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Era l’autunno del 1941, una stagione particolarmente afosa a Buenos Aires. Notizie di una guerra lontana, ma già in procinto di definirsi “mondiale”, occupavano le serate nei caffè del centro: non c’è argentino tanto argentino da disinteressarsi di quel che accade in Europa. Un’antica ascendenza, un’assonanza nei cognomi o semplicemente un’innata curiosità per gli eserciti ci predisponevano a discutere dei comunicati bellici come se si trattasse di sfide gauchesche.
Io, per la verità, partecipavo a quelle riunioni soprattutto per incontrare Adelaida, che prendeva viva parte ai commenti sia sugli eventi del fronte che sulle ultime novità letterarie. Poiché ho scarsa propensione per la guerra, il più delle volte mi limitavo ad ascoltare la sua voce calda, un po’ roca di sigarette senza filtro, osservando come le labbra le danzavano mollemente nel parlare.
Molto di più intervenivo quando si discuteva di questo o quell’autore. Terminata l’infatuazione per Lynch, le nostre lettere indulgevano momentaneamente (almeno così speravo) all’ambientazione urbana di Edoardo Mallea, Enrique Larreta e Leopoldo Marechal. Adelaida condivideva con me un’ostentata antipatia per il romanzo sociale, prediligendo certi territori della fantasia o dell’inconscio lungo cui si muovevano i talenti più fervidi e meno conformisti. Di mondi laterali, di universi in ombra fantasticavamo fino a tardi tra camerieri esausti che certamente ci maledicevano, del tutto ignari delle smisurate ipotesi spalancate dietro angoli bui, o nelle profondità insondate degli occhi verdi di Adelaida.
In quel verde io mi perdevo come nel colore del sogno, e tutto dentro di me era velato di un’analoga tonalità misteriosa. L’ultimo tram mi avvicinava ancora di più ad Adelaida, perché lo prendevamo soli soli: mi sembrava che entrassimo insieme dentro il lato oscuro delle cose. Avrei voluto proporle di non venirne fuori mai più, propenso com’ero a ritenere che il capolinea di quella ferraglia fosse un posto in cui esistevamo solo noi. Lei però scendeva prima di me, mi stringeva la mano e andava via senza che io comprendessi come aveva fatto ad accorgersi che eravamo già arrivati in Avenida Lugones.
Andò così anche l’ultima sera. Avevamo parlato per tutto il tempo dell’ultimo libro di Borges (“Il giardino dei sentieri che si biforcano”, Buenos Aires 1941 – n.d.a.) e delle rivelazioni che esso conteneva. La conformazione circolare e labirintica dell’universo, di cui io e Adelaida ci eravamo tante volte esaltati discutendo dell’opinabilità del reale, vi era chiarita in poche pagine intitolate “La biblioteca di Babele”. Rammento ancora il vigore con cui Adelaida aveva rampognato gli scettici.
Oggi che percorro senza sosta gli esagonali cunicoli della Biblioteca, il ricordo di quella disputa mi conforta nelle mie scelte di allora, e mi rende più dolorosa e presente la mancanza di Adelaida.
Si era in guerra, come ho ricordato: la cenere di bombardamenti al di là dell’oceano dovette ottenebrare i non pochi esegeti in servizio. Fu forse l’orrore della miseria e della morte a cagionare che l’opera di Borges fosse letta in una chiave puramente estetica: “racconto fantastico” lo definirono. Io soltanto ne ravvisai l’illuminante realismo. Adelaida prese le mie parti, anche se oggi sospetto che volesse in tal modo attrarre l’attenzione del giovane critico Vaquero, dalle dita singolarmente affusolate. Che l’universo non sia altro che una serie concatenata di gallerie con scaffali, che in essa dimorino tutti i possibili libri formati dalla combinazione dei venticinque segni ortografici, che la Biblioteca sfugga alla normale concezione del tempo: Adelaida si diede a difendere con ostinazione questi annunzi, di fronte all’incredulità dei presenti e alla mia sincera commozione.
Vaquero fu molto pacato, evitò di insultarci e prese a obiettare con calma, muovendo con gesti misurati quelle sue mani ipnotiche. Le sue argomentazioni riguardavano principalmente l’inutilità della grande maggioranza dei libri della Biblioteca: poiché in essa sarebbero annoverate tutte le possibili combinazioni di lettere, la maggior parte di queste non avrà alcun senso, disse. Vi sarà il libro, infatti, composto solo dalla lettera m ripetuta centinaia di volte, o quello formato solo da consonanti palatali, o ancora quello costituito da un unico interminabile fonema che nessuno riuscirà mai a pronunciare. Al di fuori dei libri a noi intelligibili (che non sono più che un frammento nella dovizia della Biblioteca), che senso hanno tutti gli altri? Quelli che ne sono manifestamente privi, o quelli che alterano il significato di un’opera (una “Vita di Dante” incentrata sulla storia di Rabelais…), o ancora quelli che da un’opera differiscono soltanto per una virgola o un sinonimo…
Assurdità!, pensai allora come penso oggi. Vaquero e i suoi accoliti pretendevano di intendere il divino con l’umano, di chiarire misteri inesplicabili; riflettei che la rovina dei cannoni avrebbe opportunamente umiliato le loro ragioni, oltre che devastato i loro corpi. Ma per quel che ne so il corpo di Vaquero restò intatto, e la furia con cui Adelaida prese ad attaccarlo somigliava a una schermaglia amorosa. Al momento peraltro non mi ci soffermai, e presi per un segno della nostra affinità lo slancio con cui lei lo aggredì.
“Naturalmente tu credi solamente a ciò che vedi” gli disse, “diffido dei tipi come te”.Io che avevo fantasticato in gioventù di strane forme di vita, da qualche parte nel cosmo, i cui polmoni respirassero sodio o la cui temperatura eccedesse i 200 e più gradi, avrei voluto inginocchiarmi ai piedi di lei e venerarne ogni sillaba. Ondeggiava le spalle parlando, e i suoi sguardi parevano i lampi di quella guerra che tuttora ignoro se sia finita e se abbia lasciato superstiti. Postulava un assioma a me caro Adelaida, e cioè che non l’uomo, necessariamente, è la misura di tutto.
Vaquero insisteva, non immaginavo perché, a mantenere la discussione su di un tono astrattamente metafisico, non chiese mai “Insomma, dove li vedete questi vostri volumi e corridoi?”. Sorrideva anzi, nel replicare ad Adelaida fissandola. Lei ammetteva inusitate chiavi di lettura per i libri della Biblioteca, e chiavi inoltre infinite. Perché una, affermava, potrebbe celarsi nel rapporto globale fra virgole e punti; un’altra fare riferimento ai soli righi che iniziano con la lettera p; un’altra ancora, non meno plausibile, ricavarsi dalla trasposizione musicale dovuta alla sovrapposizione di un pentagramma a ogni cinquina di righi di ciascuna pagina (va ricordato, con Borges, che ogni pagina consta di 40 righi, cioè di un perfetto multiplo di cinque). Ma i detrattori insistevano; devo ammettere che Vaquero risultò il più cortese nello sminuire l’intuizione di Borges ad elegante artificio letterario. Molti se la filarono rivolgendoci epiteti, rammentando a tutti che non troppo lontano le palle fischiavano e crepitavano i forni, e lasciando intendere che avrebbero più proficuamente fischiato e crepitato ai danni delle nostre bubbole. Un anziano avvocato giunse a definirci “sabotatori della storia sociale”. Vaquero invece, nell’accomiatarsi, non mancò di baciare la mano di Adelaida, e di stringere cavallerescamente la mia. Mi ferì il poco tempo che le sue labbra indugiarono sulla pelle di lei, ma ancor più mi ferì che Adelaida osservasse “E’ però quello dalla prospettiva più alta…”.
Non mi demoralizzai per questo. Ero troppo immerso nel tenero connubio che si era stabilito tra Adelaida e me, in quella notte decisiva. “Quanto a lei – mi aveva apostrofato a un certo punto Vaquero – non mi meraviglierei che se ne partisse da solo a esplorare le sue gallerie”. Su un solo punto si sbagliava: che intendevo portare Adelaida con me. Il fulgore geometrico prospettato da Borges mi imponeva decisioni coerenti: se la Biblioteca era il mondo, bisognava che io e Adelaida la percorressimo insieme, sino alle origini estreme della nostra unione. “Non è di Adelaida – pensavo – un’esistenza di notiziari di guerra e pratiche d’ufficio”. E nel chiudere la radio e la porta di casa, quella sera, constatavo che già la mia vita era cambiata. Il meccanismo della Biblioteca era già dentro di me, sopito in qualche agglomerato cellulare, non avevo aspettato altro, fino ad allora, che qualcosa lo risvegliasse al mio interno.
Perciò, tornando a casa sul solito tram, presi ad esternare a Adelaida i miei intenti. “Siamo i personaggi di un libro, Adelaida. Non scendiamo alla solita fermata – le dissi – questo tram ci porterà più lontano…”. “Ma sì – replicò – meglio tagliare i ponti con certa gente che non vede al di là dei suoi passi. Ci sono circoli più stimolanti, dintorno, e anche mate più caldo”. Conoscevo la sua avversione per il mate immancabilmente tiepido che servivano al nostro caffè, ma pensai che parlasse per metafora. “Andiamo insieme mano nella mano” aggiunsi; non doveva avermi ben ascoltato, perché ribatté fuori luogo “Ha belle mani, d’accordo, ma non avrà sempre ragione per questo…”.
Si riferiva a Vaquero con un’enfasi eccessiva rispetto al passo che stavamo per compiere, ma supposi che lo facesse per compiacermi, e rinsaldare i nostri propositi. “Ritroveremo anche lui” sostenni, riferendomi evidentemente alla perfezione insita nella Biblioteca. Una perfezione che implica totalità: non esiste concetto o astrazione che la Biblioteca non ospiti, unitamente a ogni possibile variante e ai rispettivi contrari. Non esiste complesso di periodi, di iati, di dissonanze o stridori verbali che non riposi su di un qualche scaffale in qualche poco illuminato corridoio esagonale. Per questo immaginavo che avremmo trovato, prima o poi, anche il libro imperniato su Vaquero, per motivarne i limiti e le asserzioni. “Ritroveremo anche lui” dissi, e Adelaida in risposta mi guardò mezza estasiata, pericolosamente dolce. Fui grato alla perfezione che corollario della perfezione fosse l’unicità: questo significava che mai in alcun modo essa avrebbe potuto contenere due volumi uguali, sicché per leggere avremmo dovuto stringerci vicini, stretti stretti.
Pensai che un bacio, il nostro primo bacio, doveva suggellare l’armonia del nostro accordo. Presi con la mia la mano destra di Adelaida, mi avvicinai alla sua bocca e la sentii esclamare “Oh, siamo già in Avenida Lugones. Ti saluto, a domani”. E stringendomi a sua volta la mano se ne scese via.
Così da decenni io vago da solo per questi anfratti grigiastri. L’assurdo comportamento di Adelaida aveva finito per rafforzare, sebbene di puntelli amari, la mia convinzione. “Me ne andrò lo stesso”: questa idea proruppe in me simile allo scoppio di un bazooka (subivo probabilmente la suggestione dei ripetuti bollettini). C’era più di un motivo perché decidessi così: la scelta di darmi alla Biblioteca, lungi dal venir meno, si alimentava dell’incomprensione di Adelaida. Soltanto lì potrò ritrovarla, mi dicevo, solo nella dimensione illimitata del possibile. Quando avrà pienamente compreso quanto è angusta questa nostra vita, e quanto è fatuo Vaquero, non potrà non raggiungermi. Allora io sarò lì ad accoglierla, a mostrarle le mie scoperte, le leggerò il libro dove è scritto che lei non poteva mancare di venire.
Mi confortava per di più la riflessione che la mia ricerca non sarebbe stata infinita. La Biblioteca ha precisi confini. Tutte le possibili combinazioni di un numero finito di simboli entro un numero finito di pagine, infatti, costituiscono pur sempre un totale finito. Non stetti a calcolare questo enorme totale (risultante, ripeto, da ogni possibile rapporto tra loro dei 25 simboli in uno spazio di 410 pagine, quante ciascun volume ne contiene) ma, rincuorato di potere forse un giorno tornare, partii.
Da allora girovago frugando tra scansie e tra ripiani, in cerca di qualcosa che non so ancora che sia. La mia speranza di incontrare un giorno Adelaida si è andata spegnendo, nel ragionare quanto siano distanti questo mondo e il suo. Lunghi anni di peregrinazioni, di ogni tipo di pericoli (la Biblioteca non è scevra da insidie) hanno fiaccato la mia determinazione: anni di letture notturne al chiarore oscillante di un lumino, di assalti disordinati agli scaffali più riposti, di lente ascese ai piani superiori… La mia testa deve essere bianca, la mia pelle avvizzita, ma per fortuna non ci sono specchi qui, a duplicare gli inganni del tempo.
Ora so che Borges aveva ragione, ma non so più perché mi trovo qui. Il ricordo di certe frasi di Vaquero, di un suo fare accondiscendente in quella sera fatale, mi inducono a credere che egli fosse consapevole di quel che andava maturando: il compiacimento con cui mi strinse la mano, come a un rivale sconfitto, nel dirmi “Non mi meraviglierei che se ne partisse…”, mi fa ritenere che stesse portando l’attacco finale, invogliandomi a levarmi di torno. E ho il terrore di leggere prima o poi la mia storia come quella di un innamorato schernito…
Ho sfogliato pagine a migliaia, con le storie più strane e con i versi più dolci, e alcune volte mi è parso che quelle poesie così toccanti non potessero ispirarsi che a Adelaida. Così mi sembrava che fosse ancora vicina…
Però forse la guerra ha raggiunto Buenos Aires e si è portata via pure lei. Ho un modo soltanto di appurarlo. C’è un solo libro, tra questi, che potrà chiarirmi cosa davvero è successo, qual è il destino di Adelaida e quale il mio, e se mai potremo riunirci: è il libro scritto da me, l’opera che ho realizzato senza saperlo per completezza della Biblioteca e di me stesso.
In verità ormai da lungo tempo non ricerco altro. Le conoscenze più inaccessibili, i segreti più arcani (quello dell’A-bao-A-Qu, per esempio, paradigma della zoologia fantastica disvelatomi da un manuale come animale che fruisce di vita cosciente solamente allorché qualcuno sale le scale), tutto ho sacrificato all’eventualità casuale di trovare il mio nome su di una copertina. Vagando da un cunicolo all’altro ho conosciuto decine di ricercatori come me, per lo più folli dallo sguardo errabondo. Ad essi domandavo se avessero incontrato mai nel cammino una signora dai profondi occhi verdi e dalla voce un po’ roca, ma quelli non rispondevano che con qualche frase sconnessa.
Oggi che ancora mi trascino come un rettile ferito, sento parlare di tanto in tanto di bibliotecari suicidi, o di criminali bande distruttrici di volumi… La Biblioteca ha le sue leggi e le sue efferatezze. Io stesso ho assistito al rito delle “nozze di stampa” fra due libri, celebrate da un’esecrabile setta di adoratori di copertine…
Adelaida,Vaquero, le nostre discussioni, la guerra: tutto mi si è dissolto in una nebbia che non cessa di ottundermi, e non so più se davvero esiste in qualche parte Buenos Aires con i suoi circoli e le sue donne, o se non stanno soltanto in qualche mia lettura. Penso anche di comprendere i tanti ricercatori che si sono lasciati morire senza aver concluso altra ricerca che quella di una disperazione indefinita…
E tuttavia sono andato avanti. Ho proseguito la mia strada e oggi ho finito. Ce l’ho qui, tra le mani, l’ho sotto gli occhi, il mio libro…
Lo stringo, lo spolvero con premura paterna alla sua consistenza, al suo peso. Ne apprezzo la rilegatura, l’impaginazione, gusto il suo odore di carta, mi tremano le dita… Ora con trepidazione lo apro, lo sfoglio, ho le mani sudate, stringo gli occhi e leggo: “Era l’autunno del 1941, una stagione particolarmente afosa…
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Nicola Lismo
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