Avrò cura di te: questa la promessa che dà il titolo al romanzo di Chiara Gamberale, voce di Gioconda e di Massimo Gramellini, che oltrepassa il velo per diventare il suo Angelo Custode, Filemone, come il marito della favola di Ovidio, che esaudisce il suo desiderio di un amore eterno.
Perché il dialogo tra Giò e il suo Angelo Custode nasce dalla disperazione per un amore creduto eterno ed ormai finito, che la spinge a scrivere un biglietto cinico e disincantato invocando aiuto e a riporlo in un cassetto, come aveva già fatto in precedenza la nonna della quale porta il nome, unico punto fermo ed esempio di fedeltà assoluta ormai volata via.
La prima risposta di Filemone, voce interiore sommersa dal frastuono delle distrazioni del mondo esterno, è la promessa di accompagnare l’anima solitaria di Giò alla riscoperta della sua luce e della sua ombra, in un percorso di ascolto e di perdono che si sottrae “al consumo sbadato e al piacere immediato”, al fine di ritrovare se stessa e il suo equilibrio, messo a dura prova dalla fine del matrimonio con Leonardo.
Intorno alla professoressa Giò ruotano esempi discordanti di amore: la mamma dalla quale ha ereditato la forza degli uragani e il desiderio di fuga e al contempo di rifugio in amori appassionati quanto brevi, il padre che ha ora accanto una donna mite come lui che lo ascolta e condivide la passione per i rettili, l’amica Kiki che non rinuncia alle gioie familiari e alla passione fedifraga, fino ad arrivare poi ai suoi studenti, che incarnano le sue recondite paure e i desideri di adolescente cresciuta senza avere interiorizzato il passaggio all’età adulta.
E mentre Giò concentra ostinatamente vita e pensieri sulla fine del suo matrimonio nel tentativo di sopportare la vita che le si prospetta senza l’oggetto del desiderio e si sente al contempo colpevole e inadeguata per non avere saputo valorizzare la felicità perfetta ormai persa, Filemone scardina le sue convinzioni e la invita a riflettere sul senso di vuoto che la attanaglia da sempre, sul rapporto complicato con una madre troppo figlia e con un padre troppo mite che non le hanno dato stabilità e regole, sulla sua voglia di fare la rivoluzione e cambiare la realtà senza dare l’esempio al prossimo, sul suo egoismo audace e infine sulle insicurezze che cerca di soffocare nell’urgente e onnipresente bisogno di vivere emozioni forti, intense e brevi, che non sa distinguere dai sentimenti, esposti alla caducità e all’inesorabilità di tempo e spazio.
Disincantata nei confronti della vita e dell’Angelo Custode, che le offre orizzonti ma non vie d’uscita e gelosa della nuova compagna del marito, Giò si lascia assorbire dai ricordi di un passato idealizzato e si auto commisera ostinatamente per la debolezza che l’ha spinta nelle braccia di un altro, mentre Filemone la incita a cambiare punto di vista e a comprendere nel profondo l’infelicità a cui stava condannando se stessa e il marito, nutrita nel corso degli anni da trascuratezza silenziosa, mutismo dei corpi, narcisismo esasperato, bisogno esacerbato di riconoscimento reciproco e competizione smodata.
Durante il loro scambio di lettere, Filemone continua con cura a tenere una mano sul cuore di Giò e una sulla sua testa, affinché la paura e la disperazione non abbattano e paralizzino la sua anima solitaria, che ha bisogno di abbandonare i pensieri egotistici e iniziare a sentire con il suo cuore sensibile, assumendo dosi quotidiane di leggerezza e affidandosi all’intuito, riportando alla luce i suoi talenti repressi e attraversando il suo dolore, al fine di accettarlo e guardare con fiducia ritrovata al futuro, “senza compiangersi, senza covare risentimento, ma nutrendo solo il senso di una consapevole inesorabilità”.
Non rinunciando a delle interessanti lezioni sulle anime affini, complementari e prescelte, che dimostrano come il destino prescinda dal pensiero razionale e dalla lotta affannosa per la felicità terrena se questa non mira a contribuire all’armonia con il creato, Filemone guida Giò all’accettazione del suo Io frammentato che per ricomporsi ha bisogno di cure e attenzioni, al fine di evolversi per spiccare il volo, evitando di strisciare nei meandri di un’identità confusa o di fuggire da ciò che non può controllare, così come imparare ad ascoltare il prossimo affinché l’amore non diventi solo una sterile dipendenza o una mera abitudine.
Per convincerla di potere completarsi ascoltando il suo Io e acquisendo così la consapevolezza di essere giusta e perfetta, Filemone suggerisce a Giò di partire in compagnia di se stessa, per estraniarsi dall’impellenza di comunicare per esistere e di guardare il mondo con gli occhi altrui per compiacere il prossimo nel timore di non essere accettata, riuscendo finalmente a distinguere l’agitazione delle emozioni e l’esasperazione dei sentimenti dal sano desiderio di movimento, per non rischiare di vivere in un passato colmo di rancori e rimpianti e al fine di fare ritorno alle origini perché consci del valore di ciò che abbiamo e della potenza dell’amore che è linfa vitale se ci accettiamo “piccoli come siamo, smarriti, terrorizzati, costretti a sbagliare per evolverci”.
Al ritorno dal viaggio a Rapa Nui, Giò riconosce infatti l’evoluzione del suo vissuto negli ultimi mesi, da donna sfiduciata e proiettata narcisisticamente verso l’interno, ad armonia di paure, desideri, bene e male fatti e ricevuti, nei quali ora però non si annienta, non si annulla e non si nasconde, ma piuttosto accetta professando un atto di fede nei confronti della vita e lasciando andare Leonardo e tutte le sue ossessioni, che per mesi hanno zittito la voce del suo emisfero intuitivo.
Questo è il momento in cui l’amore trionfa nella sua normalità, in cui ognuno trova la sua felicità in una nuova compagna, un figlio acquisito, un amore fedifrago o rientra in un porto sicuro perché, “se l’amore è una discesa dell’eternità nel tempo e nello spazio, non può limitarsi al miracolo dell’incontro e alla poesia dell’istante. […] Trovarsi rimane la magia, ma non perdersi è la vera favola”.