Il piede affonda sul pedale dell’acceleratore. E’ “a tavoletta” ma la macchina perde potenza rallentando progressivamente. Prima di fermarsi in modo definitivo concede, al guidatore, la possibilità di accendere la freccia ed accostare. L’uomo al volante prova ancora a girare la chiave dell’accensione ma l’auto, dopo un ultimo, comatoso rantolo, si spegne senza dare più cenni di vita.
Il conducente, contrariato, si slaccia la cintura e guarda il cielo dove galoppano, imbizzarrite, grosse nuvole scure. Si volta imprecando mentalmente e dal sedile posteriore afferra l’impermeabile quindi apre la portiera e scende. Lo indossa e, rabbrividendo, alza il bavero fin sotto il mento. E’ autunno ma in quella giornata il freddo è pungente.
L’auto si è bloccata in una zona periferica, ancora non violentata dal cemento perciò quasi disabitata. La sagoma della strada, deformata da buche e rattoppi fatti in economia, è disdegnata da gran parte degli automobilisti del luogo ma per lui è una preziosa scorciatoia usata per guadagnare tempo perché -il tempo è denaro- è solito ripetere. Ma oggi deve arrendersi all’imprevisto: «A quanto pare non è il mio giorno fortunato» brontola, Andrea, irritato. Tira fuori dalla tasca il telefonino per chiamare il soccorso stradale e, mentre l’apparecchio prende la linea, si guarda intorno.
Andrea Brandi è un uomo arrivato. Ha scalato le vette imprenditoriali operando, spesso, in maniera lecita ma qualche volta anche in modo meno ortodosso e così nel volgere di pochi anni ha accumulato una cospicua fortuna.
Battendo i piedi ghiacciati sul selciato umido per riattivare la circolazione, strabuzza gli occhi. A pochi passi da lui, su un’insegna arrugginita e coperta da piante rampicanti, campeggia la scritta OFFICINA. Riattacca e ringraziando mentalmente la sua buona stella, che sembra tornata ad occuparsi di lui, a veloci falcate raggiunge la costruzione.
Un lampo accecante seguito dal fragore ravvicinato di un tuono lo accompagnano mentre oltrepassa il cancello aperto.
Andrea si volta: «Il muro di cinta, foderato da una rigogliosa barriera di edera ed altri arbusti, ne impedisce la visione dall’esterno» considera. «Ecco perché non l’ho mai notata prima d’ora».
Il piazzale antistante al capannone dell’officina è deserto.
“Meglio così, mi sbrigherò prima” pensa egoisticamente, schivando una grossa lumaca che, trascinandosi dietro la sua casa, transita lentamente davanti ai suoi piedi.
Andrea bussa ripetutamente al portone dell’officina ma nessuno risponde. I vetri del serramento sono bruniti per cui non gli è possibile sbirciare all’interno.
«Il luogo sembra disabitato» nota l’uomo scoraggiato ma prima di rinunciare definitivamente decide di fare un ultimo tentativo. Prova ad aprire l’infisso che al primo sollecito non oppone resistenza e scorre leggero di lato, sui cuscinetti bene oleati: “Ovvio siamo in un’autofficina” esulta.
«C’è qualcuno?» s’informa, poi, facendo capolino all’interno.
Come evocato, un giovane in tuta blu gli si avvicina: «Buongiorno. In cosa posso esserle utile?» domanda, fissando intensamente l’automobilista che, imbarazzato da quello sguardo profondo, come un pozzo di cui non s’intravede la fine, si sente in soggezione.
«La macchina…, la fuori…, il temporale…» inizia a balbettare Andrea, accennando all’esterno del locale con un vago gesto del capo. Poi, dopo aver recuperato l’abituale sicurezza: «Si è fermata improvvisamente e non vuole più ripartire. Non ho nemmeno aperto il cofano tanto non ci capirei nulla di motori» aggiunge allargando le braccia.
L’operaio annuisce e uno strano sorriso gli arriccia le labbra. La sua figura si staglia nella cornice della porta e sembra riempirla tutta.
«Venga» lo invita in tono cordiale.
Andrea varca l’ingresso e un chiarore anemico e fiacco, illumina un ambiente ampio e privo di arredi.
Il pavimento, in cemento grezzo, sembra sia stato pulito qualche attimo prima. Niente macchie di olio o di grasso, niente tavolo da lavoro, niente ponte di sollevamento, niente computer, niente attrezzi. Niente di niente! O meglio, qualcosa c’è… Appesi alle pareti migliaia e migliaia di orologi nessuno uguale ad un altro.
“Orologi del passato, orologi del presente, improbabili orologi, forse, ancora da inventare, che ticchettano all'unisono come cuori pulsanti” considera Andrea esterrefatto. “Orologi che riportano con precisione, tutti, la stessa ora, minuti e secondi: il tempo reale” aggiunge dopo aver dato un’occhiata al Rolex dorato che porta al polso.
Andrea è sempre più perplesso: “Ma dove sono capitato?” si domanda mentre studia di nascosto il meccanico.
Gli sembra un adolescente, anche se i modi sicuri con cui si muove indicano esperienza e maturità. La tuta blu che indossa è immacolata. Anziché un meccanico alle prese con grasso e motori, somiglia ad un chirurgo pronto ad entrare in sala operatoria. E’ molto alto e il suo fisico atletico e snello è curato. Ad ogni movimento, un gradevole e originale profumo si sprigiona dal suo corpo.
“Profumo… di vissuto” pensa l’automobilista.
Il meccanico non è un gran conversatore.
“Meglio. Così non perdiamo tempo in chiacchiere banali. Il tempo è denaro” conclude Andrea con la sua solita tiritera. E per la seconda volta, come se intercettasse i suoi pensieri, il giovane spezza il silenzio: «Andiamo a prendere gli attrezzi» lo invita, precedendolo. Andrea sussulta al tono profondo e cavernoso di quella voce e lo segue mansueto, trotterellandogli dietro.
Il passo del meccanico, nonostante gli scarponi da lavoro, è felpato. “Non fa rumore. Sembra quasi che i suoi piedi non poggino nemmeno sul pavimento” nota l’uomo, colpito.
Dopo qualche minuto, il corridoio, che ad Andrea sembrava lungo solo qualche passo, diventa interminabile.
L’uomo guarda interrogativamente il meccanico che, sorridendo, afferma serafico: «Le distanze sono sempre relative e dipendono dalla fretta e dalla prospettiva dell’occhio che le osserva».
L’automobilista annuisce con poca convinzione.
Finalmente arrivano davanti ad una porta di legno scuro. Sembra molto pesante. Il meccanico rimesta in un tascone della tuta e tira fuori una chiave. La inserisce nella toppa e dopo una serie di mandate la apre e si scosta di lato per lasciarlo entrare.
Le finestre velate da pesanti tendaggi di velluto lasciano filtrare uno stentato chiarore. Quella penombra ovattata e l’odore di muffa che staziona nell’aria rende l’ambiente remoto, distante, antico.
Quando gli occhi del visitatore si abituano alla mancanza di luce, scorgono un disordine indescrivibile.
Sul pavimento sudicio, pieno di orme infangate che si dirigono in ogni direzione, si allungano ombre scure e minacciose. Ci sono mobili vecchi e pieni di tarli, una colonna di libri accatastati a sfidare la forza di gravità, vestiti gettati alla rinfusa, piatti con avanzi di cibo, bicchieri sporchi, spartiti e strumenti musicali, penne, matite, tele e pennelli, gioielli, fiori secchi e polvere. Polvere, ovunque.
Relegata in un angolo, invece, c’è una scrivania stranamente sgombra. Solo al centro, impilati uno sull’altro, con meticolosa accuratezza, ci sono i fogli di un calendario. Andrea si avvicina e li tocca. Soffia via il sedimento lasciato dal fluire del tempo e li scorre. Li solleva ad uno ad uno e li esamina. Sono tutti dello stesso giorno e del medesimo mese ma di anni diversi: 27 novembre… la data della sua nascita. Riconta i fogli freneticamente. “Sono 45! Proprio come i miei anni…” ma non riesce a concludere il pensiero perché il ticchettio di un orologio monopolizza la sua attenzione. Il ritmo è talmente cadenzato e regolare che inizia a pulsargli nelle tempie all’unisono con il flusso sanguigno. Lo cerca con lo sguardo e lo vede. E’ appeso sopra la scrivania.
Andrea lo fissa senza capire. Allo strumento di misurazione del tempo mancano le lancette. È una particolarità che lo sconvolge più di quanto riesca ad ammettere ma le stranezze che gli riserva l’officina non sono ancora terminate.
Su una parete, infatti, appaiono dei vecchi fotogrammi in bianco e nero. La serie di immagini parte lentamente poi inizia a scorrere a velocità vertiginosa e, con raccapriccio, l’uomo si accorge che il protagonista di quel film è lui o meglio i suoi compleanni e gli anniversari mai festeggiati, gli impegni mancati, i genitori che non ricordava fossero già così avanti negli anni, il giorno del divorzio, quello della laurea dei figli a cui aveva dimenticato di partecipare… Tra quelle mura c’è tutto il tempo perso, sacrificato, sprecato nell’ansia di raggiungere obiettivi ritenuti essenziali ma che ora, rivisti da quella strana stanza dell’officina, non sembrano essere più così importanti.
Andrea barcolla come colpito da un pugno allo stomaco. Vorrebbe spegnere il proiettore che, invece, contro la sua volontà, continua a girare all’indietro. In quella stanza buia e ingombra di oggetti è difficoltoso muoversi e, frustrato, deve rinunciare.
«Non esiste un interruttore né una spina da staccare alla propria coscienza» sentenzia il meccanico leggendo i suoi pensieri.
Andrea portandosi le mani a coppa sugli occhi, scrolla la testa e vacilla ma il padrone dell’officina lo sorregge e lo accompagna fuori dalla stanza richiudendosi silenziosamente la porta alle spalle.
Andrea lo guarda per esprimergli la sua gratitudine ma le parole gli si strozzano in gola. Il meccanico che esce insieme a lui da quella stanza non è più il giovane che lo ha accompagnato ma un uomo maturo e distinto dal portamento aristocratico. I capelli brizzolati e il pizzetto di barba gli incorniciano il volto fiero e orgoglioso. La tuta che indossa ora è azzurra.
Un sorriso gli incurva le labbra quando, incurante della meraviglia di Andrea, schioccando le dita gli spalanca un’altra porta. È di metallo lucido e rimanda in modo scomposto, come uno specchio deformante, la sua figura.
Andrea non ha modo di chiedersi perché solo la sua immagine venga riflessa. Resta abbagliato dall’intenso fiotto di luce che, entrando dalla finestra spalancata, illumina tutta la stanza. In quell’ambiente, l’ordine regna sovrano. Solo le tendine turchesi di tessuto quasi impalpabile, svolazzando alla brezza che arriva dall’esterno, lo movimentano. Grossi volumi color arcobaleno fanno mostra di sé su scaffali di metallo bianco.
Andrea, a disagio e quasi accecato dal riverbero, avanza schermandosi gli occhi con le mani, poi inizia a leggere le scritte sul dorso dei volumi. Sogni, desideri, speranze, propositi, sentimenti, programmi…
Il meccanico estrae un volume e lo apre davanti a lui segnalandogli con l’indice un nome: Andrea Brandi. Sgomento, l’interessato, prova a leggere oltre ma la rifrazione della luce sui fogli lucidi gli impedisce di farlo.
Un orologio appeso alla parete di fronte sembra irriderlo. Le sue lancette, infatti, scorrono veloci doppiando le ore in un battito di ciglia…
L’automobilista prende fiato e con esso il coraggio di chiedere lumi alla sua guida.
Questa, ben felice di esaudire il suo desiderio, lo informa: «Nei tomi ci sono i nomi di tutti gli esseri viventi organizzati in rigoroso ordine alfabetico e nessuno, a parte il sottoscritto, può scorrerne il contenuto».
Andrea riflette per un lungo istante, poi con un filo di voce domanda: «Sei la Morte?»
«La Morte è mia sorella» risponde l’interpellato. «Io sono il Tempo» aggiunge in tono pacato. «Sono colui che regola lo scorrere dell’esistenza, che accende le aurore e spegne i tramonti. Il luogo in cui ti trovi è il mio laboratorio: l’Officina del Tempo». Fa una pausa ad effetto, poi riprende: «Negli edifici che hai visitato, registro il presente, conservo il passato e allestisco il futuro. Hai avuto il raro privilegio di conoscere il mio regno e scorrere insieme a me. Ho voluto insegnarti che il tempo non è denaro ma è vita e spero tu abbia compreso il messaggio. Ora torna alla tua quotidianità e fanne buon uso affinché nemmeno un secondo ne vada sprecato. Il tempo perduto ad accumulare denaro e potere è tempo sottratto a me e regalato a mia sorella, ricordalo Andrea! A proposito, fuori troverai la tua auto che ha solo bisogno del pieno. Hai dimenticato di fare benzina…».
L’uomo annuisce.
Visibilmente sollevato si avvicina alla porta ma, prima di uscire, dà un'ultima occhiata al Tempo che, tornato bambino e ignorando la sua presenza, fasciato in una verde tuta di spugna, gioca sereno in un angolo con una clessidra tra le mani.