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La voglia di lavorare
di Giorgio Di gennaro
Pubblicato su PBSA2021


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Quando entrai in officina per la prima volta, avevo all’incirca dodici anni. Non sapevo niente di motori; sapevo soltanto che a fare il meccanico ci si sporca… E parecchio anche.

Era estate, ed era appena finita la scuola. Una sera mio padre mi disse “Non mi pare il caso che te ne stai a casa tutto il giorno senza fare niente, o magari che te ne vai in giro chissà dove… No… Non mi pare proprio il caso”. Mia madre annuì continuando a lavare i piatti, mentre io pensai che mi stavano fregando l’estate.

Un paio di giorni dopo indossavo una tuta scura e spazzavo un pavimento lercio con una scopa moribonda.

I primi tempi mio padre e gli altri mi facevano fare sempre le stesse cose: spazzare per terra, pulire gli attrezzi, rimetterli al loro posto, andare a prendere l’acqua alla fontanella, lavare pezzi di auto con la benzina, rispondere al telefono… Ero il classico garzone, in poche parole, un ragazzo di bottega, l’ultima ruota del carro.

D’altro canto, non sapevo niente di motori. Non potevo mica mettermi ad armeggiare su una macchina. Non ci capivo nulla, assolutamente. E se devo dirla tutta, non riuscivo nemmeno a capire se mi interessasse così tanto imparare. Voglio dire, non è che me ne importasse molto… Se mi trovavo lì, non era certo per mia scelta… Mio padre mi diceva “È normale non capirci niente all’inizio; questo è un mestiere che si impara col tempo, con la pratica giornaliera… Ci vogliono anni, cazzo… Anni!”. Io annuivo, senza guardarlo, fissando la parete sopra al bancone su cui erano appese le chiavi a occhio e quelle a snodo, mentre lui continuava dicendo “Intanto inizi dal basso, fai la gavetta, no? L’importante è avere voglia di lavorare… Capito? Voglia di lavorare”.

Ripeteva sempre questa cosa della voglia di lavorare, scandendo le sillabe, in tono quasi minaccioso, facendo trapelare in maniera evidente tutto il suo disprezzo per coloro che questa voglia vi lavorare non ce l’avevano per niente. Era una cosa condivisa anche dal resto degli operai, quattro uomini che non facevano altro che ribadire di continuo quanto duro fosse il loro lavoro, quanti sacrifici fisici e morali dovessero fare ogni giorno e quanto, tutto ciò, fosse per loro motivo di grande orgoglio.

Io ero solo un ragazzino, forse è per questo motivo che non riuscivo a capire come mai fossero tanto orgogliosi di una cosa di cui si lamentavano continuamente. Mi chiedevo “perché rivendicare con tanta fierezza una cosa che detesti?” Poi però li guardavo e pensavo che erano persone, persone come me e come tanti altri, e mi piaceva molto quando iniziavano a dire parolacce e a parlare di donne.

Anche il quartiere non era male, sembrava davvero un posto pieno di sorprese e cose da scoprire.

La gente dei negozi e dei bar era tutta una cosa nuova per me. Quando mi vedevano con la tuta da meccanico mi facevano un sacco di domande, soprattutto le donne e gli uomini anziani. Poi quando dicevo chi era mio padre, tutti facevano un’espressione felice e soddisfatta, e poi aggiungevano “Lui sì che è una brava persona, sul serio, ce ne fossero in giro bravi come tuo padre”; mi sorridevano e mi davano pacche sulle spalle e concludevano dicendo “È finita la scuola e t’ha messo sotto vero?”, intendendo con quel messo sotto il fatto che mi avesse portato a lavorare con lui.

Anche loro pensavano che fosse meglio, per un ragazzino, imparare il valore del lavoro e del sacrificio, sempre per quella storia della voglia di lavorare che, a quanto pare, doveva essere davvero una cosa importante.

Dopo qualche settimana, iniziai a pensare che forse io non ce l’avevo tutta questa voglia di lavorare, perché non mi piaceva per niente passare dodici ore al giorno in officina, e nemmeno dovermi alzare così presto ogni mattina; iniziai a pensare che sarebbe stato bene inventarsi qualcosa, e il prima possibile, per evitare in futuro di dover lavorare così tanto.

Questo però non lo dissi a nessuno. Né a mio padre né a mia madre; e tantomeno ai vecchietti che incontravo in giro, i quali avevano delle facce davvero soddisfatte quando mi vedevano sporco e sudato, e ogni tanto capitava che qualcuno di loro mi dicesse “Tu sì che sei un bravo ragazzo, si vede che sei come tuo padre… Avete la stessa voglia di lavorare”.

Ogni volta che mi veniva detta questa cosa, io mi sentivo sempre in imbarazzo, e soprattutto confuso: perché ammiravo mio padre, ero orgoglioso di lui, del suo fisico massiccio, dei baffi folti, e del fatto che tutti gli volessero bene e parlassero continuamente di lui in modo entusiasta; però c’era questa maledetta cosa del lavorare che non mi convinceva affatto; e ogni giorno che passava, mi veniva il dubbio che non fosse poi così bella come veniva dipinta.

 

Una cosa che facevo spesso, quell’estate, era andare in giro con una vecchia bicicletta. Accadeva ogni volta che venivo mandato da qualche parte, come in ferramenta o all’autoricambi. Allora io montavo sulla vecchia Lazzaretti rossa e partivo.

La maggioranza delle volte mi capitava di passare nel parco dietro l’officina, lungo la stradina che lo attraversava completamente, costeggiando un pezzo del fiume. Si trattava di un parco non molto grande e poco frequentato, pieno di alberi sbilenchi, bottiglie rotte e panchine sbiadite e arrugginite. La gente diceva che era uno schifo che un parco così bello fosse ridotto in quel modo, quasi abbandonato e privo di manutenzione, e che sarebbe stato meglio se i ragazzini della zona avessero avuto la possibilità di andarci a giocare.

“Ma al comune non glie ne frega un cazzo” diceva sempre Raffaele, uno degli operai dell’officina. “Non glie ne frega un cazzo di noi, figurati di un parco”. Mi sembrava sempre un ragionamento impeccabile, questo.

Infine, la cosa che dava più fastidio alla gente, quella che davvero faceva avvelenare il sangue di tutti, era il fatto che una piccola parte del parco, quella verso il fiume, era stata occupata da qualche tempo da alcune famiglie di immigrati, i quali avevano tirato su due o tre baracche e ci si erano infilati dentro usandole come abitazione.

Non c’era nessuno che non detestasse quella gente. Nessuno. Erano odiati da tutti, e per i motivi più disparati: perché puzzavano, perché rubavano, perché stupravano, perché sporcavano, perché facevano troppi figli, perché rubavano il lavoro a noi italiani e, soprattutto, perché erano degli sfaticati. Non avevano alcuna voglia di lavorare.

In realtà non riuscivo a capire come questi ultimi due punti fossero conciliabili, il non voler lavorare e il rubare il lavoro, ma pensavo che ci fosse qualche ovvia spiegazione che a me, ingenuo ragazzino, sfuggiva completamente.

Anche mio padre, quando prendeva l’argomento con gli altri, lo diceva sempre: “Questa è gente che non ha alcuna voglia di lavorare”. E scuoteva la testa. Tutti scuotevano sempre la testa.

Io non li avevo mai visti da vicino. Quando passavo da quelle parti vedevo un sacco di gente, di tutte le età, e non avevo la più pallida idea di cosa facessero e come vivessero. Non sapevo niente di loro; eppure, non mi piacevano. Anzi, stavo imparando a detestarli, come tutti gli altri. Senza sapere nemmeno il perché.

Poi un giorno mio padre mi disse di andare in ferramenta per comprare un litro di acetone e un metro di carta vetrata. Io presi la Lazzaretti e mi avviai. Era quasi l’una del pomeriggio. Era il mese di luglio e il sole era talmente forte che l’asfalto si squagliava come plastica sul fuoco. Girai dietro il palazzo, feci altri duecento metri e mi fermai all’incrocio. Quando il semaforo fu verde, attraversai la strada ed entrai nel parco.

Con tutto quel caldo non c’era nessuno in giro. C’era soltanto questo bianco totale e accecante nell’aria, questo bianco estivo che ti fa socchiudere gli occhi per la forza e la spietatezza.

Avanzavo sulla stradina, da lontano vedevo le baracche degli immigrati, ricoperte da lamiere infuocate e bollenti; svoltai verso destra e all’improvviso, senza neanche sapere come, mi ritrovai scaraventato a terra. Prima ancora di avere il tempo di capire cosa fosse successo e rialzarmi, vidi una scarpa muoversi nell’aria, alla mia destra, e in pochi istanti un calcio poderoso mi arrivò sulla testa, precisamente sul collo, nella zona sotto l’orecchio.

Sentii un dolore fortissimo, nuovo per me; e soprattutto ebbi paura. Improvvisamente non avevo la forza di alzarmi, e allo stesso tempo non riuscivo a capire cosa stesse succedendo. Poi, ancora disteso a terra, vidi un uomo, forse un ragazzo, non riuscii a capirlo, che mi diceva qualcosa in tono minaccioso e mi infilava le mani nelle tasche.

Ero stordito e spaventato, ma capii che ero stato aggredito da qualcuno. Pensai che sarei scoppiato a piangere. Ne fui sicuro; ma stranamente non accadde. Restai lì, col collo indolenzito e bloccato dalla paura, mentre quel tizio se ne andava con i venti euro che aveva preso dalle mie tasche e con la bicicletta sulla quale mi trovavo fino a pochi secondi prima.

Lo vidi salire in sella e allontanarsi. Poi gettai la testa all’indietro, sulla polvere, e chiusi gli occhi per qualche istante. Il collo mi faceva male e non avevo alcuna voglia di alzarmi. Un silenzio di quartiere accompagnava il mio respiro. Era un silenzio fatto di suoni lontani, di rumori remoti di automobili e clacson, di porte e finestre sbattute dalla corrente, di passi sulle scale dei condomini e di saracinesche abbassate chissà dove.

Restai così per alcuni minuti, il tempo di raccogliere le energie e le idee. Poi aprii di nuovo gli occhi e il sole allagò le mie pupille.

Mi rialzai, tutto indolenzito e sporco. Mi accorsi di avere un taglio sul labbro inferiore e una piccola scia di sangue che mi rigava il mento. Pensai che fosse meglio tornare all’officina. Dolorante e confuso mi incamminai verso l’uscita del parco.

 

“E tu non hai reagito?” disse mio padre, “ti sei fatto pestare così, senza neppure reagire?”

Mi guardava, aspettando una risposta. Avrei voluto dirgli che ero stato preso di sorpresa, che la persona che mi aveva aggredito era molto più grande di me, che altrimenti mi sarei sicuramente fatto valere… E invece non dissi nulla. Restai in silenzio, di fronte a lui e agli altri operai che mi guardavano e mi facevano domande per tentare di capire chi potesse essere stato a fare una cosa del genere.

Anche se in realtà tutti erano sicuri, lì dentro, di sapere benissimo da dove venisse il colpevole; compreso il sottoscritto. Anche io, infatti, non ebbi alcun dubbio nel ritenere responsabile qualcuno degli abitanti delle baracche. Chi poteva essere stato altrimenti?

Me ne stavo seduto su una sedia, e mi passavo la mano sul collo in un massaggio che non serviva a niente. Provavo ancora dolore, anche se ora sembrava essersi leggermente attenuato.

Mio padre discuteva con gli altri, e ogni tanto mi lanciava uno sguardo. A me non piaceva per niente che mi guardasse in quel modo; il suo non era solo uno sguardo per vedere come stavo, era anche uno sguardo di disapprovazione, come a domandarsi come mai avesse un figlio che si era fatto pestare così, come un coglione, senza neppure reagire e farsi valere.

A un certo punto mi alzai dalla sedia e me ne andai nello spogliatoio. “Mi fa male il collo”, dissi, “vado a darmi una sciacquata”.

I quartieri delle grandi città, soprattutto quelli periferici, non sono molto diversi dai piccoli paesi della cosiddetta provincia. Voglio dire che quando accade qualcosa che altera il regolare e banale flusso della quotidianità, non ci vuole molto tempo prima che tutti ne vengano a conoscenza.

Anche quella volta fu così: già il giorno dopo tutti sapevano che il figlio del meccanico era stato “pestato dagli zingari”, i quali lo avevano conciato per le feste e gli avevano rubato un sacco di soldi e una bicicletta nuova fiammante. Ovviamente la storia non poteva avere una sola versione, le varianti furono molteplici, da quelle che mi rappresentavano vittima di un’aggressione violentissima e al limite dell’omicidio, a quelle in cui venivo dipinto come un perfetto idiota incapace di proteggersi da solo. In generale, però, non è che ci facessi una bella figura. In un quartiere come quello, essere aggrediti, picchiati, è qualcosa di cui vergognarsi se non si è riusciti a dare agli aggressori almeno un pugno, o un calcio, o magari una testata. Puoi anche prenderle, va bene, ma almeno un ricordino, sul corpo dell’altro, è obbligatorio lasciarlo. Il fatto che io avessi solo dodici anni non significava niente. Uno deve imparare il prima possibile come si sta al mondo, questo era il punto fondamentale.

Nessuno mi disse niente ovviamente, anzi, mi trattavano tutti bene. Ma io mi sentivo umiliato e furente, soprattutto perché sapevo come erano andate le cose, e sapevo di essere stato preso di sorpresa… Tanto che avevo visto a malapena l’autore dell’aggressione.

Iniziai a provare un profondo odio per lui… Iniziai a detestarlo, pur ignorandone non solo l’identità ma anche i lineamenti del viso. Nella mia memoria avevo solo un vago ricordo della sua figura, del tutto insufficiente comunque per un ipotetico riconoscimento. In parole povere, se lo avessi incontrato per strada, non sarei stato capace di riconoscerlo.

Non lo dissi a nessuno. Perché mi sembrava ancora più ridicolo e umiliante per me. Dissi sempre che anche se non ero riuscito a vedere perfettamente il volto del mio aggressore, sarei stato comunque in grado di riconoscerlo. E, come tutti gli altri, detti per scontato che si trattasse di qualcuno degli immigrati che abitavano nelle baracche del parco.

Pur non avendo alcuna prova o indizio, e nonostante qualche dubbio iniziale, non ci misi molto a convincermi che fosse stato uno di loro a saltarmi addosso e a fottermi la Lazzaretti e i venti euro. Ne fu sicuro, senza alcun dubbio. Pensavo che quei maledetti bastardi, tutti quanti, dovessero pagarla per quello che mi avevano fatto, soprattutto il figlio di puttana che aveva osato picchiarmi. Anche gli altri la pensavano come, e non parlo soltanto dei ragazzi dell’officina, ma anche della gente del quartiere che passava a trovarci e che bazzicava la zona.

In realtà era pieno di uomini che passavano il giorno senza fare niente; fumavano in continuazione e guardavano le donne passare. Se ne stavano seduti sulle sedie del bar consumando un sacco di birra, con le mani che sapevano di tabacco e la pelle sudata e annerita dal sole. Anche quelli non lavoravano e passavano il tempo senza combinare nulla, ma era raro che qualcuno dicesse di loro che non avevano voglia di lavorare. Sentivo sempre dire che bisognava aiutarli e comprenderli, perché era tutta colpa della disoccupazione.

Soprattutto le donne… Sì, soprattutto le donne, loro ribadivano sempre questa cosa della mancanza del lavoro, e usavano espressioni come povero figlio, sfortunato, bravo ragazzo e così via, mostrando espressioni di pietà e solidarietà e scuotendo sempre la testa.

Anche qui, io non è che capissi perfettamente quale fosse la differenza tra un disoccupato italiano e un disoccupato immigrato, perché uno meritasse rispetto mentre l’altro diffidenza e disprezzo; ma capivo benissimo che qualche differenza doveva esserci per forza, e sicuramente un giorno l’avrei capita perfettamente, dato che a tutti gli altri la cosa veniva davvero spontanea e facile. Per ora mi bastava sapere che uno di quei bastardi mi aveva aggredito e mi aveva fatto passare per un incapace di fronte agli occhi di mio padre e un sacco di altra gente; questo era sufficiente a farmi capire che razza di gentaglia fosse quella e che il mio odio era ampiamente fondato.

Così, quando una settimana dopo il fattaccio, vennero a dirci che avevano appena beccato il tizio che mi aveva aggredito, fui contento, ed ebbi addirittura un brivido di eccitazione.

L’uomo che venne a comunicarci la notizia lavorava nel bar dietro l’angolo, quello in cui andavamo tutte le mattine. Si chiamava Salvatore, veniva dalla Sicilia e anche lui non sopportava gli immigrati. Anche lui sosteneva che non avevano alcuna voglia di lavorare.

Ad ogni modo, Salvatore ci disse che avevano beccato il tizio in questione in una stradina laterale vicino al parco, mentre passeggiava lungo il fiume con la nostra bicicletta. Poi ci disse di andare con lui, di sbrigarci.

Quando io e mio padre arrivammo sul posto, c’erano un sacco di persone. Se ne stavano in circolo, e i loro corpi, da lontano, formavano una barriera che ci impediva di vedere cosa stesse accadendo. C’erano donne e uomini, ragazzini della mia età e vecchi che a malapena si reggevano in piedi. Un gruppo eterogeneo che avrebbe potuto rappresentare perfettamente il quartiere… O il mondo intero.

Appena ci riconobbero, il gruppo si aprì per farci spazio e lasciarci passare.

Bisogna avere stomaco per stare al mondo. Questa era una frase che mi sentivo dire spesso, soprattutto in officina. Guardai la scena di fronte ai miei occhi e pensai che doveva essere davvero così: disteso a terra, buttato contro la rete che divideva la stradina dal margine del fiume, c’era un ragazzone grande e grosso, con gli occhi semichiusi e il volto tumefatto. A vederlo, doveva avere qualche anno più di me, non abbastanza però da renderlo maggiorenne. Era a terra, con la schiena appoggiata sulle maglie di fil di ferro e il torace che si contraeva velocemente per l’affanno. Ansimava e aveva il fiatone come se avesse corso in maniera disperata. Gli usciva sangue dal naso e dalle labbra, ridotte ormai a una specie di poltiglia; anche gli zigomi, entrambi, erano tagliati e insanguinati, mentre l’orecchio destro aveva uno spacco poco sopra al lobo.

Lo guardavo come se fosse un animale, senza riuscire a capire nulla. C’era gente intorno a me che urlava e lo insultava, altri invece che non dicevano niente e non guardavano, o magari se ne andavano via.

Non riuscivo a capire se quello potesse essere effettivamente il tipo che mi aveva aggredito, ma smisi di chiedermelo quasi subito. Mi venne come il dubbio, non so neppure perché, che non avesse più nessuna importanza. Cercai di guardarlo negli occhi, per capire chi fosse. Il suo occhio destro, insieme al sopracciglio, era sproporzionatamente gonfio, così tanto che quasi non si riuscivano a distinguere nemmeno le palpebre. Su quella parte del viso, pesta e sformata, iniziava a diffondersi un colore violaceo e innaturale.

Il solo segno di vitalità, di identità, su quel volto ormai disfatto, era dato dall’occhio sinistro, scampato chissà come dalla furia che aveva investito tutto il resto. Quell’occhio, unico elemento sano nella devastazione del volto e ancora capace di comunicare qualcosa, guardava intorno a sé in tono vigile e attento, carico di stupore e di paura. E di vita.

Lo guardai, come ipnotizzato, mentre la gente urlava e ogni tanto qualcuno si avvicinava per assestare ancora un calcio, o un pugno, o uno sputo. Lo guardai mentre mio padre diceva qualcosa senza che io capissi nulla delle sue parole, neppure se ce l’avesse con me o con qualcun altro. Guardai quella luce viva dentro la pupilla, restai catturato da quella forma selvaggia e inspiegabile di movimento, quella forma ribelle e instancabile di vita, la quale nonostante le botte, il sangue, gli insulti, l’umiliazione e la paura, continuava ad esistere in maniera prepotente e inconsapevole, ad essere e basta, essere, essere e ancora essere, contro tutto e tutti e soltanto perché era la cosa più ovvia e naturale da fare.

Lo fissai ancora per molto, mentre le persone intorno parlavano e si muovevano. Lo facevano tra loro, lo facevano verso il ragazzo, lo facevano con me. Era tutto un terremoto di parole e movimenti… Braccia, gambe e lingue che schizzavano ovunque, in un ritmo forsennato di popolo e branco.

Adesso però non sentivo più lo stesso odio di prima. Non era soltanto perché non sapevo nemmeno se fosse davvero lui la persona che mi aveva aggredito. In realtà, questo non aveva più alcuna importanza per me. Guardavo quel ragazzo e tutta quella gente intorno, e capivo che c’era qualcosa che non filava, che non andava come io avevo creduto che sarebbe andata. E mi chiedevo cosa fosse; non riuscivo a capire di cosa si trattasse. Anche quello era un immigrato, no? Si vedeva benissimo dal colore della pelle… E anche quelle due o tre frasi che ogni tanto ripeteva, obbligando le parole a farsi spazio in mezzo al sangue sulle labbra, anche quelle non facevano che confermare che non era uno di noi… Già! Uno di noi… Adesso però non è che mi piacesse più tanto questa espressione, anzi, mi sembrava essersi svuotata di ogni significato.

Pensai fosse colpa del frastuono, del caos ingovernabile che sembrava aver invaso quello spicchio di città, ma improvvisamente non sapevo più cosa pensare, e la confusione era l’unica cosa davvero evidente all’interno della mia testa.

Allora ebbi voglia di voltarmi, di voltarmi e chiedere a mio padre… Chiedere a lui sarebbe stato giusto, pensai, sarebbe stata la cosa migliore da fare… Ma non riuscivo a staccare lo sguardo da quel ragazzo buttato a terra come un animale ferito.

E fu proprio quando decisi di sforzarmi per uscire da quella specie di incanto e girarmi verso mio padre, che tutti, in maniera repentina e inaspettata, iniziarono a dileguarsi e a fuggire di corsa verso ogni direzione.

Mi guardai intorno, frastornato e sorpreso, incapace di realizzare cosa stesse succedendo, e prima ancora di riuscire a capire, mi sentii afferrare per la mano e trascinare via in modo brusco e immediato. Mi sentii disorientato, come strappato dal sonno in maniera improvvisa… E quando alzai la testa vidi mio padre; era lui che mi trascinava via, quasi correndo, voltandosi ogni tanto verso di me mentre mi teneva per il polso, urlandomi di sbrigarmi, di fare presto.

Sentii la gente dire “arrivano le guardie” e in lontananza il suono delle sirene, sempre più vicino e chiaro.

Allora capii e lasciai la mano di mio padre, e poi mi misi a correre accanto a lui, verso l’officina, verso l’angolo dietro il quale pensai che saremmo stati quelli di prima… Esattamente come prima… Ma mentre correvo, iniziai a pensare “adesso mi giro, mi giro per guardarlo ancora, lo voglio guardare ancora un’ultima volta…” Correvo e pensavo questo, col fiatone e le tempie che pulsavano, esattamente come, probabilmente, era successo a quel ragazzo prima di me, soltanto pochi minuti prima, quando a inseguirlo era stata la gente del quartiere…

Pensai che mi sarei voltato e lo avrei guardato ancora, ma non lo feci… Non so neppure il perché… Continuai a correre e non mi voltai più verso di lui… Guardai di fronte a me, mentre i piedi andavano uno di fronte all’altro, pestando il terreno e rimbalzando, alzando la polvere e schiacciando l’asfalto… Corsi così forte che superai mio padre, gli passai davanti come se fossi un fulmine, e non era la paura a farmi correre così forte, ma qualcosa che non sapevo identificare e che sembrava l’emozione più forte che avessi mai provato in vita mia… Corsi verso quell’angolo, verso l’officina, verso gli operai e la gente che passava, verso le macchine col cofano aperto e la voglia di lavorare… E appena girai l’angolo capii che mi ero sbagliato, che non sarebbe stato mai più come prima.

© Giorgio Di gennaro





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