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I Signori Hambala erano somali da sempre e inglesi da 10 anni appena. Da qualche tempo avevano finalmente comprato un negozio di frutta esotica a Queen’s Ray, il quartiere nero di Londra, e avevano coronato il sogno di una vita. Ormai possedevano tutto ciò che una famiglia potesse desiderare: dei figli, un amore ben consolidato, una terra che li ospitava in libertà e una villetta a schiera con un piccolo giardino e uno splendido barbecue per le domeniche a pranzo con gli amici. A dire la verità il barbecue l’avevano appena comprato e non era una di quelle ultime trovate moderne che, piuttosto che semplici piattaforme su cui arrostire, sembrano vere e proprie cucine in giardino. Era invece una semplice catasta di mattoni incollati col cemento, una lastra di marmo, neanche delle migliori, e una grata per arrostire hamburger di soia. Non era il migliore dei barbecue ma, come diceva lo stesso Signor Hambala: “Gli hamburger di soia hanno lo stesso sapore dovunque si arrostiscano.”
Non è di certo della casa o delle spese degli Hambala che si vuole parlare e neanche, a dire il vero, dei loro hambureger, ma del fatto che, dopo la serata con i vicini, i coniugi non tirarono via i pezzetti di soia rimasti attaccati e penzolanti dalla grata e… non ci vuole di certo una mente geniale per capire che prima o poi, a pulire, sarebbero arrivate le formiche.
Le formiche vengono di solito avvertite dalle sentinelle: “Cibo sulla grata del barbecue, cibo sulla grata del…”
“Ma non dovevamo prima ripulire la cantina dalla farina di ceci?” disse Trentuno a Dieci che stava spingendo via un brandello, non ben identificato, di un insetto. Una zanzara, forse, o qualcosa che somigliasse ad una zanzara, che era così morta e mal ridotta che non la si riusciva a distinguere da qualsiasi altra carcassa di insetto.
“Cos’ha la soia che i ceci non hanno?”
Ma Dieci, che era una formica che lavora duro, non si faceva troppe domande: lei pensava che se non si dà l’anima, si finisce come la cicala.
La cicala suonava e…
“Ancora con questa storia?” si innervosì Trentuno.
Da quando il Signor Hambala aveva raccontato la storia della cicala canterina ai figli, nelle formiche era nata una fede, la parola di Hambala era diventata una dottrina da seguire:
“Non bisogna cantare e divertirsi troppo, altrimenti si finisce come la cicala, che quando arrivò l’inverno morì, mentre le formiche invece…”
“Te lo dico io” disse Trentuno, “si trovarono sotto tre metri di terra a sistemare le proprie cibarie e a mangiare, aspettando un’altra Estate di duro lavoro” e lo disse a gran voce, tanto che le altre formiche si voltarono e la guardarono irritate, come se stesse bestemmiando. Anzi, a dire il vero, andare contro la dottrina della cicala era una vera e propria bestemmia che poteva essere punita, se non dalla legge delle formiche, da quella della natura. Dieci abbandonò il suo insetto, lo lasciò per un attimo guardandosi attorno, e si avvicinò a Trentuno che se ne stava indecisa tra i ceci e la soia.
“Senti amica mia”, disse Dieci, “che sia soia, che siano ceci, alla fine ciò che conta è che stiamo lavorando e non stiamo cantando, che quando la Natura ci verrà contro, noi saremo al sicuro e mangeremo.”
Trentuno fece il coro al vecchio Dieci:
“… e dopo aver mangiato moriremo, o moriremo prima, mentre mangiamo o… forse adesso, pestati dal figlio degli Hambala che corre per i prati.”
Trentuno non era una formica cattiva, neanche era mai stata una svogliata, ma ditemi se da tanto torto, con quelle parole, non poteva passare a ragione? Milioni di formiche lavoravano duro da tanto, fino allo sfinimento, fino a morire, così com’era successo ad amici ed amici di amici. Quelle schiattavano sotto una suola di un imbecille con la vista troppo corta per vedere dove cammina e, appena venivano rilasciate in terra: cosa succedeva? Succedeva che arrivava un amico o un amico di un amico e le prendeva, le usava come cibo e non ne piangeva neanche la morte. Tanto le formiche sono tutte uguali di fronte al lavoro e morire a lavoro è come morire in guerra, non si può piangere più di tanto. Così, visto che le formiche per la maggior parte del tempo lavorano, alla fine non le piange mai nessuno: le formiche non piangono i loro morti.
Dieci lasciò il suo insetto e disse a Trentuno di seguirla, che avrebbe portato lei i pezzi più grossi e che avrebbe lasciato i pezzi più piccoli a chi avesse crisi d’identità.
“Non vorrai mica diventare una cicala?”
“Perché no? Cosa avranno le cicale che non vanno? Muoiono felici e suonano, almeno quello. E poi… non si è mai vista una cicala morire di fame in tutto il giardino, da anni.”
Che la fede che avevano per la parola di Hambala e per il lavoro, fosse in realtà una farsa?
La regina, i consiglieri, i messaggeri e le formiche guerriere avevano sempre il meglio e a loro, alle operaie, toccavano sempre le pagliuzze. Dovevano quindi lasciare i ceci per la soia per poi finire ugualmente a mangiare pagliuzze? Che prendessero direttamente quelle, allora.
Dieci era avanti già di un bel po’ e parlava, parlava, parlava… quanto parlava lo sapeva solo lei.
Blaterava di lealtà alla regina, di valori, della parola di Hambala circa le cicale: “Hai ascoltato anche tu, no? Eri una piccola formica ma c’eri, eri lì mentre lui leggeva dal gran libro.”
La vecchia formica continuava ciò che era ormai divenuto un monologo.
Trentuno era già con la testa dove voleva andare: via da lì.
Ma Dieci, vecchia com’era, non si sarebbe accorta della sua assenza ancora per molto e tutti l’avrebbero presa per una formica squinternata qual era e che, tutti lo sapevano, sarebbe morta da lì a poco, per via dell’età, senza che nessuno versasse una lacrima… tanto le formiche sono tutte uguali, tanto loro hanno il rimpiazzo, tanto loro non le piange nessuno.
Trentuno, invece, dov’era? Era in viaggio, ecco dov’era. In viaggio verso l’ovest, verso i muri di cinta del giardino dove, si diceva, abitassero le cicale. Nessuno si era mai spinto verso l’Ovest, perché si mormorava che quegli insetti fannulloni, con quei canti, avrebbero portato il popolo delle formiche a diventare come loro, senza fede, senza dedizione ai loro capi, senza benché minima voglia di fare, senza futuro. Era una società condannata a collassare, prima o poi… e da quel giorno solo le formiche avrebbero dominato il giardino, solo loro. Ma a tutto quello, Trentuno aveva finito di credere da tempo. E allora via, verso i nani di pietra, fino a spingersi oltre gli alberi di pesco e poi oltre la landa paludosa e alla pianura delle rose rosse, per arrivare fino alla collinetta dei cavoli e delle patate, da dove si poteva scorgere l’immenso muro di cemento, la fine di tutte le fini, la libertà di tutte le libertà.
Le cicale non erano così piccole come Trentuno pensava. Erano giganti a dire la verità e scansare i loro atterraggi ad ogni salto restando in equilibrio ad ogni spostamento d’aria che creavano, era un’impresa. Non c’era d’aver paura. La loro musica era sì, tanto forte da arrivare oltre i confini, ma in fin dei conti erano innocue, tranquille e beate, pronte a scambiarsi qualche parola, a lamentarsi come ogni società di insetti e a suonare e… morire. Si accorse, Trentuno, che un gruppo di cicale stava di fronte ad un’altra cicala che stava parlando, dall’alto di un sasso, alla folla triste. La formica si fece spazio e ascoltò.
“Oggi, la nostra cicala Cri Cri, non sarà con noi, ci ha lasciato, ed io, suo figlio Cri Cra, sono qui solo per dirvi di non piangerlo, ma di essere allegri, di ricordarlo così come lui voleva essere ricordato.”
Sembrava il discorso riguardante una cicala potente, forse il capo delle cicale. L’insetto canterino diceva di non piangere la morte di quel Cri Cri e Trentuno, per questo, era rimasto di stucco: lui che per le sue formiche voleva proprio il semplice pianto dopo la morte.
E invece quelli se ne stavano, sì a piangere, ma ad ascoltare uno che diceva loro di smettere di farlo. Che diavoleria è quella della terra del cemento delle cicale? Una diavoleria, ma pur sempre bagnata di lacrime e sentimenti e di… nomi. Trentuno notò che le cicale avevano dei nomi che, seppure strambi, non erano di certo dei numeri. Che belle che erano, che gran lavoratore doveva essere la cicala scomparsa, che grande cicala. Lo chiese. Con cortesia si avvicinò ad una cicala, la più piccola tra loro e anche la più vecchia. Cercò quella che poteva essere la più innocua, non perché avesse paura, ma perché la prudenza non è mai troppa: ne aveva sentite tante su quelle cicale che il minimo che una formica potesse fare, una volta tra loro, era quello di starsene cauti e attenti e pesare ogni parola.
“Che lavoro faceva Cri Cri?” chiese Trentuno alla cicala che non l’ascoltava, ma la guardava.
Forse non capiva bene il suo linguaggio, era normale, quindi cerco di farsi capire gesticolando, ma quella, ad un punto, rise di gusto vedendo la formica impacciata imitare cose che non si capiva bene cosa fossero, ma lo faceva davvero con una grande maestria tanto da far scoppiare in risate anche le altre cicale, che per l’occasione, si riunirono a guardare Trentuno: che buffa che era, che buffa e goffa.
“Allora capite la mia lingua” disse Trentuno.
“Ma certo, che domande. Noi cicale parliamo tutte le lingue del mondo.”
“Le studiamo” rispose una delle cicale che aveva appena smesso di ridere.
Trentuno chiese allora come mai non avesse risposto e quella, del tutto inaspettatamente disse qualcosa del tipo: “Non ho capito cosa volevi dire.”
“Chiedevo se era un gran lavoratore” disse allora Trentuno, ma quelle guardavano come cascate dalle nuvole. Stettero un po’ ad osservare e poi scoppiarono a ridere nuovamente.
Sembravano sceme per quanto ridevano, tanto quanto sembravano belle ed ideali quando piangevano. Pensavano che quella di Trentuno fosse una barzelletta o qualcosa di simile ma la formica continuava a chiedere e lo faceva in modo cortese, nonostante dentro avesse un fuoco.
“Cosa faceva durante la vita?” disse.
Ma quelle ridevano a crepapelle, che spasso che era Trentuno e lui non lo sapeva, lui era così com’era e come sempre era stato.
La cicala rispose: “Mangiava, rideva, piangeva, scherzava e cantava tanto che era un piacere ascoltarla.. questo è quello che faceva Cri Cri in vita.”
“E’ per questo che la piangete? Per questo la ammirate?”
“Per questo” disse la cicala, “per questo.”
Si chinò per guardare la formica negli occhi o per lo meno, per capire se gli occhi li avesse.
“Cri Cri era la cicala canterina più famosa, qui. Una grande viaggiatrice che si spinse verso il mondo delle formiche e portò grandi storie da lì… grandi storie.”
Ecco cos’era, le cicale non avevano ancora capito che Trentuno fosse una formica. Chissà che storie aveva raccontato Cri Cri sul loro conto.
Gli disse: “Io sono una formica”, e quelli restarono impietriti perché, per studiare le lingue degli insetti, studiavano eccome, avevano tanto di quel tempo, ma a spingersi verso i loro mondi per vederli, non era cosa facile, bisognava lasciare la città di cemento delle cicale e solo Cri Cri ne aveva avuto il coraggio, senza successo del resto, ma con un grande insegnamento alle spalle che fu dottrina per tutta la società.
“E’ un onore” disse la cicala, “un onore avere con noi una formica… specie se in vacanza” e risero nuovamente, ma la formica non poteva di certo arrabbiarsi più di tanto contro quei giganti e calava la testa aspettando che finissero di menarla tanto per le lunghe.
“Scusa” disse la cicala asciugandosi le lacrime, stavolta per le troppe risate, “ma è per via di Cri Cri e delle sue storie su di voi”, ma mentre parlava, altre risate cercavano di uscire da uno sguardo portato a forza a serietà.
“Che storie?”
“Vuoi saperle?”
“Certo” rispose la formica e la cicala cominciò a cantare.
Iniziò uno splendido spettacolo musicale, non solitario, ma accompagnato da cento e più cicale che conoscevano a perfezione ogni nota della storia di Cri Cri.
La cicala si era spinta fino al mondo delle formiche dopo aver sentito, un giorno, un uomo rimproverare un bambino che non voleva studiare. Cri Cri viveva, in quel tempo, nel giardino accanto, dove un certo Signor Mayer non parlava bene delle cicale, non ne parlava affatto bene e Cri Cri da questa cosa rimase molto deluso, perché il canto delle cicale piaceva ai bambini, a lui e alla moglie e ad ogni innamorato del mondo. Fu proprio Cri Cri a cantare la serenata d’amore quando Mayer chiese alla sua consorte di sposarlo. Ma nonostante tutto quello, Mayer diceva al figlio: “Fai come le formiche, che lavorano sodo, e non come le cicale che cantano tutto il santo giorno.”
Così prese fagotto e partì per capire se anche le formiche cantassero e, quando arrivò, vide milioni di piccoli insetti scuri sudare come nessun insetto. Chiese perché, ma quelli non avevano tempo per rispondere, dovevano lavorare. Cri Cri, che era una brava cicala, per alleviare le loro fatiche, cominciò a cantare, ma quelle che all’inizio apprezzavano, erano in seguito diventate scettiche sul conto della cicala, dicevano che era buona a nulla, che nell’Inverno si sarebbe trovata male, che bisognava lavorare e non cantare: che avessero sentito il Signor Mayer rimproverare il figlio negligente…
Una formica in particolare ogni giorno rimproverava Cri Cri, le diceva di smetterla con quei canti, di lavorare per mangiare, ma la cicala rispondeva “ad ognuno il proprio compito”, diceva che le formiche avevano i lavoratori e i capi… ma non si erano accorti di non avere i giullari, di non avere, quindi, la libertà.
Ma nulla, quella continuava a dire che bisognava lavorare perché poi… perché poi…
Sempre poi, il futuro, il futuro…
“Il futuro non è altro che la vita che va via, il passato è la vita andata… perché, cara formica, non vivi il tuo presente?”
Quella non sentiva né canto né parole.
Cri Cri si svegliava a tardo mattino perché cantava tutta la notte. Cercò la formica per intonarle una sua nuova canzone, ma nessuno l’aveva vista. Dov’era? Lavorava così tanto per il suo futuro che non poteva essere altrove se non lì, a trasportare un pezzo di qualcosa che aveva valutato commestibile. E poi la vide, non trascinare, ma trascinata. Era morta, accartocciata e tirata via da un’altra formica.
Fece un balzo, Cri Cri, e arrivò fin sopra la scena.
“Cosa è successo?”
La formica non si fermava un attimo dal suo eterno trasportare.
“Morta sul lavoro” diceva con voce atona, e continuava il suo cammino.
“Dove la porti?” chiese la cicala.
“Dove può servire a qualcosa: in dispensa!”
Che si dica male delle formiche, le cicale ne dicono peggio, perché quando arrivò Cri Cri alla città di cemento, la storia venne cantata a tutti che rimasero quasi inorriditi da quello che avevano sentito.
“La formica che tanto aveva lavorato per il suo futuro” diceva Cri Cri, “alla fine era morta schiacciata dal peso del cibo che trasportava.”
Che fine orrenda, che orribile spettacolo, ma tutti avevano imparato: il futuro è la vita che va via, il passato la vita andata, vivi il tuo presente.
Finì il canto, lo spettacolo chiuse il sipario e le cicale fecero un inchino alla formica che rimase di sasso.
“Io conoscevo la storia” disse, “ma il Signor Hambala e Dieci l’avevano raccontata diversamente… Cri Cri era morta per il freddo e le formiche…”
Le cicale risero, non vollero ascoltare neanche un’altra assurdità e assicurarono che Cri Cri era viva fino al giorno prima e una lacrima uscì fuori, lieve, a ricordare ciò di cui avrebbero cantato la sera, di una cicala sognatrice e viaggiatrice.
Di ritorno, la formica pensava. Sia inteso, la storia che aveva sentito da piccola cantava di una cicala e di una formica, ma niente di più ricordava e mai nient’altro avrebbe ricordato: era piccola ai tempi e troppo grande adesso, per avere chiaro quel passato e quelle parole.
Verso la collinetta di cavoli e patate, dalla pianura delle rose rosse alla landa paludosa, per spingersi dall’albero di pesco fin sopra i nani di pietra, da dove si poteva scorgere l’immensa pianura d’erba, terra delle formiche, l’inizio di tutti gli inizi, la schiavitù di tutte le schiavitù.
Trentuno, appena arrivata, non aveva ricevuto una grande accoglienza, intenti com’erano gli altri a lavorare. Non era stata abbracciata da nessuno, ma di certo sarebbe stata abbracciata da Dieci, almeno da lei avrebbe ricevuto un affetto quasi paterno, ma nulla, Dieci non si vedeva o… forse sì.
Accartocciata su se stessa, veniva tirata via da un’altra formica:
“Cosa è successo?”
Trentuno arrivò nel mezzo della scena.
“Morte sul lavoro!”
Non c’era bisogno di chiedere dove la stessero portando: in dispensa, che domande.
Chiese se poteva portarla lui, Dieci era un’amica.
“La fannullona si è rimessa a lavorare” disse la formica e poi, lasciando la carcassa di Dieci in terra continuò: “Tieni pure, io ho il secondo barbecue degli Hambala da andare a ripulire.”
Trentuno trascinava la formica, la portava con grande sforzo tanto da sembrare una grande operaia, ma si spingeva fino alla parte opposta della fila delle operaie rientranti alla tana, che stavo sempre alla destra delle operaie uscenti. Lei, tra le rientranti, era l’unica in senso contrario, l’unica che spingeva cibo verso fuori e non in dentro, come la natura comanda, come la società delle formiche comanda, come ogni responsabilità direbbe di fare. Sbatteva tra le altre formiche senza curarsene, e più sbatteva, più Dieci ruzzolava via, ma lei ritornava a prenderla e continuava.
“Dove vai” gli gridavano dietro.
“Quella è la parte sbagliata” dicevano.
“Ti farai male e farai male agli altri.”
Ammonivano, correggevano, spintonavano, ma Trentuno non aveva nessuna intenzione di fermarsi. Qualcuno aveva inventato una storia e l’aveva raccontata a tutti celando la verità su Cri Cri e le cicale per paura che le formiche prendessero posizione, per paura che le formiche capissero che bisogna anche guardare lì dove nessuno guarda e per questo lui avrebbe fatto il giullare, il cantastorie, avrebbe imparato dalle cicale e sarebbe tornato ad insegnare alle formiche che… bisogna piangere i propri morti.
Su una piccola collina, Trentuno ha sotterrato Dieci ricoprendola d’erba. Mai, nella storia della terra delle formiche, c’era stato un funerale, anche se così povero di folla, e da tanto non si vedeva una lacrima versata per una defunta formica, ma quella di Trentuno era una lacrima ed era sincera.
Forse Trentuno stava diventando una cicala, o forse, semplicemente, ogni formica né porta una dentro l’anima.
©
Alessandro Cascio
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