente e nell’anima, nelle membra umiliate e negli occhi aveva deciso di non fare mai uso di droghe, aveva preferito percorrere con la mente lucida il suo cammino dentro a quell’inferno, per essere sicura di riconoscere il volto di ogni singolo sfruttatore e di ogni cliente pure, con la speranza un giorno di rincontrare i suoi demoni, da donna libera, senza dire una parola sputare loro in faccia.

Davanti al portone della mia casa un uomo sulla quarantina si guardava intorno, strinsi la pistola nella tasca del cappotto cercando il coraggio che mi mancava nel contatto con il freddo metallo, nascondendomi dentro al bar in fianco alla casa attesi con il cuore in gola. Cinque minuti dopo una bimba correva verso l’uomo, quello la prese in braccio, poi se ne andò.

“ Ieri mattina è venuto un tizio e ha chiesto di te” mi disse il barista che mi conosceva di vista “mi ha chiesto se per caso ti avevo visto passare di qua.”

“Ero fuori per lavoro.” Tagliai corto.

Mi decisi a salire in casa, le chiavi entravano a fatica nella serratura, era stata scassinata. All’interno tutto era stato spostato, aperto o spaccato, non avevano risparmiato nemmeno seggiole e stoviglie; nel centro del salotto era stato appiccato un incendio per bruciare le fotografie e i pochi quadri che tenevo appesi alle pareti, sul mio letto avevano cagato e orinato. Mi fermai solo pochi minuti, giusto il tempo di raccogliere i pochi stracci che erano stati risparmiati, qualche maglietta e un paio di pantaloni, avevo assoluto bisogno di farmi una doccia. Una volta in macchina decisi che non era sicuro cercare un letto in albergo o motel, decisi di chiamare Fabio, il mio vecchio coinquilino dei tempi dell’università, mi inventai dei lavori in casa, avevo bisogno di un letto per qualche giorno, il vecchio amico, di origine campana come me, senza esitare mi disse di andare da lui.

Per due giorni non feci altro che dormire e pensare, crogiolandomi nell’angoscia e nell’assoluta impotenza.

Non dissi niente a Fabio e lui non fece domande.

Una sera mentre cenavamo insieme, chiesi a Fabio se poteva prestarmi la macchina.

La zona rossa di Bologna è divisa in categorie, come i supermercati in corridoi e scansie, solo che ad essere in vendita sono uomini e donne in carne ed ossa: c’è la zona delle africane e quella dei transessuali, alla fine di quest’ultima in una sorta di percorso preferenziale uomini omosessuali che si prostituiscono. C’è una via occupata dalle italiane, quasi tutte donne mature e tossicodipendenti, una sorta di corsia discount con i prezzi più bassi, di contro è altissimo il rischio di contrarre malattie veneree, la chiamano via dell’AIDS. Poi il reparto più affollato, quello delle ragazze dell’est: rumene, slave, moldave, albanesi e russe, quasi tutte ragazze giovani e bellissime, alcune di loro hanno meno di sedici anni, tutte sono schiave. In questa zona mi addentrai con una strana sensazione alla bocca dello stomaco ed un sapore acido a pizzicare la lingua, mi misi a scrutare i volti delle donne sul ciglio della strada esattamente come facevano i clienti, mi confusi con loro. I protettori se ne stanno ai margini della carreggiata, a due a due sbragati sui sedili di macchine di grossa cilindrata  nelle strade che si addentrano nei campi dove le ragazze portano i clienti; tengono i motori accesi pronti a partire nell’improbabile eventualità di una retata, osservano il continuo andirivieni di automobili  fumando una sigaretta via l’altra, scolano birre e ridono tra loro.

Mi fermai davanti ad una delle ragazze abbassando il finestrino, quella mi informò sulla qualità dell’offerta e sui costi, le feci cenno di salire. Mentre partivo già iniziò a spogliarsi, le chiesi di aspettare un attimo. Fu lei ad indirizzarmi verso una delle stradine che si addentravano nella campagna, la macchina sfilò in fianco a quella del suo protettore, ancora un centinaio di metri e mi disse di fermare la macchina.

“Non voglio scopare.” Le dissi.

“Sei venuto per fare cosa?” mi disse ironica, doveva avere forse diciotto anni “qui non c’è nient’altro da fare…”

“Voglio farti delle domande.” Le dissi.

Fece per aprire la portiera e allora le presi un braccio per trattenerla, le allungai due banconote da cinquanta per farla calmare. 

“Non sono un poliziotto e non mi interessa chi sei!” le dissi “voglio solo sapere se conosci una certa Marta e se l’hai vista negli ultimi giorni.”

Le mostrai l’unica foto in mio possesso di Marta.

“Batteva qua” disse “ma è da qualche giorno che non la vedo.”

“Cosa fanno a quelle che cercano di scappare” le domandai.

“Le tengono chiuse per qualche giorno, le picchiano tanto. Poi tornano a battere ma se lo fanno ancora non tornano più…” fu la risposta.

Si slacciò due bottoni della camicetta per scoprire la spalla, una lunga cicatrice partiva da sotto il seno sinistro e terminava appena prima del pube. Senza dire una parola si ricompose.

“Non possiamo tornare subito” mi disse “si insospettiscono se torniamo troppo presto dal giro con un cliente.”

Mi disse di chiamarsi Evelina e di avere vent’anni appena, da quattro era arrivata in Italia.

Quando notò la pistola che sbucava dal portaoggetti dalla parte del guidatore mi chiese cosa intendessi fare con quella. Non risposi.

Avvicinò la bocca al mio orecchio.

“Ammazzali tutti” bisbigliò “ammazzali tutti.”

Nelle sere e nelle notti successive continuai a perlustrare la zona, parlai con le prostitute e domandai a loro se conoscessero Marta, nessuna di loro l’aveva vista nell’ultima settimana. Iniziai a rendermi conto che continuando così non sarei arrivato da nessuna parte, ogni notte inoltre aumentavano i rischi, qualcuno dei protettori presto avrebbe iniziato a insospettirsi. La quarta notte riconobbi il tizio che aveva portato via Marta, in compagnia di un altro uomo se ne stava sbragato su una Mercedes di color grigio metallizzato, mi domandai se quella fosse la stessa auto della notte in cui tutto iniziò ad andare per il verso sbagliato, se quello seduto dalla parte del guidatore fosse il quarto uomo che quella notte attese fuori dalla casa. Lo desiderai con tutto il cuore.

C’era solo una cosa da fare.

Aspettare l’interregionale che passava una volta ogni mezz’ora sui binari non distanti dalla zona in cui ci trovavamo, approfittare dei pochi secondi di frastuono provocati dal convoglio per entrare in azione.

Nel frattempo parcheggiai la macchina di Fabio in un angolo nascosto, controllai la pistola, era carica e pronta a sparare, mi domandai per un istante se anche io lo fossi, poi mi acquattai nell’erba alta, qualche metro dietro l’auto dei due.

Appena il treno iniziò a far tremare la campagna iniziai a procedere piegato perché quelli non potessero scorgermi dagli specchietti retrovisori; dieci passi e potei piazzare la bocca della pistola a pochi centimetri dalla testa di quello che stava dalla parte del guidatore, il finestrino abbassato e la mano con la sigaretta fuori. Senza nemmeno puntare feci fuoco. Pezzi del cervello e della scatola cranica si dispersero nell’abitacolo, sul parabrezza, sulla camicia di quello di fianco, con gli occhi sbarrati il sopravvissuto mi fissò riconoscendomi all’istante, mentre il treno si allontanava nella pianura con l’indice consigliai all’uomo di mantenere il più assoluto silenzio.

Per puro istinto sadico gli assicurai che se avesse eseguito gli ordini e risposto alle mie domande lo avrei risparmiato. Mi feci consegnare pistola, cellulare e portafogli, gli dissi di spostare il cadavere del suo amico e di mettersi alla guida, di dirigersi verso un luogo appartato e di non fare stronzate.

“Sai perché sono venuto a trovarti, vero?” domandai.

“Sei un uomo morto!” digrignò fra i denti, nemmeno la pistola ancora calda appoggiata alla tempia riuscì a levargli quel mezzo sorriso che aveva stampato sulle bocca, il fare spavaldo.

Cercai nella memoria qualche frase da film americano poliziesco per rispondergli a tono, non trovai nulla di adatto a quella situazione e così mi limitai a premere con maggiore forza la pistola sulla tempia.

Quando ritenni di essere abbastanza lontano dalla strada gli ordinai di fermarsi. Lo feci scendere con le mani bene in vista, gli lanciai una corda ordinando gli di legarsi le mani alla portiera dell’automobile.

“Ora facciamo un gioco” gli dissi “ogni volta che provi a parlare senza essere interrogato, io ti sparo!”

Fece di sì con la testa.

“Cosa avete fatto a Marta?” gli chiesi.

Mi raccontò della punizione inflitta alla ragazza, le minacce di morte nel caso in cui avesse tentato di fuggire di nuovo. Per quanto ne sapeva ora batteva in casa, sotto la stretta sorveglianza di alcune anziane che godevano della fiducia dei loro carcerieri.

Quando finì con il suo racconto si mise ad implorare, avrebbe cambiato vita, mi assicurò, sarebbe tornato nel suo paese d’origine, mi aveva raccontato tutto ciò che sapeva, fece i nomi dei suoi capi, disse di essere lui stesso obbligato a fare quella vita. Gli ordinai di inginocchiarsi e di tenere le mani dietro alla nuca, controllai l’orologio, ancora qualche minuto ed il treno interregionale sarebbe passato sui binari poco distanti.

Due giorni dopo un trafiletto nell’ultima pagina della cronaca locale dava la notizia del cadavere di una donna ritrovato nella campagna bolognese, probabilmente una prostituta; non c’erano foto ed ovviamente nessun nome, capii immediatamente che si trattava di Marta. Poteva essere una vendetta nei miei confronti, oppure Marta si era rifiutata di fare quello che gli ordinavano di fare, forse aveva tentato ancora di scappare. Respinsi l’idea del suo corpo nudo gettato da un’auto in corsa, buttato dentro a un fosse come un sacco di immondizia, cercai di respingerla con tutta la forza che mi restava ma inesorabile essa tornava a tormentare i miei pensieri, alla fine cedetti, mi abbandonai ad un pianto muto.

Ripresi il lavoro all’ospedale, trovai un nuovo appartamento e tornai alla vita di sempre. Ne arrivarono ancora di ragazze disperate e mute. La notte mi aggiravo come un fantasma sulla soglia del quartiere a luci rosse, inizia a seguire autovetture di clienti e sfruttatori.

Non sapevo per quanto sarebbe andata avanti quella storia, prima o poi mi avrebbero di certo beccato, i colleghi di quei bastardi che mi stavo premurando di ammazzare, oppure la polizia che ormai doveva essersi fatta un’idea su quell’improvvisa moria di pezzi merda. Ormai svuotato da ogni sentimento ed impulso diverso dall’odio e dalla vendetta, ripetevo a me stesso che quando quel giorno sarebbe arrivato sarei andato incontro alla morte con l’unico rimpianto di non esser riuscito ad eliminarne altri dalla faccia della terra.

Ogni sera sentivo Marta al mio fianco, reggeva la mia mano mentre tremante la tendevo appoggiando la bocca della pistola sulla tempia della mia vittima.

Era l’unico modo che mi era rimasto per ricordarla. 

© Luca Pozzoli





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