1.
Brevi cenni d'introduzione sull'Opera lirica
Prima di poter affrontare l'analisi di un'opera
importante e meravigliosa quale è la
Turandot di Giacomo Puccini, è doveroso
dare alcune informazioni preliminari riguardo
la storia stessa dell'Opera, fenomeno di costume
e cultura che ha attraversato brillantemente
oltre quattro secoli di storia.
Ogni grande appassionato è solito pensare
all'Opera così come io stesso abitualmente
la scrivo, con la O maiuscola, immutabile
e sacra, adorabile e intramontabile. Ma come
ogni fenomeno di costume che attraversa varie
epoche anche l'Opera così come la conosciamo
e l'apprezziamo non è sempre stata
uguale a sé stessa. È cambiata
nella forma come nei contenuti, nella complessità
come nella resa teatrale.
Le prime opere documentate risalgono alla
fine del sedicesimo secolo, ma se vogliamo
fissare una data concreta e in modo altrettanto
tangibile fornire dei nomi, l'opera alla quale
dobbiamo fare riferimento è la Dafne
di Jacopo Peri e Jacopo Corsi, la cui prima
rappresentazione risale presumibilmente all'anno
1594. Pietro Bardi, un loro contemporaneo,
descriveva con queste parole la semplicità
strumentale della rappresentazione: "messa
in musica dal Peri con poco numero di suoni,
con brevità di scene e in piccola stanza
rappresentata."
Non v'è dubbio che di acqua sotto i
ponti ne è passata parecchia. Basta
pensare alle suggestive scenografie della
stessa Turandot; ma volendo proporre esempi
diversi possiamo citare anche altre illustri
opere quali Adriana Lecouvreur, L'elisir d'amore,
Norma, Trovatore e altre. Scenografie di grande
impatto, ma non solo: anche grande ricercatezza
strumentale e coreografica. Opera, quindi,
con la maiuscola.
Nella lunga e ricca storia dell'Opera sono
moltissimi i compositori che hanno ceduto
al fascino della rappresentazione teatrale
e che hanno dedicato risorse del proprio estro
alla composizione lirica. Compositori tanto
dissimili tra loro che solo avvicinare i loro
nomi ci può far meglio comprendere
la complessità e la varietà
del fenomeno: Puccini, Verdi, Mozart, Beethoven,
Strauss, Donizetti, Ciaikovskij, Wagner
e la lista potrebbe essere davvero interminabile.
L'Opera nasce in Italia e per molti anni il
nostro stesso idioma è stato la lingua
dell'Opera. Ogni autore musicava libretti
in lingua italiana e solo in un secondo tempo
si cimentava anche nella lingua madre (Mozart
su tutti). Un poco la volta l'egemonia della
nostra lingua comincia a declinare e al giorno
d'oggi, seppur la tradizione maggiore parla
ancora la nostra lingua, i libretti operistici
vengono realizzati nelle più svariate
lingue.
Una tradizione forte la nostra che, nonostante
viva ultimamente un periodo di apparente declino,
abbraccia i più grandi compositori
mai esistiti. È difficile trovare una
tradizione operistica che possa vantare nomi
eccellenti quali Puccini, Verdi, Bellini,
Rossini, Donizetti, Mascagni.
Wagner con le sue innovazioni ha saputo dare
quella spinta verso una maggiore resa teatrale
e ha saputo creare il giusto equilibrio tra
musica e testo, tra melodia e dramma, ma il
contributo maggiore alla storia dell'Opera
è ancora appannaggio dell'Italia.
E non possiamo parlare di Opera se non menzioniamo
anche tutti quei meravigliosi interpreti che
nel corso dei secoli hanno saputo tradurre
magnificamente le emozioni dei compositori,
fino a toccarci nel profondo e risvegliare
emozioni che in taluni casi addirittura ignoravamo.
Direttori d'orchestra, musicisti, cantanti
e quanti altri collaborano alla realizzazione
maestosa di quello che ogni volta può
essere ritenuto un evento vero e proprio.
Vedere una rappresentazione è come
assistere ogni volta ad una "prima",
con diverse sfumature e un diverso modo di
rendere unica l'interpretazione. E un modo
diverso di porsi all'ascolto, un po' spettatore
e un po' partecipe di incalcolabili emozioni
tradotte in musica, in Opera.
Sono molti gli interpreti passati alla storia
per le loro doti eccelse o per il modo tutto
personale di essere personaggio. In questo
breve saggio non sarà possibile un'analisi
approfondita dei vari timbri e dei vari stili
dei grandi protagonisti dell'Opera mondiale,
ma è certo che alcuni con le proprie
superlative capacità (e ci limitiamo
solo agli ultimi decenni) hanno saputo in
qualche modo rendere ancora più universale
il linguaggio dell'Opera: i tre tenori (Pavarotti,
Carreras, Domindo), Maria Callas, Mirella
Freni, Leo Nucci, Ruggero Raimondi; fino a
interpreti più recenti quali Roberto
Alagna (da molti considerato il "quarto
tenore"), Angela Gheorghiu, Frank Lopardo,
Gino Quilico, Matthew Polenzani. Anche loro
hanno fatto la storia dell'Opera e hanno contribuito
a diffonderla e allo stesso tempo a portarla
fino ai giorni nostri, in un processo ininterrotto
di continuità e mutevolezza.
2. Puccini tra Verdi e Wagner
Non è possibile parlare dell'Opera
di Giacomo Puccini se prima non si fissano
alcuni punti chiave che passano attraverso
le fatiche compositive e ideologiche di altri
due grandi maestri immortali: Giuseppe Verdi
e Richard Wagner.
Come più volte accennato, molti sono
stati i cambiamenti che dai primi anni del
Seicento hanno caratterizzato la storia dell'Opera
fino ai nostri giorni.
Per fare un esempio concreto di come l'arte
di comporre Opera sia nel tempo mutato possiamo
prendere spunto da altri due grandi compositori
che davvero non hanno bisogno di presentazioni:
Gioacchino Rossini e Giovanni Paisiello.
L'occasione utile per mettere in evidenza
il cambiamento radicale è quella del
clamoroso insuccesso della prima rappresentazione
de Il barbiere di Siviglia di Rossini. Il
compositore non nascose di essersi ispirato
alla omonima opera del suo predecessore Paisiello
ed è proprio partendo da una base comune
che riusciamo a mettere in evidenza le differenze
stilistiche e tecniche.
La prima differenza può sembrare meno
ovvia, ma alla luce di quelli che saranno
i cambiamenti che dovranno ancora venire non
può certamente essere trascurata.
Siamo all'inizio dell'opera, nel momento della
serenata. Senza scendere troppo nei dettagli
appare evidente di come la situazione sentimentale
sia maggiormente sviluppata nell'opera rossiniana,
più approfondita e di più ampio
respiro, con un numero quasi doppio di versi.
L'Opera diventa sempre più veicolo
di emozioni, non solo mero intrattenimento.
L'effetto musicale è più legato
alla vicenda e comincia quel processo di unione
musica-dramma che verrà portato a compimento
da Wagner.
Già dalle prime battute Rossini si
differenzia da Paisiello, non è più
lo stesso modo di fare Opera. Appare evidente
a tutti.
Il cambiamento più radicale, quello
che probabilmente fu una delle cause dell'insuccesso
iniziale, si ha con la rottura di una tradizione
della tecnica teatrale. Solitamente il soprano
compare in scena in una cavatina, brano allo
stesso tempo di presentazione e di omaggio
a uno dei ruoli principali. Rossini rompe
questo schema e la protagonista femminile
irrompe sulla scena con un recitativo, sicuramente
meno a effetto seppur più reale. Il
pubblico non gradisce e lo manifesta apertamente.
Ma oramai lo schema è saltato e un
nuovo modo di fare Opera si affaccia prepotentemente
all'orizzonte.
Molte cose dovranno ancora mutare (recitativi
sempre meno ampi, cavatine meno numerose),
ma alcuni cambiamenti sono già avvertibili
e inarrestabili.
La rottura maggiore avviene appunto tra Verdi
e Wagner, l'uno a cavallo tra due periodi,
in continuo sviluppo, l'altro già completamente
proiettato nel futuro, così quasi del
tutto staccato dalla tradizione.
Nelle prime opere di Verdi il numero delle
arie chiuse è ancora preponderante.
La narrazione procede a sbalzi, in una successione
slegata, ma coerente, di brani. E' già
capace di suscitare emozioni forti, ma ancora
lontano da quella rivoluzione musicale e teatrale
che lo caratterizzerà nelle opere della
maturità.
Wagner sviluppa da subito una personalissima
struttura operistica. A differenza di molti
suoi colleghi si interessò molto alla
teoria e alla tecnica che stava dietro alla
rappresentazione teatrale e scrisse anche
alcuni saggi per meglio approfondire le sue
teorie.
Partendo dalle teorie filosofiche sull'arte
sviluppate da Hegel, sviluppa un complesso
sistema di connubio tra testo e musica. Molto
spesso il libretto e la partitura procedevano
su binari paralleli, quasi narrando sensazioni
diverse. Con Wagner la musica è al
servizio del dramma e diventa parte di esso.
È impossibile scindere le due parti
e il dramma si compie quindi nella simbiosi
testo-musica, rendendo impossibile un'analisi
che precluda una delle due parti. Apparentemente
la musica va assumendo un ruolo meno evidente,
ma più partecipe.
La scenografia, e la rappresentazione coreografica,
assume un ruolo determinante e tutto è
curato nei minimi particolari. Il numero dei
musicisti aumenta notevolmente e per la prima
volta l'orchestra scompare nella fossa, liberando
lo spazio visivo dello spettatore, finalmente
del tutto immerso nel dramma.
Puccini sviluppa in modo molto personale le
innovazioni wagneriane. Naturalmente è
molto legato alla tradizione italiana, ma
risente di molte influenze che in qualche
modo lo attirano senza mai convincerlo del
tutto. Risente del verismo, ma in qualche
maniera le sue opere si distaccano dal movimento
portato avanti da Mascagni, e si dirigono
verso sentieri diversi, più indirizzati
sul microcosmo della coppia, del quale parleremo,
che alla realtà circostante.
È vicino anche all'estetismo dannunziano
(e la loro collaborazione fu vicina a realizzarsi),
ma l'immobilità estetica dello scrittore
mal si combina con la dinamica sentimentale
che sviluppa Puccini.
Un compositore fuori dagli schemi e dalle
tradizioni, quindi, così particolare
da risultare alla fine unico e inimitabile:
Puccini, appunto.
3. Puccini e le sue Opere
Puccini è indubbiamente uno dei più
grandi compositori d'Opera mai esistiti e
il suo nome è sinonimo di talento compositivo
in tutto il mondo. Se andiamo a contare le
sue opere ci rendiamo però conto che
la sua produzione è inversamente proporzionale
al suo grande successo e talento. Molti potrebbero
obiettare che nomi quali La bohème,
Tosca, Turandot, Madama Butterfly possono
essere più che sufficienti a soddisfare
ogni melomane, ma il discorso che attraverso
questo dato fondamentale si vuole affrontare
è diverso.
Ogni opera è affrontata da Giacomo
Puccini con una attenzione e una dedizione
che nel mondo della composizione ha ben pochi
riscontri. Altri compositori, non meno noti
al grande pubblico, hanno prodotto una quantità
incredibile di partiture, approfittando di
vantaggiosi contratti e lavorando sulla scia
di una fama senza confronti. Leggendo lettere
e dichiarazioni di compositori o contemporanei
possiamo apprendere che alcune opere, che
potremmo pensare essere il frutto di mesi
di duro lavoro, con il compositore alla ricerca
dell'ispirazione e della migliore forma stilistica,
sono invece il risultato del frenetico lavoro
di poche settimane, a volte pochi giorni.
Per fare un esempio di un'opera di cui abbiamo
già accennato possiamo parlare di nuovo
de Il barbiere di Siviglia di Rossini. Sembra
che il compositore abbia impiegato solamente
otto giorni per realizzare centinaia di pagine
di partitura. Forse di tempo ce n'è
voluto un po' di più, ma non molto,
presumibilmente.
Sarebbe ingenuo pensare che il lavoro di Rossini
fosse del tutto originale e scritto di getto
così in pochi giorni. In effetti il
discorso è molto più complesso,
e avendo la possibilità di studiare
a fondo la produzione rossiniana ci si rende
conto che nella sua celebre opera ci sono
non pochi richiami ad arie e brani di altri
suoi lavori precedenti. Anche la celebre ouvertüre
iniziale sembra appartenesse a un suo lavoro
precedente. Una specie di collage, abilmente
trasformato in una delle opere più
famose mai composte.
Tutta questa frenesia nel comporre non la
ritroviamo certo in Giacomo Puccini. Anzi,
notiamo una certa riflessione, una cura a
volte esasperata sia nella ricerca del tema
che della forma. Naturalmente anche Puccini
ha spesso attinto a temi melodici preesistenti,
soprattutto quando si trattava di dover caratterizzare
in modo appropriato una delle sue opere dal
gusto esotico (Madama Butterfly, Turandot),
però dietro c'è tutta una preparazione
atta a integrare nella trama melodica della
sua opera questi estratti esotici. Nella Madama
Butterfly le note dell'inno nazionale americano
non danno l'impressione di essere messe lì
a riempire un vuoto, ma caratterizzano l'atmosfera
e il personaggio in maniera indiscutibilmente
efficace.
Ma per trovare altri compositori dalle sterminate
produzioni possiamo menzionare per l'ennesima
volta Verdi, Mozart, Donizetti. Artisti di
grande livello, non certo frettolosi nel comporre,
quantomeno trascurati. Compositori che hanno
lavorato con maggiore intensità senza
trascurare per questo la forma e un'attenta
ricerca tematica. Tutto questo ragionamento
serve solo a farci comprendere in modo chiaro
quale fosse la partecipazione emotiva di Puccini
nella composizione delle sue opere e nella
caratterizzazione dei suoi personaggi. Un'attenzione
fuori dal normale che ci permettere di distinguere
ancora una volta Puccini da tutti gli altri;
così unico, così particolare.
Nascono in questo modo personaggi di grande
fascino e spessore come Rodolfo e Mimì,
Musetta e Marcello, Calaf e Liù, Mario
Cavaradossi e Floria Tosca, Pinkerton e Cio-cio-san.
E i nomi delle sue opere sono ormai passati
alla storia della musica: Le villi, Edgar,
Manon Lescaut, La bohème, Tosca, Madama
Butterfly, La fanciulla del West, La rondine,
Il tabarro, Suor Angelica, Gianni Schicchi
(queste ultime tre ad atto unico, unite sotto
il nome de Il trittico), Turandot.
Dodici capolavori è quello che Puccini
ha lasciato a tutti gli amanti dell'Opera;
dodici stelle tra le quali splende luminosa
la meraviglia della sua ultima fatica: Turandot,
naturalmente.
4. Genesi della Turandot
Parlare del mondo magico della Turandot significa
allo stesso tempo attraversare il globo alla
ricerca di atmosfere che si intrecciano le
une alle altre in una simbiosi perfetta tra
le culture più disparate che hanno
influenzato l'autore al momento della composizione.
Ascoltando per la prima volta l'ultima opera
di Puccini si rimane subito colpiti da quel
particolare intreccio di esotismo e drammaticità
reso in modo così particolare da musica
e personaggi.
La solennità dell'atmosfera è
subito evidente dalle prime note e dall'intreccio
di melodie con il quale l'autore apre il primo
atto, ma personaggi importanti e allo stesso
tempo dai nomi un po' bizzarri lasciano con
parecchi dubbi circa le intenzioni del compositore.
Credo che chiunque si affacci per la prima
volta nel magico mondo della principessa Turandot
possa in qualche maniera rimanere colpito
dai nomi poco drammatici di alcuni dei personaggi
che le orbitano intorno. Ping, Pang e Pong,
i cancellieri della principessa, sono nomi
che strappano un sorriso all'ascoltatore italiano,
creando un'idea di comicità piuttosto
che di solenne drammaticità. L'effetto
di sbalordimento passa presto non appena la
natura dei tre viene chiarita.
Approfondendo la conoscenza dell'opera e scavando
fino alle origini dei personaggi ci rendiamo
conto che tutta la struttura, dell'opera e
dei personaggi, è la normale conseguenza
di un lavoro intenso e mirato a creare l'effetto
drammatico proprio della composizione stessa
laddove in origine l'effetto tragico era quasi
inesistente.
Dobbiamo fare un passo indietro e tornare
alle origini di questa storia affascinante.
La Turandot nasce per la prima volta sotto
forma di fiaba teatrale scritta da Carlo Gozzi.
Appare subito evidente quanto e di quale spessore
sia stato il lavoro del compositore allorché
si apprestava a trasformare in dramma quella
che inizialmente era una fiaba. Personaggi
in bilico tra l'esotismo drammatico e la fiaba
nostrana nascono appunto dall'esigenza di
trasformare personaggi tipici della teatralità
comica italiana (le classiche maschere) in
strumenti dell'opera tragica.
Anche il personaggio principale subisce un
cambiamento non indifferente e assume quei
toni cupi e solenni che mai avremmo potuto
trovare nell'opera di Carlo Gozzi.
A proporre la realizzazione della fiaba al
compositore fu il veneziano Renato Simoni,
già giornalista e fortunato scrittore
teatrale. L'idea che voleva sviluppare Simoni
mirava alla realizzazione di un opera capace
di presentare la "inverosimile umanità
del fiabesco". Puccini ne fu immediatamente
entusiasta e calcolò, la storia gli
ha dato ragione, di poter sviluppare a quel
modo una forte drammaticità incentrata
sul personaggio chiave della principessa.
Alcuni anni prima già un altro compositore,
Ferruccio Busoni, aveva musicato con le stesse
intenzioni il personaggio della gelida Turandot,
ma il risultato non può essere nemmeno
lontanamente paragonato a quello ottenuto
da Giacomo Puccini. Inoltre, lo stesso Puccini
con molta probabilità non conosceva
l'opera di Busoni e non poteva né esserne
stato influenzato, né averne in alcun
modo elaborato i concetti e gli espedienti
teatrali.
Un lavoro intenso, quindi, che inizia ancora
prima della partitura, laddove si deve lavorare
su un testo preesistente che poco ha di drammatico,
almeno nel senso inteso da Puccini e dai suoi
stretti collaboratori.
Al momento di iniziare il lavoro vero e proprio
si riformò quel terzetto inscindibile
che già con successo aveva collaborato
alla realizzazione di opere storiche quali
La bohème, Tosca e Madama Butterfly.
Puccini quindi volle come suoi collaboratori
i soliti Renato Simoni, il quale si occupava
di sviluppare la trama, e Giuseppe Adami,
sapiente versificatore.
I successi delle precedenti collaborazioni
facevano ben sperare e i tre non delusero
certo le aspettative. Puccini iniziò
a lavorare febbrilmente al suo capolavoro
e già dopo poco tempo riteneva indegno
tutto ciò che aveva prodotto precedentemente.
Oramai era completamente assorbito dal mondo
orientale della sua ultima composizione e
nulla riusciva a distoglierlo dal suo lavoro.
Quando iniziò a comporre la Turandot
Puccini non era certo più giovane e
una malattia minava le sue forze. I collaboratori
e l'editore stesso cercarono di dissuaderlo
dal lavorare troppo, cercando di suggerire
un riposo ristoratore.
Ma ormai la vita e le energie del compositore
erano strettamente legate alle vicende dei
suoi ultimi personaggi: il principe Calaf,
Turandot la gelida e la piccola Liù,
il cui destino era drammaticamente legato
a quello del celebre compositore.
La prima rappresentazione della Turandot avvenne
al Teatro alla scala di Milano, il 26 aprile
1926, due anni dopo la morte di Giacomo Puccini,
grazie anche alla collaborazione del maestro
Franco Alfano il quale lavorò sugli
appunti di Puccini per portare a compimento
l'opera ultima del grande compositore.
5. La trama
Atto primo. È il tramonto a Pechino,
in un non meglio precisato "tempo delle
favole". Lungo gli spalti delle mura
della città, che brilla in lontananza,
una lugubre sequenza di pali con infissi i
teschi dei pretendenti sconfitti dalla principessa
Turandot. Gli spalti sono interrotti da un
loggiato e da un grande gong di bronzo, il
cui suono sancisce l'inizio della sfida tra
la principessa e i suoi pretendenti. Tre rintocchi,
tre enigmi.
Come è abitudine di Puccini siamo subito
accompagnati nel vivo dell'azione, senza introduzioni
strumentali (ouvertüre o sinfonie). Un
mandarino recita le regole della prova che
i pretendenti dovranno superare: la principessa
Turandot andrà in sposa a chi saprà
sciogliere i tre enigmi che lei stessa proporrà;
il pretendente sconfitto sarà accompagnato
al patibolo, dal boia.
Il principe di Persia è stato sconfitto
dagli indovinelli della principessa e attende
insieme al popolo il momento in cui salirà
sul patibolo per pagare la sconfitta con la
propria vita. In un'atmosfera tesa si attende
il sorgere della luna.
La folla si dirige verso la reggia invocando
a gran voce il carnefice. Nella calca viene
travolto il vecchio Timur, re tartaro in esilio,
aiutato dalla piccola schiava Liù.
La ragazza chiede aiuto e nella folla i due
ritrovano il principe Calaf, figlio di Timur,
che entrambi credevano morto da tempo.
Si intuisce subito del forte affetto che la
piccola Liù prova verso il principe,
il quale un giorno nel proprio palazzo le
aveva sorriso, conquistandola con quel semplice
gesto e inducendola ad affiancare il vecchio
Timur nelle sofferenze della vecchiaia e dell'esilio.
La luna viene invocata dal popolo con evidenti
accenni al suo ruolo di portatrice di morte:
faccia pallida, testa mozza. La morte del
principe di Persia è ormai vicina e
il corteo avanza verso il patibolo dove presto
giungerà anche il carnefice. Una schiera
di ragazzi intona la melodia "là
sui monti dell'est", composta su un tema
originale cinese che Puccini affiancherà
nel corso dell'opera alla presenza fascinosa
della principessa.
L'atmosfera del tramonto si trasforma un poco
alla volta e con il sorgere della luna tutto
viene ammantato da una tenue luce argentea.
La luna è sorta.
Turandot appare sul loggiato e un raggio di
luna la illumina, evidenziandone il tartareo
splendore. Intanto la folla ha smesso di incitare
il carnefice e di evocare il sorgere della
luna. Ora tutti chiedono la grazia del principe
di Persia, respinta con decisione dalla crudele
Turandot.
La musica accompagna la scena con toni lamentosi
e solenni allo stesso tempo e il coro che
chiama "principessa, principessa",
implorando la grazia, raggiunge toni di incredibile
fascino ed emotività.
Proprio nel momento in cui la luna illumina
Turandot, il principe Calaf la vede per la
prima volta e ne rimane subitaneamente affascinato.
Ormai anche lui è prigioniero del fascino
della principessa e deciso più che
mai a tentare la sorte.
Avanza verso il gong per lanciare la sua sfida,
ma molti cercano di dissuaderlo. Dapprima
tenta il padre, implorandolo di rimanere al
suo fianco dopo tanti anni di sofferta lontananza.
Tenta anche la piccola Liù, cercando
di convincerlo con il suo amore, rimasto segreto
per tanti anni.
Ma sono proprio i cancellieri della crudele
a cercare con più insistenza di fare
cambiare proposito al giovane. Iniziano con
la descrizione delle efferate violenze che
si compiono a palazzo ("Qui si strozza!
Si sgozza! Si trivella
"), per poi
passare a un poco convincente ridimensionamento
della bella principessa ("se la spogli
nuda, è carne, carne cruda
")
per concludere con le molteplici alternative
che la vita riserva a ognuno di loro.
Nulla serve a dissuadere il giovane Calaf,
nemmeno l'ultimo estremo tentativo della piccola
schiava Liù ("signore, ascolta")
che antipica la meravigliosa aria finale del
primo atto ("non piangere, Liù"),
prima che la musica esploda nell'ultima sequenza
in cui si intrecciano le emozioni di tutti
i personaggi, in un finale esplosivo e avvolgente,
nel quale il principe Calaf suona il gong
e dichiara apertamente di voler sfidare la
sorte, rischiando la propria vita con gli
enigmi di Turandot.
Atto secondo. Quadro primo. Dopo le emozioni
travolgenti di tutto il primo atto, questo
quadro primo che apre il secondo atto è
una sorta di intermezzo, atto a presentare
in modo accurato i tre ministri della principessa
e a immergere con maggior dovizia l'ascoltatore
nel fatato mondo pechinese, finora ancora
astratto e distante.
Ping, Pang e Pong si alternano in un terzetto
che li umanizza un poco alla volta. I tre
ministri stanno ripassando i protocolli sia
del rito funebre sia di quello nuziale, non
sapendo quale dovranno celebrare al sorgere
della nuova alba.
Mentre sono intenti nel loro lavoro si lasciano
andare ai ricordi del tempo passato, quando
ancora la crudeltà della gelida principessa
era da venire. E mentre divagano si estraniano
dalla realtà, immaginando la resa della
bella carnefice e la preparazione del rito
matrimoniale e della alcova per la prima notte
d'amore. Ma il tempo stringe e i tre riprendono
celermente i preparativi per il nuovo rito
degli enigmi.
Quadro secondo. La scena torna nel vivo e
il rito degli enigmi è ormai imminente.
La corte imperiale è pronta sui gradini
della reggia. Un coro solenne accompagna in
scena la bella principessa affiancata dall'esile
e stanco padre, l'imperatore Altoum.
Netta è la contrapposizione dei due
personaggi tenorili, quando il vecchio imperatore,
con voce debole e implorante, chiede al giovane
di rinunciare alla inutile prova ("basta
sangue, giovine và") e Calaf risponde
seccamente per tre volte consecutive, con
forza e vigore giovanile, di aver ormai preso
la decisione finale ("figlio del cielo,
io chiedo d'affrontar la prova").
Il rito ha finalmente inizio. La cantilena
iniziale ripete le regole della prova e tutti
attendono che sia la principessa a prendere
parola. La donna spiega le ragioni di quel
macabro rituale ("in questa reggia or
son mill'anni e mille") poi inizia a
proporre i tre enigmi.
Calaf risponde in modo corretto tutte e tre
le volte (speranza, sangue, Turandot, soluzioni
strettamente legate alla simbologia dell'opera)
e finalmente per la prima volta dopo tanti
anni la bella Turandot è sconfitta.
La principessa non accetta il risultato e
si rivolge al padre rivendicando la propria
sacralità e minacciando Calaf con tutto
il suo odio ("non sono tua!"). Le
sue suppliche sono vane poiché il padre
ribadisce che è il rito a essere sacro
e in quanto tale deve essere rispettato ("è
sacro il giuramento").
La possibilità di salvezza per la principessa
arriva proprio dalla generosità di
Calaf e dalle sue parole che ci accompagnano
verso la chiusura del secondo atto, anticipando
la celebre aria "nessun dorma" del
terzo: "il mio nome non sai, dimmi il
mio nome, dimmi il mio nome prima dell'alba
e all'alba morirò!"
Atto terzo. Quadro primo. Gli araldi diffondo
per tutta la città di Pechino il volere
della principessa. Nessun dorma in Pechino,
e ognuno si adoperi a scoprire il nome dello
straniero.
Il principe Calaf attende impaziente l'arrivo
della nuova alba e il momento in cui Turandot
sarà sua. È il momento della
classica aria tenorile pucciniana con uno
splendido "nessun dorma" di grande
impatto e slancio.
In molti si avvicinano al principe cercando
di convincerlo a pronunciare il suo nome,
ma il rifiuto di Calaf è sempre secco
e deciso. Irrompono quindi in scena un gruppo
di uomini che trascinano Timur e Liù,
credendo di poter strappare loro il nome dello
straniero.
Ancora una volta è la piccola Liù
a prendere il ruolo di protagonista. È
fermamente decisa a difendere il suo signore
e affronta con decisione la principessa, sopporta
le torture e infine si suicida come estremo
sacrificio d'amore.
Con la morte della piccola Liù termina
il lavoro del maestro Puccini. L'ultima parte
dell'opera è completata come già
accennato da Franco Alfano sulla base di appunti
lasciati dal compositore.
La folla si allontana e per la prima volta
Calaf e Turandot rimangono da soli. Calaf
è ancora convinto di poter conquistare
la bella principessa e con impeto si getta
verso di lei, baciandola.
Inizia così il crollo finale della
crudele principessa che scopre per la prima
volta emozioni tanto forti e incontrollabili.
Calaf comprende di aver finalmente sgelato
il freddo cuore della rivale e poco prima
dell'alba sussurra il proprio nome, consegnando
il proprio destino nelle mani di Turandot.
Quadro secondo. È la scena conclusiva,
in realtà molto breve. L'alba è
ormai giunta e la principessa conosce il nome
dello straniero. Accompagnata dal padre e
dai dignitari di corte Turandot si presenta
al popolo dichiarando di conoscere il nome
del principe ignoto. Tutti attendono la rivelazione
e tra lo stupore del popolo la principessa
dichiara a tutti il nome bramato: Amore.
Il dolore e la tragedia è finalmente
alle spalle e l'opera si chiude con un coro
di giubilo.
6. Microcosmo di coppia pucciniano
Nei capitoli precedenti di questo breve saggio
sulla Turandot e Puccini abbiamo più
volte accennato alle particolarità
che distinguono il compositore toscano dai
suoi altrettanto celebri colleghi.
Analizzando a fondo i lavori di Puccini possiamo
a questo punto approfondire un altro concetto
di non trascurabile importanza qualora si
cerchi di analizzare con puntuale efficacia
i personaggi che prendono vita dalle sue opere.
Molto spesso siamo abituati a ricercare una
tradizionale struttura sia nella trama che
nei personaggi di un'opera. Puccini rompe
anche questi consueti schemi che la tradizione
ci ha abituato a dare per scontati.
Naturalmente non è intenzione di questo
saggio generalizzare la struttura delle opere
in un semplice schema ripetuto nel tempo dai
vari compositori, ma si cerca solo di accentuare
in questa maniera quello che sotto molti aspetti
può essere definito "microcosmo
di coppia pucciniano", e per l'appunto
limitato alle opere di Giacomo Puccini.
Molto spesso le opere sviluppano la propria
trama ripartendo ruoli e emozioni su più
personaggi, ricorrendo spesso a un triangolo
di protagonisti che nella maggior parte delle
occasioni è rappresentato tenore, soprano
e baritono/basso o altro. Naturalmente questa
è una semplice generalizzazione poiché
sono molte le opere che non seguono questo
schema.
Molti, tra i meno esperti, sono soliti credere
che i ruoli del tenore e del soprano ricoprono
sempre le parti principali in un opera, ma
possiamo portare molti esempi a smentita di
questo ragionamento (Don Giovanni su tutte).
Comunque è facile ritrovare uno schema
tripartito di protagonisti dove almeno uno
dei personaggi è l'elemento di disturbo.
Per chiarire è possibile portare qualche
illustre esempio: La traviata (Violetta, soprano,
Alfredo, tenore, Père Germont, baritono),
L'elisir d'amore (Adina, soprano, Nemorino,
tenore, Belcore, basso), Adriana Lecouvreur
(Adriana, soprano, Maurizio, tenore, la principessa,
soprano).
È per l'appunto questo lo schema al
quale sfuggono gran parte delle opere pucciniane.
Anche quando è possibile individuare
un terzo elemento (il barone Scarpia nella
Tosca), quello che banalmente abbiamo chiamato
di disturbo, questi orbita solitamente intorno
alla coppia centrale, sulla quale Puccini
indirizza tutti i propri sforzi emotivi e
drammatici.
Celebre è addirittura il caso de La
Bohème nella quale tutto il mondo circostante
sembra ruotare intorno a una doppia coppia
di protagonisti, due fantastici microcosmi:
Rodolfo e Mimì, Marcello e Musetta.
Certo è che il ruolo della prima coppia
è nettamente preponderante, ma è
tramite questi personaggi che Puccini ci presenta
l'indisciplinato mondo della scapigliatura.
Il discorso è portato all'esasperazione
nella Madama Butterfly, opera nel quale questo
microcosmo di coppia addirittura si restringe
e a larghi tratti comprende solamente la protagonista
femminile, la giovane sventurata cio-cio-san,
tramite la quale conosciamo un mondo intero
fatto di amarezze e discriminazioni.
Nelle opere degli altri compositori il mondo
circostante e i protagonisti interagiscono
e insieme danno vita a un mondo intero. In
Puccini l'intero mondo è racchiuso
in pochi personaggi chiave, veicoli di emozioni
e ideologie. Personaggi caratterizzati a tinte
forti ai quali non è possibile rimanere
indifferenti, nel bene come nel male.
È grazie a questo microcosmo di coppia
che Puccini riesce a calamitare l'attenzione
dello spettatore, a strapparlo alla propria
realtà per gettarlo completamente in
quella di un Mario Cavaradossi o di una Floria
Tosca.
È grazie a tutto ciò che riusciamo
a calarci nei panni del giovane e temerario
principe Calaf, nel suo folle e illogico amore,
così testardo e apparentemente senza
logica. Dobbiamo astrarci dal mondo circostante
e fare nostre le emozioni dei personaggi,
così da accettarli e viverli allo stesso
tempo con la stessa forza che sprigionano.
Accettiamo così il sacrificio della
piccola Liù e sembra normale che la
principessa Turandot possa all'improvviso
amare lo spregiudicato Calaf.
Tutti insieme attendiamo così che arrivi
una nuova alba, per scoprire se è portatrice
di morte o d'amore. E ci sembra di sentire
ancora la voce squillante del principe che
ne invoca l'arrivo:
dilegua oh notte, tramontate stelle,
tramontate stelle
e all'alba vincerò,
vincerò, vincerò!
7. Turandot e Tosca a confronto
Dopo aver compreso l'importanza del personaggio
nell'Opera pucciniana, soprattutto di quello
femminile, credo sia possibile approfondire
a fondo il personaggio della gelida principessa
mettendolo a confronto con un altro celebre
soprano pucciniano: Floria Tosca.
Ciò che pare più evidente è
l'atteggiamento che i due personaggi assumono
nei riguardi dell'amore.
Turandot, gelida e distaccata, lo teme e cerca
di evitare ogni coinvolgimento sentimentale,
rendendo sacra la sua stessa situazione di
gelida vendicatrice.
Tosca, rubando parole al principe Calaf, è
ardente d'amore, gelosa del suo uomo e pronta
a difenderlo nel momento del bisogno.
E proprio queste posizioni così distanti
porteranno a finali dall'esito contrastante,
in un intreccio di destini che in qualche
maniera disattende le prime aspettative dello
spettatore.
Calaf riuscirà a sconfiggere la bella
principessa che alla fine si lascerà
andare ai così temuti sentimenti amorosi;
la dolce Tosca non sarà in grado di
salvare il suo Mario Cavaradossi e troverà
lei stessa la morte in un crescendo di tragicità
e dolore.
E' diversa anche la presenza delle due protagoniste
all'interno dell'opera.
Tosca è protagonista già dopo
pochi minuti del primo atto e sono celebri
i suoi duetti con il pittore Mario Cavaradossi.
Impariamo subito ad amare questa gioiosa cantante
lirica (il personaggio Tosca è anche
lei soprano) e ci commoviamo scoprendo la
gelosia che la lega all'uomo della sua vita.
Immaginiamo i suoi occhi neri (celebrati in
una splendida aria) e li scopriamo pieni di
vita, intensi e innamorati. Tosca è
presente in modo uniforme in tutti e tre gli
atti dell'opera e in qualche modo è
il personaggio che ci accompagna in maniera
più uniforme fino alla conclusione.
Turandot nel corso della vicenda ha una crescita
graduale. Compare solo a primo atto avanzato
e addirittura non pronuncia una sola parola
prima del secondo atto, calamitando l'attenzione
col solo fascino della sua presenza. Con la
sua sfacciata sacralità vive la storia
da sopra un piedistallo e rimane distaccata
dagli altri personaggi. Nella Turandot è
come se ci fossero due storie separate, quella
della principessa (ma di questo parleremo
in seguito) e quella di tutti gli altri personaggi
che, più umani e più vicini
al nostro modo di intendere e vivere la vita,
muovono i loro passi, quasi fossero una sorta
di scenografia mobile, ruotando intorno alla
irreale figura femminile della protagonista.
Due personaggi così dissimili, Tosca
e Turandot, ma allo stesso tempo così
affascinanti. In modi diversi riescono a raggiungere
lo spettatore coinvolgendolo più di
quanto ci si attenderebbe da una finzione
teatrale.
Se ci riferiamo a Floria Tosca può
sembrare normale. È un personaggio
meno fiabesco e più confrontabile al
nostro mondo (ricordo che la storia è
ambientata a Roma nell'anno 1800). Lo spettatore
può facilmente fare propri i sentimenti
della bella soprano.
Meno ovvio è che la stessa cosa avvenga
con un personaggio anomalo come la gelida
principessa della Turandot. Innanzitutto per
l'ambientazione esotica e astrattamente reale.
In secondo luogo per il carattere ostile e
gelido della protagonista, il quale dovrebbe
favorire l'allontanamento di ogni buon sentimento.
Avviene invece il contrario. Ognuno si aspetta
che il principe Calaf riesca a risolvere gli
enigmi, non tanto per la posta in gioco, che
è la vita, ma soprattutto per l'affascinante
difficoltà di un amore improbabile,
del quale però non si riesce a dubitare
neanche dopo la morte della piccola Liù
tra atroci sofferenze.
Tutti aspettano di veder capitolare Turandot.
Tutti attendono quell'amore che con tanto
accanimento vuole tenere lontano da sé.
Alla fine dell'opera rimane un senso di stordimento
e sembra strano poterlo affermare, ma la morte
della piccola schiava sembra lontana e poco
importante. Turandot e Calaf, con il loro
ardente amore, sono il centro del mondo. Tutto
il resto ruota intorno.
Sembra appunto un'altra delle anomalie alle
quali il nostro Puccini ci ha abituato. Il
più volte citato microcosmo di coppia
si completa solamente negli ultimi minuti
dopo aver oscillato più volte tra un
particolarissimo terzetto di personaggi: Calaf,
Liù e Turandot.
Tosca e Turandot ci appaiono quanto mai personaggi
dissimili e protagonisti di due ere/mondi
diversi, del tutto inavvicinabili. La maestria
di Puccini è quella di trasportarci
ogni volta in mondi diversi (ricordiamo ancora
una volta Madama Butterfly e La fanciulla
del West) e darci emozioni proprie delle più
disparate realtà, sia nella Roma del
diciannovesimo secolo che in una immaginaria
e fiabesca Pechino.
Ogni volta un viaggio nel tempo e nello spazio,
sempre meravigliosamente vivo e, nei limiti
della finzione scenica, reale.
8. La piccola Liù, fulcro dell'Opera
Dopo tanto parlare siamo finalmente giunti
al personaggio chiave di tutta l'opera, non
a caso il più caro allo stesso Giacomo
Puccini.
Fino a questo momento abbiamo presentato il
fantastico mondo della Pechino pucciniana
in modo che apparisse evidente il carattere
fiabesco dell'opera, a partire dalle origini
teatrali del Gozzi, fino al carattere stereotipato
dei personaggi, così incentrati su
pochi sentimenti, soprattutto amore e odio,
ma così incredibilmente focosi e vivi.
Tutto questo caratterizzare in modo così
netto non avrebbe lo stesso risultato drammatico
se a riequilibrare il tutto non intervenisse
un personaggio più "umano"
quale la piccola Liù.
Insieme al padre di Calaf, Timur, e all'imperatore,
Altoum, i quali ricoprono un ruolo nettamente
secondario, è l'unica che cerca di
portare razionalità e buon senso laddove
sembra ci sia solo follia rabbiosa.
Se ci fermiamo a riflettere sul personaggio
del principe ignoto ci renderemo subito conto
di quanto sia improbabile un amore come il
suo, nato all'istante e già pronto
a sacrificarsi nella morte. La storia ci coinvolge
e la finzione, della quale siamo sempre consapevoli
nonostante la completa immersione nell'opera,
stempera i nostri dubbi. Il sacrificio al
quale si presta Calaf sembra la normale conseguenza
del suo amore.
Altrettanto possiamo dire della principessa
di morte, la crudele Turandot, così
immersa nel suo ruolo di atroce mietitrice
che fa apparire improbabile e remota la possibilità
di un lieto fine.
In mezzo a questi eccessi spicca la dolcezza
passionale e l'umanità di una schiava,
di nascita e d'amore, legata a un gesto semplice
e spontaneo: un sorriso.
È Liù che lega i due protagonisti
di questa inverosimile storia d'amore, dapprima
cercando di salvare la vita del proprio padrone,
poi trovando le parole giuste per fronteggiare
colei che tutti temevano, in una commovente
e lacrimevole spiegazione sul significato
dell'amore.
Non è un caso che in passato molti
dei più grandi soprano abbiano deciso
di interpretare Liù anziché
Turandot. Un personaggio di sicuro più
coinvolgente e umano che permette anche una
vasta possibilità di sfumature e che
non lascia impassibile lo spettatore. Un personaggio
di colore, da primadonna.
Ma a parte la particolarità del personaggio
in quanto veicolo d'emozioni, il personaggio
di Liù è, insieme a Calaf e
in parte ai tre ministri, il personaggio che
teatralmente ha la parte più sviluppata,
in contrapposizione alla staticità
della principessa che in qualche maniera vuole
rappresentare anche la staticità di
sentimenti.
Un personaggio completo che reclama quindi
un ruolo di assoluto protagonista. Senza la
piccola Liù non sarebbe esistita l'affascinante
atmosfera dell'altrimenti fatiscente Pechino
e il lavoro di Puccini non avrebbe trovato
quegli sbocchi drammatici che la caratterizzano
così intensamente.
Più volte vediamo il principe Calaf
esporre il suo lato più umano proprio
in contrapposizione al sincero e disinteressato
amore della schiava. Nel primo atto quando
con tenera passione chiede alla donna di rimanere
al fianco del vecchio padre, solo sulla strada
dell'esilio, e nel momento drammatico della
morte di lei, allorché per la prima
volta il principe inveisce contro gli artefici
di quelle sofferenze, minacciando atroce vendetta.
La stessa Turandot rimane colpita dal modo
in cui la donna affronta le sofferenze imposte
dall'amore e per la prima volta emerge il
dubbio in una donna che mai aveva saputo guardare
dentro di sé. In punto di morte è
Liù che assesta il primo colpo alle
certezze della principessa, facendola vacillare.
Liù quindi può a tutti gli effetti
essere definita il fulcro della Turandot,
la forza motrice dell'intera opera.
Possiamo comprendere allora perché
lo stesso compositore avesse un debole per
questo meraviglioso personaggio. Puccini ha
caratterizzato sempre personaggi dalle tinte
molto forti, passionali e coinvolgenti. La
piccola Liù è forse il personaggio
che risalta maggiormente, sia per le proprie
qualità intrinseche, sia per il mondo
nel quale è proiettato che ne favorisce
e amplifica lo splendore.
Liù quindi, nonostante l'aggettivo
con il quale la si apostrofa, non è
piccola, ma superbamente grande. Un personaggio
immenso.
9. L'atmosfera della Turandot
Abbiamo già discusso abbondantemente
dei personaggi e dell'ambientazione della
Turandot, ma se è vero che la storia
avviene in una fiabesca Pechino, è
anche vero che si deve respirare una reale
atmosfera orientale in modo da poter aprire
il nostro animo a una non meglio precisata
realtà esotica.
Come abbiamo già avuto modo di anticipare
nei primi capitoli Puccini riesce a rielaborare
alcune melodie tipiche dell'oriente e a farle
parte integrante della sua opera. Ma se a
volte è facile individuare queste melodie
altre volte dobbiamo accontentarci di assorbire
l'esotismo attraverso gli espedienti musicali
proposti dall'autore, capace di creare con
la musica atmosfere così particolari
da sembrare veramente appartenenti a un'altra
cultura.
Una volta che Puccini ci ha accompagnato dentro
questa particolare realtà esotica rimane
difficile alienarsi da tale mondo e avvertirne
la lontananza.
Ogni opera di Giacomo Puccini è frutto
di una continuità melodica che cattura
l'ascoltatore dalla prima nota e lo lascia
solo al termine dell'atto, concedendo un breve
momento di distacco. Una vibrazione continua
capace di ipnotizzare chiunque sia all'ascolto,
immergendolo a fondo nel mondo creato per
lui.
Le varie melodie si susseguono senza soluzione
di continuità in un alternarsi fluido
di alti e bassi, ma senza sciogliere, neppure
nei momenti di minore intensità strumentale,
il legame particolare creato con lo spettatore.
Non ci sono chiuse nette, come già
anticipato quando parlavamo di Verdi, e una
volta trovato il registro adeguato il maestro
riesce tenere in vita l'effetto creato, concedendosi
una chiusa a effetto solo nel finale.
Ma la componente musicale da sola non può
supportare un intero impianto intento a ricreare
un esotismo così ben marcato, non in
un'opera lirica, almeno.
È a questo punto che intervengono personaggi
chiave che danno spessore sia alla narrazione
che colore all'ambientazione. I personaggi
chiave di questo effetto orientale sono perlopiù
i tre ministri: Ping, Pang e Pong.
Già abbiamo detto di come possano risultare
strani i nomi di questi tre personaggi e abbiamo
sottolineato il fatto che sostituiscono personaggi
tipici della cultura italiana quali Tartaglia,
Pantalone, Truffaldino e Brighella. Nella
trasposizione in opera lirica il loro numero
è ridotto a tre e i nomi scelti servono
a garantire quel carattere orientale che poteva
dare una maggiore resa esotica.
Inoltre ai tre ministri viene associata la
maggior parte delle melodie originali cinesi
in modo che l'effetto non sia conseguenza
solo del loro nome.
Durante il primo atto appare poco evidente
questa caratterizzazione musicale, ma all'apertura
del secondo atto ci rendiamo conto che Puccini
ci sta un poco alla volta immergendo in quel
fantastico mondo immaginario.
I tre ministri descrivono la loro vita con
nostalgiche melodie e si abbandonano ai ricordi
di un'esistenza più felice. Forse per
la prima volta ci rendiamo conto dell'ambientazione
orientale. Infatti nel primo atto le emozioni
si susseguono a tale ritmo e con tale intensità
che l'ascoltatore viene trascinato inconsapevole
verso l'esplosivo finale. È solo con
il secondo atto, prima che il rito inizi,
che abbiamo qualche minuto per allentare la
tensione e riflettere.
Nella Turandot ogni personaggio gioca un ruolo
ben preciso e nulla è lasciato al caso.
In questo modo quelli che nel primo atto sembravano
i ministri della morte ora ci appaiono sotto
una luce diversa, più morbida e umana.
Insieme alla piccola Liù riescono a
creare intorno ai due personaggi principali
una specie di morbido cuscinetto e ammortizzano
i duri contrasti emotivi dei due protagonisti.
Non raggiungono il coinvolgimento né
lo spessore emotivo della schiava Liù,
ma senza il loro intervento l'atmosfera dell'intera
opera risulterebbe più opaca e meno
efficace.
In una storia ambientata in un mondo fiabesco
è importante che l'ascoltatore possa
percepire in modo evidente la lontananza e
il distacco dal proprio mondo. Solo così
è possibile accettare tutte le incongruenze
che inevitabilmente si presentano (come già
accennato, per esempio, riguardo al carattere
stereotipato di Calaf e la principessa) e
allo stesso tempo sentirsi partecipi delle
vicende.
I tre ministri, quindi, oltre a svolgere un
importante ruolo di collegamento tra le varie
parti, come la stessa Liù, danno un
significativo colore esotico all'ambientazione,
ricoprendo un ruolo indispensabile per l'intera
struttura dell'opera.
10. La trasformazione della principessa
Turandot
Più volte parlando dell'ultima opera
di Puccini abbiamo sottolineato il fatto che
sotto certi aspetti le anomalie e le rotture
con la tradizione precedente sono innumerevoli.
In questo capitolo affronteremo un aspetto
che in modo del tutto particolare mette in
evidenza un altro aspetto molto singolare
della Turandot.
Abbiamo accennato in precedenza alla trasformazione
della gelida principessa, e l'abbiamo messa
in relazione prima alla piccola Liù,
poi ne abbiamo sottolineato la particolare
singolarità quando abbiamo accennato
alla forte caratterizzazione del personaggio,
così statico, rigidamente sacrale,
eppure così repentino nel suo cambiamento
finale.
Ebbene, i mutamenti emotivi che coinvolgono
la bella principessa possono in qualche modo
essere estrapolati dal contesto e messi in
evidenza come una trama nella trama.
In effetti, l'evento più marcato che
caratterizza l'intera opera è proprio
lo sgelamento cui è soggetta la principessa.
Se volessimo concentrare la nostra attenzione
solo su di lei potremmo osservare un processo
che dall'inizio del secondo atto (momento
in cui entra realmente in scena Turandot)
fino al termine del terzo atto porta a una
totale e graduale (seppur con qualche sbalzo)
trasformazione del personaggio.
Il personaggio da cui è tratta la principessa,
e qui ci riferiamo sempre all'originale di
Carlo Gozzi, non era ammantato della tragicità
della Turandot pucciniana. Per rendere efficace
il personaggio Puccini ha dovuto compiere
un lungo lavoro di caratterizzazione. Nel
finale dell'opera in parte ha volto lo stesso
processo, però seguendo la via contraria,
in modo da restituire alla principessa parte
di quell'umanità che aveva sottratto.
Ma per raggiungere l'obiettivo prefissato
il compositore non ha lavorato solo sul personaggio.
La trasformazione non sarebbe stata così
evidente ed efficace se non fosse stata supportata
da alcuni elementi significativi sin dall'inizio
dell'opera.
Il processo che porta alla progressiva umanizzazione
della protagonista è reso evidente
da una serie di contrapposizioni che appaiono
in modo chiaro sin dall'inizio: tramonto e
alba, luna e sole, amore e odio, crudeltà
e asservimento. Ma questi opposti si potrebbero
contare all'infinito in un'opera come la Turandot:
vita e morte, vittoria e sconfitta, freddo
e caldo. Tutti questi elementi rendono evidente
il contrasto che dilania la stessa Turandot,
la quale, alla nuova alba, illuminata dalla
luce del sole, si scopre umana e ardente d'amore.
Turandot quindi potrebbe essere elevata a
trama stessa dell'opera, e in effetti tutto
ruota intorno alla sua figura, così
statica fisicamente, ma fluida e controversa
nell'intimo. Puccini riesce a condurci oltre
l'aspetto formale di un personaggio idealizzato
e senza banalizzare ci rende partecipi delle
sue più intime controversie.
Un lavoro più complesso di quello che
può sembrare a un primo ascolto, la
Turandot. Un'opera che nasce da una fiaba
e che sa portare in alto con efficacia le
emozioni più forti e instabili dell'uomo,
in una sequenza ininterrotta di trasformazioni
e un alternarsi continuo di odio e amore,
paura e gioia.
11. Arie celebri
Fino a ora abbiamo analizzato l'opera nel
suo complesso, soffermandoci perlopiù
all'analisi dei personaggi e agli espedienti
di Puccini per creare l'atmosfera generale.
Ma i momenti che rimangono impressi nella
memoria generale sono quelli delle grandi
arie cantate dai protagonisti principali.
Come abbiamo già avuto modo di dire
in Puccini non troviamo le cosiddette cavatine,
momenti in cui un personaggio, isolato dal
contesto generale si esibiva nel proprio pezzo,
ma questi momenti particolarmente melodici
sono inseriti in modo organico nel contesto
generale dell'opera.
Le arie principali, quelle più famose
per l'appunto, sono generalmente interpretate
dai protagonisti della storia (non a caso
molte della arie sono per tenore e soprano)
e a volte può essere significativo
fare un'analisi di questo dato per renderci
effettivamente conto della particolare importanza
data dal compositore al ruolo stesso.
Senza soffermaci ancora a citare Puccini,
è possibile menzionare numerose e famosissime
arie dei più significativi personaggi
dell'opera: "Di quella pira" (Trovatore,
Verdi), "Casta diva" (Norma, Bellini),
"La donna è mobile" (Rigoletto,
Verdi), "Una furtiva lagrima" (L'elisir
d'amore, Donizetti).
Anche nella Turandot troviamo arie di altissimo
livello (forse il "nessun dorma"
è l'aria più famosa a livello
mondiale) e a sottolineare il discorso fin
qui portato avanti è interessante notare
che i personaggi coinvolti sono sempre gli
stessi: Liù, Calaf, Turandot.
La prima aria importante che troviamo è
proprio per la voce della piccola Liù,
questo a evidenziare ancora una volta il ruolo
di particolare importanza ricoperto dalla
giovane schiava. Calaf ha deciso di affrontare
gli enigmi della principessa. Nessuno riesce
a dissuaderlo. Ci prova ancora una vola Liù
con una commovente preghiera:
Signore, ascolta! Ah, signore, ascolta!
Liù non regge più, si spezza
il cuor!
Ahimè, quanto cammino col tuo nome
nell'anima,
col nome tuo sulle labbra!
Ma se il tuo destino doman sarà deciso,
noi morrem sulla strada dell'esilio.
Ei perderà suo figlio, io l'ombra d'un
sorriso.
Liù non regge più! Ah!
Una preghiera dolce e malinconica, ancora
in ricordo di quel sorriso del suo signore,
lontano nel tempo. Ma Calaf è ormai
deciso e cerca di alleviare il dolore della
giovane, chiedendole di rimanere a fianco
del padre, che dopo la sua morte non avrà
più nessuno al mondo:
Non piangere, Liù!
Se in un lontano giorno io t'ho sorriso,
per quel sorriso, dolce mia fanciulla, m'ascolta:
il tuo signore sarà domani, forse solo
al mondo
Non lo lasciare, portalo via con te!
[
]
Dell'esilio addolcisci a lui le strade!
Questo, o mia povera Liù,
al tuo piccolo cuore che non cade,
chiede colui che non sorride più!
E il primo atto termina con un intreccio
di emozioni cantate a più voci da tutti
i personaggi entrati in scena. Un finale maestoso
e memorabile quanto un'aria famosa, con gli
spettatori senza fiato e travolti dalla potenza
emotiva della musica.
Il secondo atto si apre, come precedentemente
detto, con il terzetto dei tre ministri, ma
il momento cruciale inizia quando entra in
scena l'imperatore, con lo splendido coro
di giubilo d'accompagno e successivamente
quando prende la parola Turandot. Con il modo
che la caratterizza la principessa inizia
in modo freddo, ma un poco alla volta le splendide
melodie del suo canto ipnotizzano e la fredda
staticità della gelida conquista anche
lo spettatore:
In questa reggia, or son mill'anni e mille,
un grido disperato risonò.
E quel grido, traverso stirpe e stirpe
qui nell'anima mia si rifugiò!
Principessa Lou-Ling, ava dolce e serena
che regnavi nel tuo cupo silenzio
in gioia pura, e sfidasti inflessibile e sicura
l'aspro dominio, oggi rivivi in me!
[
]
Pure nel tempo che ciascun ricorda,
fu sgomento e terrore e rombo d'armi.
Il regno vinto! E Lou-Ling,
la mia ava, trascinata da un uomo come te,
come te straniero, là nella notte atroce
dove si spense la sua fresca voce!
[
]
O Principi, che a lunghe carovane
d'ogni parte del mondo qui venite
a gettar la vostra sorte,
io vendico su voi, su voi quella purezza,
quel grido e quella morte!
Mai nessun m'avrà!
L'orror di che l'uccise vivo nel cuor mi sta!
No, no! Mai nessun m'avrà!
Ah, rinasce in me l'orgoglio di tanta purità!
Straniero! Non tentar la fortuna!
Gli enigmi sono tre, la morte è una!
In un crescendo senza fine la principessa
arriva al termine della sua storia e alla
sua voce sia affianca il calore esuberante
di Calaf:
Gli enigmi sono tre, una è la vita!
I due uniscono le voci e si raggiunge la
meraviglia quando insieme ripetono l'ultimo
verso, l'una sottolineando l'aspetto macabro,
l'altro l'ottimismo.
Gli indovinelli della principessa chiudono
in parte il secondo atto. Turandot è
sconfitta dall'ignoto straniero ma non si
rassegna. Puccini anticipa a questo punto
la sua più celebre aria e lo fa sempre
tramite Calaf:
Tre enigmi m'hai proposto, e tre ne sciolsi.
Uno soltanto a te ne proporrò:
Il mio nome non sai. Dimmi il mio nome.
Dimmi il mio nome prima dell'alba, e all'alba
morirò
Trionfalmente arriviamo al terzo atto dell'opera.
Il momento della trasformazione della principessa
è vicino, ma per il momento è
ancora intenzionata a scagliare contro il
principe ignoto la propria ira. Vuole conoscere
il nome dello straniero e ha ordinato che
"nessun dorma in Pechino". Tutti
devono impegnarsi per scoprire quel nome.
Calaf osserva tutto con fare distaccato, sicuro
della propria vittoria:
Nessun dorma! Nessun dorma!
Tu pure, o Principessa,
nella tua fredda stanza guardi le stelle
che tremano d'amore e di speranza...
Ma il mio mistero è chiuso in me,
il nome mio nessun saprà!
No, no, sulla tua bocca lo dirò,
quando la luce splenderà
Ed il mio bacio scioglierà
il silenzio che ti fa mia.
[
]
Dilegua, o notte! Tramontate, stelle!
All'alba vincerò! Vincerò!
E così si procede verso la fine. C'è
ancora tempo per intensi duetti e momenti
di alta tensione drammatica. Lo spettatore
soffrirà per la morte della piccola
Liù ("Tu che di gel sei cinta,
da tanta fiamma vinta, l'amerai anche tu!")
e patirà nei momenti finali vedendo
crollare la bella principessa, in un susseguirsi
di duetti e leitmotiv ricorrenti, fino al
finale gioioso, pure questo anomalo e fonte
di tante discussioni.
12. Un finale anomalo
Puccini non terminò mai la sua opera.
A chi si interessava alle sue precarie condizioni
di salute diceva di non preoccuparsi: il suo
destino era legato a quello della piccola
Liù.
E con la morte della piccola Liù anche
il maestro morì. Il lungo lavoro svolto
attorno ai personaggi, soprattutto riguardo
alla protagonista, avevano esaurito le ultime
energie del compositore, il quale non aveva
trovato ancora lo spunto definitivo per le
ultime scene, quelle cruciali della trasformazione.
Lasciò molti appunti e una traccia
melodica sulla quale lavorò il maestro
Franco Alfano, completando con molta coerenza
il lavoro iniziato dal grande Puccini.
Rimangono molti dubbi legati al finale anomalo
dell'opera. Non solo dal punto di vista strumentale
e melodico, ma anche riguardo al finale stesso,
così insolitamente a lieto fine. Puccini
lavorando alla Turandot si allontanò
molto dal suo filone tradizionale, realistico
e passionale, quindi un finale diverso potrebbe
essere la conseguenza di approccio particolare.
Rimangono però molti dubbi, che non
siamo in grado di sciogliere in questa sede.
Molti non apprezzarono il lavoro svolto da
Alfano e lo stesso Arturo Toscanini, nel 1926
in occasione della "prima", interruppe
l'esecuzione alla morte della piccola Liù.
Mi sono permesso quindi di rubare un verso
alla Traviata di Verdi definendo la Turandot
"croce e delizia" dell'Opera italiana.
Per molti aspetti quest'opera segna un punto
di arrivo dell'intera tradizione operistica
italiana. Dopo Puccini non ci saranno più
compositori in grado di portare avanti in
modo appropriato la tradizione italiana. Quello
che verrà dopo (a livello internazionale)
risentirà dell'influenza di un'opera
che, seppur ritenuta da molti incompleta,
ha fatto la storia della musica lirica mondiale.
Un punto di arrivo, quindi, ma anche un punto
di partenza.
Un'opera contraddittoria, che con tutte le
sue particolarità riesce sempre a calamitare
attenzione. Ma, soprattutto, riesce sempre
a dare emozioni forti, a prescindere dal finale,
che non rovina affatto l'intero impianto.
Molti hanno disprezzato il lavoro di Alfano,
ma molti altri, tra cui il sottoscritto, ammirano
il coraggio del giovane compositore, in grado
di prendere tra le mani il più grande
capolavoro della lirica novecentesca e consegnarlo
alla storia.
Un ruolo difficile il suo, che lo ha relegato
a compositore di secondo livello, conosciuto
perlopiù per il suo lavoro sulla Turandot
di Puccini che per i proprio lavori.
Franco Alfano visse, ed è relegato
tuttora, all'ombra della Turandot, così
come la piccola Liù visse all'ombra
di un sorriso.
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