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Due articoli su Pasolini (1922-1975) "Il Ferrobedò" oggi: Monteverde senza Pasolini (2)
di Carlo Santulli
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Pier Paolo Pasolini trascorse quasi tutta la sua vita adulta a Roma, più precisamente abitandovi dal 1950 al 1970 circa. Questa lunga permanenza nella Capitale può essere a sua volta suddivisa. Dopo un breve e molto difficile periodo al Portico d'Ottavia, presso l'antico ghetto ebraico dal gennaio 1950, c'è il periodo della Borgata Rebibbia, a via Giovanni Tagliere (1951-53), c'è poi il periodo di Monteverde (due case, a via Fonteiana dal 1953 al 1959, poi a via Carini dal 1959 al 1964), e c'è infine il periodo dell'EUR, a via Eufrate, dal 1964 al 1970. Negli ultimi anni Pasolini si trasferì dalle parti di Viterbo, in una torre medievale che aveva acquistato.
Il dato della residenza non sarebbe particolarmente significativo, come per tanti scrittori non lo è, se il rapporto di Pasolini con Roma non si fosse significativamente evoluto nel tempo. Se il periodo di Rebibbia è quello della conoscenza della città, della gente e del dialetto, quello di via Fonteiana rappresenta la presa di coscienza dell'espressività e dell'interesse letterario del vissuto, mentre da via Carini in poi si assiste ad una sublimazione di quello stesso vissuto, non come fuga o distanziamento, ma piuttosto come ricomposizione del suo tessuto mitico ed ancestrale. E' necessariamente uno schematismo, ma penso non tradisca più di tanto la realtà del pensiero e dell'opera di Pasolini.
In quest'articolo mi concentro sul periodo di via Fonteiana, a mezza via sulla discesa che porta da villa Doria Pamphili alla pianura, detta dei Prati del Papa, che si affacciava sul Tevere quasi di fronte alla Basilica di San Paolo, pianura oggi densamente urbanizzata e nella quale sarebbe difficile ripercorrere gli itinerari pasoliniani senza storicizzarli, e sul testo del primo capitolo dei "Ragazzi di vita", intitolato "Il Ferrobedò".
Sarà forse utile un po' di geografia locale: Monteverde, così detto per le cave di pietra verde da costruzione, utilizzate già in epoca romana, è alto fino ad 80 metri circa, la sua cima corrisponde con Piazza San Giovanni di Dio, che è spesso menzionata nei “Ragazzi di vita” come la “girata del tranve”, cioè dove il tram faceva (all'epoca) capolinea e girava su un anello (o carosello) per tornare in città. Monteverde domina Trastevere, e si trova alle pendici del Gianicolo, costituendo il più meridionale di quella breve catena di colli che attornia la sponda destra del Tevere e che termina a Monte Mario.
Intorno alla fine dell'800, Monteverde iniziò ad essere interessata allo sviluppo edilizio. Fino ad allora, oltre alle cave di pietra, era stata zona di vigne, tra cui ben nota all'epoca la vigna San Carlo, sul cui terreno oggi sorge l'ospedale Forlanini, e di ville signorili, come villa Sciarra e villa Doria Pamphili, che, bontà loro, esistono ancora, anche se la prima, di cui parla tra l'altro D'Annunzio ne "Il piacere", leggermente mutilata verso est dalle ultime costruzioni collinari di Trastevere, e la seconda tagliata dalla via Olimpica nel 1960. Come spesso accade a Roma, il che ha dato origine ad una vasta letteratura specializzata, la zona inizialmente interessata allo sviluppo fu quella più lontana dalla città, confinante appunto con villa Pamphili. Zona che era in alto, quindi si prestava alla costruzione di villini eleganti, specie considerando che più in basso c'erano cave, fabbriche ed impianti ferroviari, che la separavano dalla città, in pratica da Trastevere. La visione dei villini di Monteverde, separati e chiaramente identificabili dalla città, non si era persa fino alla fine degli anni '50 ("Monteverde calcinante", come la descriveva Pasolini). Centro del quartiere fu inizialmente, fin verso la fine degli anni '20, via Carini.
Come dicevo, dal 1953 al 1959 Pasolini visse a via Fonteiana, molto vicina alle case popolari costruite durante il fascismo su via Donna Olimpia, i cosiddetti "grattacieli".
Oggi a Donna Olimpia si arriva dal cosiddetto Ponte Bianco, realizzato nel 1931, secondo il gusto dell'epoca facendo gran sfoggio di piccoli obelischi di travertino e di leoni (e, ehm, fasci littori, oggi scalpellati). Notare che uno dei leoni è oggi nascosto dal chiosco di un fioraio. Ponte Bianco serviva ad eliminare un passaggio a livello e facilitare l'accesso all'ospedale del Littorio, oggi San Camillo, venendo da Trastevere. In realtà all'epoca di Pasolini i grattacieli si trovavano al fondo di una valle tra Monteverde Vecchio e Monteverde Nuovo e la strada da Ponte Bianco era una specie di sentiero, mentre via Donna Olimpia scendeva verso i grattacieli e si fermava poco oltre, presso la scuola Franceschi, una costruzione del 1939, quella stessa scuola che, proprio di fronte ai grattacieli, piena di sfollati della guerra, crollò in parte nel 1951, cosa che Pasolini ugualmente racconta. La scuola Franceschi esiste ancora, è piuttosto imponente, con ampio portico a pilastri, tipico dell'architettura civile dell'epoca ed è una delle non molte scuole elementari ad essere state descritte in letteratura.
I grattacieli furono costruiti per alloggiare la popolazione spostata di forza da due nuclei urbani demoliti: alcune case medievali nella parte di Trastevere più addossata al fiume, e la cosiddetta "spina di Borgo", la cui demolizione portò nel dopoguerra a sistemare quella via della Conciliazione, che rende visibile piazza San Pietro dal fiume. Anche quando, dopo la guerra, via di Donna Olimpia fu completata fino a Ponte Bianco, i Grattacieli non godevano di buona fama, non saprei dire quanto meritata. Qualche vecchio monteverdino vi dirà anche che i tassì ci si avventuravano malvolentieri, al punto di lasciare a Ponte Bianco l'occasionale viaggiatore che chiedesse un indirizzo su via di Donna Olimpia, cosa piuttosto scomoda, perché la salita è abbastanza ripida nella parte finale, specie con bagaglio.
Salendo da Ponte Bianco, in una specie di conca, si trovava una fabbrica di binari, la Ferrobeton (in Pasolini Ferrobedò). La Ferrobeton, una parte della quale in basso era nota come Bagno Traverse (dove le traversine venivano impregnate col catrame), esisteva dai primi del '900, ed era raccordata alla stazione di Trastevere attraverso un binario che attraversava in obliquo l'attuale piazzale Dunant, dove c'era anche un ponte (di ferro e senza leoni) oggi sparito. La zona un tempo occupata dalla Ferrobeton è ancora oggi piuttosto evidente, benché della fabbrica non vi siano più tracce, perché molto densamente costruita. Infatti le zone ex-industriali consentivano, dato che venivano considerate già “compromesse”, di costruire al limite di quanto permesso dal Piano Regolatore, e di qui strade di dieci o dodici metri totali, con marciapiedi di un metro e mezzo per lato. Lo spazio libero in ogni lotto è costituito dalla sola rampa del garage, per le palazzine di quattro-cinque piani, e tre metri di giardinetto con rete protettiva e muretto con lastroni di travertino su tutto il perimetro per i palazzoni di otto piani. Come osserva Italo Insolera in "Roma Moderna (Einaudi, 1993), p.202: "In dieci anni tutta la zona tra il vecchio e il nuovo Monteverde è stata riempita di palazzine che sfruttando come al solito i dislivelli del terreno riescono a superare notevolmente il numero dei piani regolamentari".
Questo è vero per la zona ex-Ferrobeton, ed anche per la zona, più a Sud, dove sorgeva la Purfina, detta anche Raffineria di Roma, che fu in opera per un quindicennio, dal 1951 al 1965, e dunque pienamente funzionante nel periodo dei “Ragazzi di vita”. Tra l'altro, alla Purfina, ed in parte in alcuni baraccamenti della Portuense, ora scomparsi, e sull'argine del Tevere, è ambientato un bel film neorealista di Carlo Lizzani "Ai margini della metropoli" (1952), un film con risvolti gialli, che si avvale dell'interpretazione (formidabile, come spesso accadeva) di Giulietta Masina. Nel film si vedono con chiarezza i cantieri della zona dei Quattro Venti, citati anche da Pasolini (vedi in seguito).
La Purfina viene chiamata Permolio nel romanzo pasoliniano, ed anch'essa, una volta dismessa, divenne facile preda dei costruttori, con cubature abbastanza soffocanti. E' la cosiddetta “isola”, che si estende in un'ampia zona del Portuense: a differenza della Ferrobeton, ne rimane traccia in un'estensione di terreno nota come "pozzo di San Pantaleo" e tagliata in due dal viadotto di via Quirino Majorana, ultimato nel 1971. Vi si trovarono, una volta sparita la Purfina, un tratto di basolato con basamento (crepidine), lungo circa 60 metri, identificato con l'antica Via Campana, un edificio funerario con inumazioni a fossa, un edificio termale con figure a mosaico in bianco e nero ed i resti di una probabile stazione di sosta. Insieme con altri ritrovamenti in zona vicina, si può far risalire i manufatti ad un periodo che va dalla seconda metà del I secolo al IV secolo d.C. La parte di questo pratone a destra di via Quirino Maiorana scendendo da Monteverde, confinante con la ferrovia dell'aeroporto, è, se possibile, ancora più abbandonata, ed a tutt'oggi di proprietà dell'ENI. Leggevo recentemente però che quest'ultima zona della ex-Purfina verrà, a partire dal 2007, sistemata: sono previsti un'area verde, parcheggi, allargamento della corsia stradale, ed una casa di cura per malati di Alzheimer.
Altri lavori sono quelli che interessano a tutt'oggi la zona di viale dei Quattro Venti, dove è stata recentemente (ottobre 2006) inaugurata la stazione sotterranea del treno per Viterbo. Qui per un attimo oggi (febbraio 2007) sembra di esser tornati alla visione di “Monteverde calcinante”, ma è solo un'illusione: sparita la trincea della ferrovia ed in via di risoluzione l'invasivo cantiere, si vede un nuovo parcheggio a fianco della stazione, ed un giardinetto in allestimento. Ed in alto, le palazzine aggrappate, quasi strappate con ferocia dal verde della collina, che mostrano il loro retro, finora nascosto, anche perché assai meno gratificante e vezzoso del lato sulla strada (ma che rendeva possibili enormi profitti, perché la palazzina sulla collina che davanti è di cinque piani, diventa spesso di otto dietro). Parlavo di ferocia: ed in effetti, al di là di certe apparenze, cui si cerca di rimediare tardivamente oggi, Monteverde è stato uno dei quartieri sui quali più si è accanita la speculazione edilizia dal '50 fino a circa il '70.
"Il Ferrobedò" inizia, come tutti i capitoli dei "Ragazzi di vita" in un caldissima domenica di luglio, un luglio mitologico, come si capirà a breve, ma ambientato in un luogo reale, anzi visto in tutta la sua crudezza: il Riccetto, protagonista della parte iniziale del capitolo, deve comunicarsi e cresimarsi nella stessa mattinata, e lo fa difatti, ma questo sembra l'ultimo dei suoi pensieri: "Il Riccetto però aveva una gran prescia di tagliare: da Monteverde giù alla stazione di Trastevere non si sentiva che un solo continuo rumore di macchine. Si sentivano i clacson e i motori che sprangavano su per le salite e le curve, empiendo la periferia già bruciata dal sole della prima mattina con un rombo assordante"
Beh, in che anno siamo? Sembrerebbe una scena del dopoguerra, ed in effetti questo ci viene chiarito subito dopo: "Da Monteverde Vecchio ai Granatieri la strada è corta: basta passare il Prato, e tagliare tra le palazzine in costruzione intorno al viale dei Quattro Venti: valanghe d'immondezza, case non ancora finite e già in rovina, grandi sterri fangosi, scarpate piene di zozzeria. Via Abate Ugone era a due passi". Viale dei Quattro Venti fu selciato verso il 1952, anche se la strada esisteva da lungo tempo, ed era già tracciata nell'anteguerra: in effetti molte delle case nella parte bassa del viale, da piazzale dei Quattro Venti al Ponte Bianco sono databili tra il 1950 ed il 1960, quindi quegli anni di attive edificazioni dovevano essere nei primi anni Cinquanta. I Granatieri avevano una caserma dove oggi c'è il mercato di Piazza San Giovanni di Dio, "girata der tranve", se ricordate, e termine effettivo del quartiere verso villa Pamphili.
Ma poi la questione si complica: "La folla giù dalle stradine quiete e asfaltate di Monteverde Vecchio, scendeva tutta in direzione dei Grattacieli: già si vedevano anche i camion, colonne senza fine, miste a camionette, motociclette, autoblinde" Autoblinde? Siamo ancora durante la guerra? Infatti, anzi... "Il Riccetto col branco di gente attraversò il Ferrobedò quant'era lungo, in mezzo alla folla urlante, e giunse davanti a una delle casette. Ma lì c'erano quattro Tedeschi che non lasciavano passare. Accosto la porta c'era un tavolino rovesciato: il Riccetto se l'incollò e corse verso l'uscita. Appena fuori incontrò un giovanotto che gli disse: «Che stai a fa?» «Me lo porto a casa, me lo porto,» rispose il Riccetto. «Vie' con me, a fesso, che s'annamo a prenne la robba più mejo.»
Sembra ormai evidente, dal caos generale che siamo durante l'occupazione, ma è proprio qui che i conti non tornano. Roma fu liberata il 4 giugno del 1944, quindi non può che trattarsi di luglio del '43, e guarda caso, proprio il 25 luglio era domenica, ma la notizia della caduta del fascismo non trapelò che verso sera.
In breve, mentre il Riccetto sale e scende dal Ferrobedò verso i Grattacieli, Marcello scende da altri fabbricati popolari, siti al Buon Pastore, e cioè circa 1 km. ad ovest del termine di Monteverde a piazza San Giovanni di Dio, su via di Bravetta, per sentieri, verso lo stesso Ferrobedò. Apro parentesi per dire che il Buon Pastore era un convento realizzato in incredibili forme borrominiane negli anni '30 da Armando Brasini (oggi ci sono delle scuole). Brasini era un personaggio interessante a dir poco: a parte aver proposto nel 1925 o poco dopo, una specie di Foro Mussolini ante litteram con bighe, aquile e blocchi marmorei, tra il Pantheon e via del Corso, che qualcuno, dato probabilmente il tiepido sostegno di Mussolini stesso, trovò la forza di bocciare, è stato anche il progettista di ponte Flaminio, l'unico ponte sul Tevere, affacciandosi dal quale il fiume non si vede: in compenso si vedono aquile, fasci littori, ecc. ecc. Chiudo parentesi.
Dopo una serie di vicende, i due di ricongiungono, come segue: "Lì su alla vasca del Buon Pastore non si sapeva ancora niente. Il sole batteva in silenzio sulla Madonna del Riposo, Casaletto e, dietro, Primavalle. Quando tornarono dal bagno passarono per il Prato, dove c'era un campo tedesco. Essi si misero a osservare, ma passò di lì una motocicletta con la carrozzella, e il Tedesco sulla carrozzella urlò ai maschi: «Rausch, zona infetta.» Lì presso ci stava l'Ospedale Militare. «E a noi che ce frega?» gridò Marcello: la motocicletta intanto aveva rallentato, il Tedesco saltò giù dalla carrozzella e diede a Marcello una pizza che lo fece rivoltare dall'altra parte. Con la bocca tutta gonfia Marcello si voltò come una serpe e sbroccolando con i compagni giù per la scarpata, gli fece una pernacchia: nel fugge che fecero, ridendo e urlando, arrivarono diretti fino davanti al Casermone. Lì incontrarono degli altri compagni. «E che state a ffà?» dissero questi, tutti sporchi e sciammannati. «Perché?» chiese Agnolo, «che c'è da fà?» «Annate ar Ferrobedò, si volete vede quarcosa.» Quelli c'andarono di fretta e appena arrivati si diressero subito in mezzo alla caciara verso l'officina meccanica. «Smontamo er motore,» gridò Agnolo. Marcello invece uscì dall'officina meccanica e si trovò solo in mezzo alla baraonda, davanti alla buca del catrame. Stava per caderci dentro, e affogarci come un indiano nelle sabbie mobili, quando fu fermato da uno strillo: «A Marcè, bada, a Marcè!» Era quel fijo de na mignotta del Riccetto con degli altri amici".
La razzia di Marcello e del Riccetto e degli altri al Ferrobedò farebbe veramente pensare ad un 25 luglio, anche se la presenza in massa dei tedeschi sembra abbastanza incongrua in quel frangente: "Così Marcello ridiscese al Ferrobedò col fratello, e questa volta portarono via da un vagone copertoni di automobile. Scendeva già la sera e il sole era più caldo che mai: già il Ferrobedò era più affollato d'una fiera, non ci si poteva più muovere. Ogni tanto qualcuno gridava: «Fuggi, fuggi, ce stanno li Tedeschi», per fare scappare gli altri e rubare tutto da solo"
Dopo il racconto di una discesa, stavolta infruttuosa, ai Mercati Generali sulla via Ostiense, detti la Caciara, il giorno dopo, si apre uno scorcio descrittivo interessante, e sembra di essere tornati al '52, o giù di lì, su viale dei Quattro Venti (dove indubbiamente non c'erano enormi cantieri edilizi nel '43):
"Dietro il Ponte Bianco non c'erano case ma tutta una immensa area da costruzione, in fondo alla quale, attorno al solco del viale dei Quattro Venti, profondo come un torrente, si stendeva calcinante Monteverde". Ed ancora ai primi anni '50 risale la descrizione che segue, confermata dai ricordi di alcuni dei ragazzi di Donna Olimpia che conobbero Pasolini, come Giuseppe Parrello, conosciuto in borgata come il «Pecione», per via della pece che usava nel suo mestiere di calzolaio: «Così passavano i pomeriggi a far niente, a Donna Olimpia, sul Monte di Casadio, con gli altri ragazzi che giocavano nella piccola gobba ingiallita al sole, e più tardi con le donne che venivano a distenderci i panni sull'erba bruciata. Oppure andavano a giocare a pallone lì sullo spiazzo tra i Grattacieli e il Monte di Splendore, tra centinaia di maschi che giocavano sui cortiletti invasi dal sole, sui prati secchi, per via Ozanam o via Donna Olimpia, davanti alle scuole elementari Franceschi piene di sfollati e di sfrattati».
Il gioco del pallone e la lotta erano tra le passioni di Pasolini, e i due monti (in realtà prati in pendio), Casadio e Splendore, erano presumibilmente uno su via Ozanam, dietro i grattacieli, l'altro sul fianco dei grattacieli, dove oggi c'è via Paola Falconieri. Lo stesso Parrello ricorda il crollo della scuola Franceschi nel 1951 in quest'intervista: «Fu l'ala sinistra della Giorgio Franceschi a crollare, quella attualmente compresa fra via Donna Olimpia e via Abate Ugone. La mattina ci fu il crollo e il pomeriggio gli adulti si riunirono e decisero di occupare le case popolari di via Donna Olimpia n. 56, che erano ancora in costruzione, anche se praticamente già finite. Molti di quegli appartamenti furono in seguito assegnati agli occupanti dall'Istituto. Io è da allora che abito lì» (vedi in www.pasolini.net/narrativa_donnaolimpia_espa.htm ). Si era parlato anche di mettere una lapide a ricordo degli episodi dei "Ragazzi di vita" a via di Donna Olimpia 30, ma, che io sappia, non se n'è fatto ancora nulla.
Eppure, nel finale del capitolo, si torna (forse) ancora al '44, in un luogo dove tuttavia Pasolini tornava a farsi il bagno durante il suo periodo di Donna Olimpia: "...tutto il quartiere di Monteverde, all'orizzonte, sopra le scarpate putride e bruciate, con le sue vecchie villette come piccole scatole svanite nella luce. Proprio lì sotto c'erano i piloni di un ponte non costruito con intorno l'acqua sporca che formava dei mulinelli; la riva verso San Paolo era piena di canneti e di fratte". Il ponte non terminato era ponte Marconi, su viale omonimo, che doveva essere la seconda strada di accesso all'EUR, dopo la via Cristoforo Colombo. Viale Marconi fu tracciato nel 1939-40, anche se non asfaltato, ma il ponte non fu completato che nel 1953.
Un paio di osservazioni, per concludere questo piccolo itinerario pasoliniano: la presenza della Ferrobeton, oltre che della Purfina, nella vita del gruppetto dei Ragazzi del romanzo, ci ricorda che qualcosa è accaduto nelle grandi città italiane, dal dopoguerra ad oggi, ed è la sparizione di un certo tessuto imprenditoriale presente nella zona, che si saldavano idealmente con la zona industriale di San Paolo-Ostiense di là dal fiume, di cui restano (in piedi, anche se inoperosi) il gazometro, la centrale elettrica Montemartini e poco altro. Il fatto è che questa de-industrializzazione non poteva mancare di influire sul tessuto sociale del quartiere ed in generale della città. Si cita spesso Pasolini per le sue intuizioni quasi profetiche sulla gioventù dell'era del consumismo, in particolare nell'ultimo periodo della sua vita (vedi gli "Scritti corsari", 1973-75, ultima edizione presso Garzanti nel 2001), ed in effetti è giusto riconoscere che la de-industrializzazione ha forse accelerato questo processo di straniamento rispetto al territorio, che viene "consumato" (in puro stile nord-americano), ma non più "vissuto" come proprio. E' curioso pensare come, in case popolari tutt'altro che accoglienti ed in un ambiente tutt'altro che gradevole dal punto di vista naturale, i ragazzi di vita di Pasolini avessero un senso di appartenenza che probabilmente gli attuali abitanti di Donna Olimpia forse di quelle stesse case, hanno perduto. Il possibile legame con la de-industrializzazione mi viene indicato anche da un bel libro sulla chiusura delle acciaierie di Bagnoli (ma in realtà sulla modificazione del tessuto imprenditoriale napoletano), uscito qualche anno fa, "La dismissione" di Ermanno Rea (BUR, 2006). (E vedi anche un molto realistico ritratto della Napoli anni '50 in "Via Gemito" di Domenico Starnone, Feltrinelli, 2000).
La seconda osservazione è legata alla prima: Pasolini, pur tanto attento, come credo di aver mostrato, dal punto di vista topografico e toponomastico, nella grande tradizione del neo-realismo, che in lui prende una luce poetica particolare, ci lascia invece incerti sull'anno in cui realmente "Il Ferrobedò" si svolge, o per meglio dire, innesta sul tessuto narrativo dell'occupazione tedesca episodi reali dei primi anni '50. Questo accade, in realtà, credo di poter dire, perché la continuità tra guerra e dopoguerra era ancora per i "Ragazzi di vita" assoluta e sostanziale: la loro vita era forse cambiata, ma non troppo, e certamente molto meno di come cambierà negli anni a venire per effetto di fenomeni meno cruenti, ma certo non meno profondi (pensiamo alla motorizzazione di massa).
Nella figura che segue sono riportati alcuni dei luoghi citati ne "Il ferrobedò", tanto per dare un'idea, specialmente ai non-romani, della loro collocazione rispettiva.
I brani pasoliniani sono tratti da "Ragazzi di vita" Einaudi, 1979, p.3-9.
A cura di Carlo Santulli
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Pochi autori, come Carlo Santulli, sanno giocare con le parole, intarsiandole in piccole storie che si snodano tranquille (mai lente) attraverso una realtà quasi ordinaria e che, pure, riescono ad affascinare il lettore costringendolo a leggere fino all'ultima riga. Personaggi stupiti, a volte impacciati, si aggirano tra le pagine di questo libro, alle prese – come tutti noi – con le incongruenze e le follie del vivere quotidiano, non si abbandonano però all'autocommiserazione, non si ribellano, non cedono a tentazioni bohemien e, se cercano una via di fuga, questa è piuttosto interiore che esteriore. Un cammino, a piccoli passi, che li porterà, forse, verso un punto di equilibrio più stabile. Irraggiungibile (ma reale) come un limite matematico. Siano essi alle prese con una Quinta Arborea, un mazzo di chiavi che si trasforma nel simbolo di un'esistenza, un Clostridio tra i Pirenei, o passeggino, semplicemente, per le strade di una sonnolenta Roma anni trenta.(Marco R.Capelli)
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