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- 1 -
Terrazza al Pincio
Dai viali, a fiotti, corre sullo spiazzo
una fragranza amara d’oleandri.
Roma, immensa, s’abbuia a poco a poco,
sfiorata di rintocchi. Non un volto,
né una voce, né un gesto afferro intorno:
solo l’anima tua, solo il mio amore,
sbiancato dalla tua purezza. In breve,
nel cielo smorto di sfrenata attesa,
proromperà un rimescolio di stelle.
E’ bastata la lettura di questa poesia per farmi amare Antonia Pozzi. Sono rimasta fulminata dall’icasticità delle immagini, dalla purezza del testo, dalla cifra stilistica, dal linguaggio limpido in cui l’aggettivazione si palesava col suo peso esatto, né abbondante né scarna, ma in una misura essenziale, funzionale allo spirito di ciò che voleva esprimere la parola. Allora immergermi nella poesia di Antonia, conoscere la sua vicenda umana, che è tragica e allo stesso tempo bellissima, raccogliere e leggere tutto ciò che potevo trovare che la riguardasse è stata un’esigenza, un innamoramento.
Antonia Pozzi sceglie il suicidio a soli ventisei anni, nel dicembre del 1938. Nel corso del tempo, esplorandone la vicenda umana e letteraria, si sono fatte varie ipotesi sulle ragioni di quel tragico evento, ma tutto è rimasto nel dubbio, nell’incertezza circa una causa precisa, se di cause precise si può parlare quando ci si trova davanti ad un’azione così estrema e risolutiva; credo più probabile in casi simili che il darsi la morte rappresenti, per l’anima travagliata, un moto di estrema ribellione, quindi più un gesto per farsi “riconoscere” che un atto di resa alla vita. A ventisei anni Antonia ha compiuto un percorso di esperienze umane e letterarie che potrebbe collocarla fra i più autorevoli poeti del tempo. Cosa che invece non avviene. Il suo entourage, costituito da letterati e filosofi, da poeti ed editori, fra cui, per citarne solo alcuni, Vittorio Sereni, i fratelli Treves, Remo Cantoni, Luciano Anceschi e Antonio Banfi (tra l’altro suo professore di estetica, con il quale presentò la sua tesi di laurea) non seppe, o non volle, riconoscere il valore della sua poesia. Se pensiamo che nel 1929, a soli diciassette anni, scrive:
Il sole
chino sul grembo della montagna
con tensione
grifagna
sembrava un occhio stupefatto d’arancione
cigliato
di raggi a lame vivide
sotto un sopracciglio corrucciato
di nubi livide
possiamo già renderci conto della maturità stilistica che avrebbe in poco tempo raggiunto. Il breve testo, che porta come titolo Tramonto corrucciato, già presenta uno stilema definito: i versi si susseguono in unica stesura a rappresentare il traslato, il sole assume connotazione umana e le rime, consapevolmente distribuite, donano al testo un andamento lirico.
Quando Antonia entra in contatto con l’ambiente universitario è una ragazza timida ma determinata, pronta ad instaurare rapporti di amicizia; fa vita mondana, riunioni, teatro, concerti, ma ama altresì la vita solitaria che vive a Pasturo, a contatto con la montagna; viaggia, compie scalate, fa equitazione, gioca a tennis, ma tutto ciò che appartiene ad una ragazza dell’alta borghesia non la distrae dalla disciplina della scrittura né la aliena dai sentimenti di natura semplice che le fanno apprezzare le cose modeste e genuine della vita. E’ già una donna di grande maturità che però conserva lo stupore dell’ “innocenza”. Il suo curriculum scolastico al liceo è eccellente, benché in una lettera alla nonna lei scriva: “Non credere però che meriti davvero tutti questi bei voti(…)ma i professori sono stati di un’indulgenza e di una generosità scandalose”. Fra questi professori c’è Antonio Maria Cervi, che ricoprirà nella vita della giovane un ruolo determinante, sia nell’ambito della formazione culturale sia nella sfera del privato. L’impatto con il professore Cervi è entusiasmante per la potenza affabulatoria di lui e per un certo aspetto carismatico che invoglia gli studenti ad appassionarsi agli studi umanistici. “So già i voti di questo terzo bimestre (…) 8-7-8 in latino e 7-8 in greco (…) perché il nostro caro professore di greco e latino nonché darci bastantemente da fare, ci spinge poi talmente a studiare per conto nostro e filosofia, ed estetica, e tragedie antiche e mille altre bellissime cose…”. Il contatto con Cervi continua anche dopo l’anno scolastico, quando Antonia si trova a Pasturo nella stagione estiva. “(…) Spessimo ho la gioia di vedermi ricordata dal Professor Cervi, che ha poi la pazienza di chiarirmi per iscritto tutte le difficoltà che incontro nello studio, e che mi manda in dono fino a qui molti bellissimi libri”.
Antonia tiene una fitta corrispondenza sia con i familiari che con gli amici. Quando scrive ai genitori è affettuosa, allegra, sempre pronta a manifestare la sua carica di attaccamento nei loro confronti, lontana da quel vortice di malinconia e talvolta di annichilimento che rivela in missive destinate ad altri. Ma il rapporto privilegiato Antonia l’ha con la nonna, alla quale scrive assiduamente. A lei non nasconde quasi nulla, lei è la vera e unica entità con la quale riesce a rapportarsi totalmente. E a lei parla del “suo” professore come di un’anima “purissima anelante a sempre maggior purezza, destinata purtroppo a inaridirsi sola”; a lei esterna il doloroso rammarico di doverlo perdere perché trasferito in altra sede scolastica: “ Ho imparato che cosa sia il dolore. Tu non immagini che cosa fosse lui per me. Io avevo avuto la fortuna di incontrarlo nell’età inquieta in cui tutto il nostro essere sboccia e anela alla vita, in cui ogni influenza esterna lascia nell’anima una traccia indelebile, in cui ci torturiamo ricercando l’inizio della nostra vita e l’indirizzo del nostro cammino nel mondo”.
Quando scrive queste parole Antonia ha appena 16 anni.
- 2 - Io, bambina sola
Antonia Pozzi nasce a Milano il 12 febbraio 1912. Il padre Roberto, avvocato, proviene da una famiglia modesta ma acculturata, intelligente e ambizioso, perviene ad uno status alto borghese grazie ai suoi studi, alla sua professione e al matrimonio con la nobile Carolina Cavagna Sangiulani di Gualdana, pronipote di Tommaso Grossi. Il nonno paterno di Antonia, Angelo Pozzi, istruttore presso il Collegio Calchi Taeggi, muore suicida nel 1893, lasciando la moglie e tre figli: Ida, dodicenne, Roberto, undicenne, ed Emma, di nove anni, che nel 1905, all’età di diciassette anni, segue la stessa sorte del padre. La nonna paterna, Rosa Pastori, è un’insegnante elementare, autrice di alcuni saggi scolastici. Nell’ambiente milanese degli anni ’20 e ’30 la famiglia Pozzi riveste un ruolo di primo piano. Antonia cresce in un ambiente ricco e raffinato, culturalmente avanzato, viaggia, studia le lingue, frequenta la Scala. Ma la sua adolescenza, seppure vissuta fra affetti solidi, è spesso visitata da una forma di solitudine interiore che però le consente di soffermarsi con sguardo attento e consapevole sugli aspetti della natura e la induce a coltivare sempre di più le sue passioni letterarie. A dispetto della sua estrazione sociale, che la colloca fra le sofisticherie di un ambiente altolocato, ama la spontaneità e la genuinità delle persone di ceto più umile e intreccia amicizie che non guardano alla classe sociale. Per la giovane potrebbero spalancarsi le porte di un matrimonio importante che rafforzerebbe ancora di più la sua posizione nell’ambito della Milano bene. Ed è certamente quello che appagherebbe l’orgoglio del padre, che, pur comprendendo la grande sensibilità della figlia, ne vorrebbe temperare le effusioni, ma che tuttavia non ne ostacola né gli interessi né le amicizie. In Vita di Antonia, che Roberto Pozzi scrisse, in forma anonima, dopo la scomparsa della poetessa, la figlia viene ricordata come “una bambina esile, alta, bionda, con gli occhi azzurri, sensibile e affettuosa, ansiosa di apprendere e con una grande passione per i fiori”. In Antonia si sviluppa precocemente il senso di un’inquietudine che la conduce a riflettere sulle questioni esistenziali, a sperimentare il fascino di un’angoscia di matrice romantica che in seguito sfocerà in alcuni componimenti poetici. A quattordici anni scrive nel suo diario: “Sono appena tornata dalla casa dei miei amici. Abbiamo ragionato a lungo intorno a cose grandi, troppo grandi per noi; e abbiamo detto del principio e della fine del mondo, dell’origine della materia; abbiamo vagato nello spazio costellato di pianeti, abbiamo discusso sulla vita dell’adilà (…)Sempre ripeto a me stessa; sempre…sempre…Mi scuoto con un brivido: sempre! parola terribile, terribile come mai!” E alcuni mesi dopo: “(…) io ho vissuto questa vita intensamente, godendo quasi della mia stessa sofferenza, esultante per la gioia di poter vivere dentro di me, di sentirmi dentro, chiusa come in uno scrigno, un’anima”. Nella giovane Antonia si prefigura già il segno di quella solitudine interiore che né l’amore passionale né l’affetto della famiglia e degli amici riusciranno mai a colmare.
Quei due
davanti agli scogli
a sbaciucchiarsi
e la barca a lasciarli fare
coi remi abbandonati lungo i fianchi
come braccia penzoloni.
Io a fissare
nel mio secchio arrugginito
i granchiolini
e le stelle di mare.
Ma non lontano
i rintocchi decisi delle campane
a ripercuotersi sull’azzurro
in triangoli bianchi di vele
che m’accennano
l’alto
Granchiolini e stelle di mare, cose, compagne di un’anima sola che vede vivere gli altri e che sente di essere chiamata all’ alto respiro della vita interiore.
- 3 - Una cosa di nessuno
Il trasferimento di Antonio Maria Cervi a Roma, vissuto da Antonia, sua attenta discepola e già di lui innamorata, come una sorta di calamità, non interrompe i loro rapporti. Inizia fra loro una fitta corrispondenza della quale purtroppo sono rimaste soltanto le lettere della poetessa al professore; di quelle di lui alla giovane non è rimasta traccia. Pare che alla morte di Antonia il padre abbia cercato di cancellare i segni di tutto ciò che a suo parere avrebbe potuto nuocere alla memoria della figlia e in modo particolare quelli che riguardavano la sua vicenda sentimentale, da lui ritenuta inammissibile al punto da rifiutare il suo consenso ad un eventuale matrimonio. Le ragioni di questa posizione dell’avvocato Pozzi rimangono nell’ambito delle ipotesi, seppure, verosimilmente, sia possibile rintracciarle sia nella sua ambizione sociale (ricordiamo che Cervi apparteneva ad una famiglia piccolo borghese), sia nei diciotto anni di differenza che intercorrevano fra i due innamorati. Antonia è ancora un’adolescente, ma la sua formazione umana e culturale si è già delineata; la giovane donna avverte un’ansia di vita che la porta a sublimare i suoi sentimenti nei confronti del professore. Inizialmente il rapporto è di carattere intellettuale ma poco per volta si tramuta in qualcosa di più impegnativo. Cervi tende a mantenere la loro conoscenza nell’ambito di uno scambio ricco di valori intellettuali e spirituali, ma col tempo anch’egli finisce per nutrire gli stessi sentimenti della ragazza. Le due biografie della Pozzi, una scritta da Alessandra Cenni, l’altra da Graziella Bernabò, non chiariscono del tutto la vera natura della relazione Pozzi-Cervi: la Cenni lascia intendere che essa fu vissuta anche sessualmente, mentre la Bernabò la colloca piuttosto nella sfera di una passione che non si è del tutto realizzata. Ma il valore assoluto di questo rapporto d’amore sta tutto nella poesia che seppe suscitare in Antonia e che si tradusse nei suoi testi più belli, ancorché ancorati ad una sorta di inestinguibile desiderio d’amore mai del tutto compiuto e grevi di un senso di amarezza e di solitudine.
(…) e fuggiremo. Con la piena forza
della carne e del cuore, fuggiremo:
lungi da questo velenoso mondo
che mi attira e respinge. E tu sarai,
nella pineta, a sera, l’ombra china
che custodisce. Ed io per te soltanto,
sopra la dolce strada senza meta,
un’anima aggrappata al proprio amore.
L’espressione poetica, formalmente compiuta nell’endecasillabo, si apre al desiderio di accompagnarsi ad un’anima sorella “in carne e cuore” e denuncia l’incontenibile bisogno di sentirsi protetta. “Aggrappata al proprio amore”, non esiste altra volontà che vivere di questo sentimento. I tratti semantici sono totalizzanti: fuga, forza, carne, anima, sostenuti dalla scelta dei verbi e dalla scarsa e puntuale aggettivazione. Antonia si consegna al suo sentimento, nella cui risoluzione positiva spera e crede. Il suo “sogno” più grande è dare un figlio a Cervi.
Domandavo a occhi chiusi
- che cosa
sarà domani la Pupa?-
Così ti facevo ridire
in un sorriso le dolci parole
-la sposa,
la mamma-
Fiaba
del tempo d’amore-
profondo sorso- vita
compiuta-
gioia ferma nel cuore
come un coltello nel pane.
Antonia, la giovane donna alla quale si aprono le porte della migliore società milanese, l’allieva del filosofo Antonio Banfi, la studiosa di letterature straniere che può aspirare al più radioso futuro, non ama che le piccole cose, le più genuine, la vita semplice di sposa e di madre, la gioia che si pianta nel cuore “come un coltello nel pane”. Il coltello, simbolo di valenza negativa, assume valore positivo nella consustanzialità col pane, simbolo di sopravvivenza e di vita.
Ma la “vita sognata” è breve, sopraggiunge l’incertezza, l’ostilità della famiglia, le piccole incomprensioni. Cervi, che si è deciso a presentarsi al padre di Antonia, riceve un netto rifiuto. Ferito nell’orgoglio, il professore rinuncia. La loro storia continua a distanza, confortata da rari incontri segreti, ma col contrappunto di qualche incomprensione. Cervi nutre sentimenti di profonda fede confessionale e vorrebbe che Antonia li condividesse. Ma la ragazza, che non ha forti convinzioni religiose, non sente il bisogno di Dio, perlomeno non come lo intende Antonio. La sua moralità e la sua dimensione spirituale risiedono nella sua propria natura. Così scrive a Cervi: “Io non credo a quello che credi tu, lo sai. E una volta questa disparità mi pareva un abisso terribile. Ma ora non più (…) Tutti i miei pensieri sono tranquilli. E sono certa della mia vita senza pensare a Dio (…) Io non cerco Dio perché non sento il bisogno di cercarlo; perciò credo che la mia vita può essere moralissima anche se io faccio le cose per se stesse e non perché Dio lo vuole. (…) Un giorno, se il dolore mi vorrà far pregare, sentirò anch’io il bisogno di Dio e forse lo cercherò. (…) Davanti al pensiero di una nostra creatura, io mi sento serena. Io saprò insegnarle col più grande amore, col più grande fervore, tutto ciò che tu vorrai che la tua creatura sappia. Quando sarà grande, sceglierà lei la sua strada. Perché io credo e l’ho provato su di me che è più grave impaccio al pensiero il non aver niente dietro di sé che l’avere una fede”.
Ma in seguito, in altre lettere e in alcune poesie, Antonia manifesta la volontà di una ricerca verso il Divino; la sua spiritualità emerge dalla sua poesia, la sua ricerca è nell’inquietudine di una vita che vorrebbe consegnarsi ad un percorso esistenziale nel quale trovino accoglienza i valori dei sentimenti più genuini e le esigenze primarie della vita: la passione amorosa, l’amicizia, la solidarietà umana, la maternità. Nel momento in cui Cervi e la Pozzi rinunciano definitivamente al loro legame, l’eventualità di una maternità viene meno per sempre. “Come potrei io, Antonello, rinunciare alla tua creatura e non morire disperata se non pensassi che la soave ignota immagine del nostro unico bimbo non nato è il legame invisibile e indistruttibile che ci unisce in eterno, quello che di noi più vale e più dura al cospetto di Dio?”
Il distacco da Cervi genera nella poetessa un senso di estraniazione che l’attira sempre più verso una solitudine irrimediabile. La sua natura portata ad effondersi nell’affettività ne viene castrata, fra il desiderio di abbandonarsi all’amore fino alla rottura con la famiglia e il dovere morale di obbedirle, vince il senso dell’autocontrollo, la rinuncia, ma vissuta a patto di dividerla con l’uomo amato. La sua volontà perde ogni valore:
O lasciate lasciate che io sia
una cosa di nessuno
per queste vecchie strade
in cui la sera affonda-
O lasciate lasciate ch’io mi perda
ombra nell’ombra-
gli occhi
due coppe alzate
verso l’ultima luce-
(…)
Poi ch’io sono una cosa-
una cosa di nessuno
che va per le vecchie vie del suo mondo-
gli occhi
due coppe alzate
verso l’ultima luce-
- 4 - Maternita’
E’ la maternità negata che si addensa in un grumo sanguinante e che, col tempo, maturerà nella poetessa quella che, infine, può considerarsi la sua dichiarazione di poetica. Riflettendo sul Tonio Kroger così scrive, fra l’altro, in una lunga pagina del suo diario: “Non vivere e non creare sarebbe da impotenti, da minorati. La nostra vita deve essere la creazione. Ci vuole un seguito a T. K. O perlomeno bisognerebbe vederne l’altra faccia: la rivincita sulla vita. (…) La rivincita ottenuta col lavoro preciso, assiduo, vivificatore: con l’arte che dell’oggetto che fu vivo e che dovette morire rifà una cosa vivente.”
La creatura che Antonia non partorirà mai vive nella sua parola poetica, sublimata dalla sua creatività artistica. La “vita sognata”, alla quale la poetessa aveva consegnato la sua giovinezza e che “dovette morire”, ritorna “cosa viva” grazie all’arte: è questa la rivincita dell’artista, la sua immortalità.
(…)
Oh bimbo, bimbo mio non nato,
la tua mamma non sa
che viso avrai,
ma la tua manina la sente
per ogni sua vena
leggera
come un piccolo fiore senza peso.
(…)
Bambino, quando saremo giunti
alla nostra casa,
dopo tanto salire,
io ti solleverò da terra,
ti metterò nelle braccia
di chi è lassù ad aspettare,
gli dirò: Vedi,
vedi che cosa ti ho portato?
E l’anima,
donato il suo ultimo dono,
resterà nuda e povera
come la spiga vuota.
(…)
In questa lunga poesia, di cui il brano citato è solo una parte, viene raccontato il percorso della creatura che non è nata, metaforizzato dal senso “biblico” dell’offerta: la madre prende per mano il bimbo e con lui si avvia per “una lunga strada” in cima alla quale si trova un giardino, oltre il giardino, la casa. Qui la madre metterà il figlio nelle braccia di Colui che aspetta e, offrendo il dono estremo, morirà ella stessa come la spiga che ha dato il suo frutto. Maternità e morte sono elementi contigui: non sa forse la donna che, nello stesso momento in cui mette al mondo la propria creatura, la consegna all’oscurità finale? E la rinuncia, volontaria o indotta, della maternità non è forse una forma di morte “morale” della donna, che non lascia traccia di sé sulla terra?
Il distacco definitivo da Cervi è per Antonia l’addio al sogno di maternità. Ma il bimbo mai nato è un rimpianto che sopravvive e che si innesta nella creatività artistica: la parola poetica, nella sua valenza di “creazione”, svolge un ruolo in qualche modo sostitutivo, sia nei momenti in cui fluisce in forma costituita, sia nelle pause di silenzio. Alla poesia Antonia dà connotazione fisica, ad essa si rivolge perché assuma funzione di potenza salvifica.
(…)
Poesia, poesia che rimani
il mio profondo rimorso,
oh aiutami tu a ritrovare
il mio alto paese abbandonato-
Poesia che ti doni soltanto
a chi con occhi di pianto
si cerca-
oh rifammi tu degna di te,
poesia che mi guardi.
- 5 - L’imperdonabile
Nell’anno accademico 1930-’31 Antonia Pozzi si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia, all’indirizzo di Filologia Moderna, presso la Regia Università di Milano, dove si apprestavano a laurearsi due delle sue più care amiche: Lucia Bozzi ed Elvira Gandini. Assieme a loro Antonia segue le lezioni di estetica di Giuseppe Antonio Borgese. Ma sull’ateneo milanese pesa già il condizionamento fascista e il Borgese, inviso al regime, alla fine abbandona l’Università Statale e va ad insegnare negli Stati Uniti. Gli subentra, prima come supplente poi con regolare incarico, Antonio Banfi, attorno al quale si condensa una grande parte di quelli che in seguito saranno i maggiori intellettuali e artisti italiani: Enzo Paci, Remo Cantoni, Luciano Anceschi, Vittorio Sereni, Guido Morselli, Daria Menicanti, solo per citarne alcuni. Antonia Pozzi segue affascinata le lezioni di Banfi, con il quale preparerà la tesi di laurea, ed entra in contatto con gli altri giovani discepoli, alcuni dei quali si inseriranno nella sua vita con un peso rilevante. Intanto la sua storia con Cervi vive la fase più cruciale. Nell’estate del 1930 Roberto Pozzi organizza per la figlia un viaggio di studi in Inghilterra, verosimilmente per allontanarla dall’uomo di cui è innamorata. Cervi la raggiunge a Londra ma ormai il loro rapporto è consumato dai contrasti, dalle difficoltà, dall’ostilità della famiglia Pozzi e soprattutto dalle incomprensioni che si instaurano fra i due innamorati. Cervi si è rassegnato alla rinuncia, Antonia vorrebbe che lui tornasse ad insistere col padre per sposarla. Fra i due l’ombra del bambino desiderato e il ricordo del fratello di Cervi, il poeta Annunzio Cervi, morto durante la prima guerra mondiale, finiscono per identificarsi: nella volontà di Antonia questo figlio dovrebbe in un certo senso risarcire il suo Antonio di quella inconsolabile perdita. L’impossibilità di realizzare questo sogno assume toni a volte drammatici nella poesia pozziana, fino a rilevare quanto il bisogno di “generare” fosse assolutamente imprescindibile per la poetessa. In un contesto storico-sociale che attribuiva valore assoluto al matrimonio e alla maternità, la creazione artistica restava per la donna, anche la più emancipata, su uno scalino inferiore e di certo non venne attestata ad Antonia Pozzi, che in vita non ebbe riconosciuto il suo talento.
In questo stato di abbandono morale la poesia di Antonia prende un tono angoscioso, le scelte lessicali fanno riferimento ad aree semantiche di oscurità, di chiusura, di sconfitta, ma contestualmente rivelano una maggiore ricerca sia sotto l’aspetto emozionale che sotto quello formale. I contenuti si formalizzano attraverso l’uso dei correlativi oggettivi, delle assimilazioni, delle metafore, la Pozzi attua il costrutto, già espresso nei suoi diari, di far rivivere la vita negata attraverso l’arte.
Nuda come uno sterpo
nella piana notturna
con occhi di folle scavi l’ombra
per contare gli agguati.
Come un colchico lungo
con la tua corolla violacea di spettri
tremi
sotto il peso nero dei cieli.
Svuotata e inaridita Antonia interloquisce con una se stessa divenuta estranea alla quale si rivolge usando i lemmi di un campo semantico riferito all’oscurità e alla morte. La natura che descrive è la metafora del suo stato d’animo chiuso ad ogni speranza, una condizione che la impaura per gli “agguati” di cui è oggetto.
Rassegnata a chiudere per sempre il capitolo Cervi, Antonia Pozzi si rivolge con maggiore impegno allo studio e alla scrittura. Fra gli studenti che frequenta stringe rapporti di personale amicizia con Vittorio Sereni, Enzo Paci e Remo Cantoni, verso il quale, ad un certo punto, comincia a nutrire sentimenti d’amore. Lo ospita nella casa di Pasturo per una convalescenza e sente di potere sperare in un futuro con lui. Ma Cantoni, pur legato alla giovane da affetto e stima, non riesce a ricambiare i suoi sentimenti. La incoraggia invece a far leggere le sue poesie al professore Banfi. Antonia è un’anima tormentata, la sua sensibilità la porta a vivere tensioni estreme, subisce l’influenza dell’ambiente intellettuale che frequenta e che non comprende a fondo la sua natura di artista. La sua timidezza e la scarsa fiducia in se stessa la tengono sempre un passo indietro nei confronti del milieu in cui è inserita. Quando si decide a fare leggere le sue poesie a Banfi ne riceve un tiepido riscontro e il consiglio di frenare la sua vena poetica. D’altra parte anche Enzo Paci le aveva suggerito di “scrivere meno”, ciò che aveva generato in lei la convinzione del poco valore dei suoi scritti. Nessuno degli amici intellettuali sa comprendere la grande ricchezza creativa di Antonia, né durante la sua vita né dopo. In un’antologia del 1952 dedicata alla Linea Lombarda, Luciano Anceschi cita soltanto otto versi “della inquieta e gentile Antonia” senza aggiungere neanche il cognome.
Antonia Pozzi appartiene alla categoria delle “imperdonabili”. L’ambiente intellettuale ha poca considerazione del suo talento, ritenendo la sua arte una messe di sentimenti intimi assolutizzata dalla sua profonda sensibilità, e la famiglia, soprattutto nella persona del padre, pur concedendole un’emancipazione formale, le nega il diritto di concretizzare la sua autonomia attraverso scelte precise. In una società dominata dal modello intellettuale maschile propinato dal regime, ad Antonia non viene perdonato di essere la donna e l’artista che è.
- 6 - Secondo amore
(…)
Oh grazia - ora dico -
Del secondo amore,
giovinezza profonda intessuta
di vinte vecchiezze, di esistenze percorse…
Fra gli amici che frequenta Antonia, Remo Cantoni, bello, affascinante e geniale, è quello che riaccende in lei la tensione d’amore. Con lui, che vorrebbe fare di lei “una vera donna”, come Antonia confida in una lettera all’amico Vittorio Sereni, la giovane dimentica le passate amarezze, le lacrime e il dolore della vecchia passione per Cervi. Questo è il periodo in cui la sua poesia si avvia ad esiti più compiuti, la parola non è più soltanto il risultato delle sue tensioni emotive ma si va iscrivendo nell’asse di una creazione più meditata che si risolverà in breve nell’assunzione della simbologia e della metafora entro le quali riversare le emozioni interiori. Remo è gradito alla famiglia Pozzi che nell’estate del ’35, convalescente per una affezione polmonare, lo ospita a Pasturo. La relazione fra i due giovani si consuma in modo squilibrato: al sentimento totalizzante di Antonia si contrappone la frivolezza di Remo che, più semplicemente, vive un coinvolgimento sensuale. Guarito, egli torna alla sua vita di studio e di mondanità, mentre Antonia avverte in misura maggiore il senso dell’esilio da un sentimento che sembra destinato a non appartenerle mai. Scrive all’amico Vittorio: “ (…) Quanti spaventosi abissi fra Remo e me. Di gusti, di sensibilità; di moralità soprattutto. (…) la mia assoluta inadeguetazza alla vita pratica, il frantumarsi di tutta la mia unità di vita quando mi si porti fuori dall’atmosfera irreale in cui m’ha cresciuta la solitudine (…) ma io credo che una donna vera non sarò mai, che anzi, cercando malamente di esserlo, finirei col perdere la parte più vera e meno banale di me.”
La frequentazione col gruppo banfiano e la preparazione della tesi sull’apprendistato letterario di Flaubert impegnano Antonia anche sul fronte della filosofia e del rapporto fra vita e arte, ma influiscono negativamente sulla sua personalità di poeta che in quel momento sente svalutata dagli amici. Antonia si confronta con un universo intellettuale tutto al maschile che non riesce ad entrare nella sua poetica per la concezione di intimismo che presenta e della quale non coglie la novità rispetto alla poesia coeva, orientata sulle ragioni dell’ermetismo. I testi degli anni ‘35-36 presentano partiture più distese, raccontano visioni e sentimenti alleggeriti dal nero peso della negatività; la natura vive attraverso pacate immagini accompagnate spesso da aggettivi riferiti alla scala cromatica: il bianco, il viola, il biondo, il nero, colori associati ad elementi lessicali di vario genere, talvolta in accostamenti antitetici. L’ossimoro di cui fa uso la Pozzi non è mai mera figura retorica ma assume un suo preciso significato che affonda nell’intima contraddizione che vive la sua anima (ai crateri della luce promessa; temere e chiamare la morte; nel mio turchino nero; con ridenti dolori; con laceri pesi di gioia).
Antonia vive i suoi privilegi sociali quasi vergognandosene, desiderando, più che gli agi, una serenità interiore fatta di semplici valori quotidiani: una vita di sposa e di madre che dia luce alla sua anima travagliata. Ma non è il rapporto con Remo Cantoni che può darglieli, egli nutre per l’amica stima e amicizia ed è su questo piano che si stabilizza la loro intesa. Intanto Antonia si avvicina ad un altro amico, di cui non solo apprezza la portata intellettuale ma anche la determinazione e il coraggio nel cercare di affermare il proprio valore. Dino Formaggio proviene da una famiglia di operai, egli stesso lavora per mantenersi agli studi, con lui Antonia rafforza la sua vocazione verso gli ideali di una vita essenziale; con lui si occupa dei diseredati, visita dormitori e periferie, scopre gli angoli più miseri della città. Nascono i suoi testi che affrontano il tema sociale: Periferia, Via dei Cinquecento, Servire, Periferia in aprile. Antonia questa volta è decisa anche a rompere con la sua famiglia, che certo non approva la sua scelta e che ritiene il giovane Dino un “socialista sovversivo”; litiga col padre, si reclude per giorni nella sua stanza, decisa a perseguire nella sua decisione. I suoi genitori la sorvegliano: già una volta, al tempo della sua storia col professore, aveva tentato di uccidersi. Alla fine si rassegnano: in fondo Dino è un giovane d’ingegno e avrà sicuramente un futuro brillante, Roberto Pozzi pensa a se stesso giovane, al suo matrimonio di prestigio, anche lui è venuto su dal nulla. Ma anche questa volta il rapporto si interrompe: Dino Formaggio, che in seguito diventerà uno studioso di fama, non è disposto a farsi accettare nella condizione di chi “appende il cappello”. O più probabilmente non ricambia il sentimento assoluto di Antonia.
- 6 - La morte bionda
(…)
- Piccola…bella…- e ogni cosa
che dentro un velo di nebbia dorme,
ogni cosa che in voce
di chiuso pianto parla,
ogni cosa che sa
d’essere per morire
era fra noi
con la sua triste
biondezza…
Nel giugno del 1938 Antonia subisce un’operazione di appendicite che la lascia fisicamente indebolita, ma nello stesso tempo determinata a portare a termine un progetto di romanzo che racconti la storia della famiglia della nonna Nena. Ne parla agli amici con grande entusiasmo, si propone di dedicarsi a molte ricerche, sia nelle emeroteche, dove potrà consultare i giornali dell’ultima tranche dell’Ottocento, sia presso la nonna, dalla quale ricaverà tutte le notizie relative agli avi materni. Il 2 luglio le scrive: “(…) Capisci quello che vorrei fare? Un grande romanzo, capisci? La storia della nostra pianura lombarda, e della vita lombarda dal ’70 in poi: e te, la donna lombarda per eccellenza.”
Maria Gramignola, affettuosamente soprannominata Nena, è la matriarca che custodisce la genealogia delle donne che discendono da Tommaso Grossi. Elisa Grossi, figlia dello scrittore, sposa Giovanni Gramignola ma è un matrimonio infelice. Elisa è una donna colta, frequenta il salotto della contessa Maffei, sostiene la causa garibaldina e si concede qualche amante. Maria nasce l’8 settembre 1860 e già nel ’66 il matrimonio dei genitori si è concluso. Il padre porta con sé Maria che cresce in collegio e sposa giovanissima il tenente Corsi d’Arezzo. Rimasta vedova, si risposa con il conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdano, dall’unione nascono quattro figlie: Lina, Luisa, Antonia e Giuseppina. Lina sposa Roberto Pozzi nel 1911, un anno dopo nasce la loro unica figlia.
Antonia Pozzi, forse per la suggestione scaturita dai consigli degli amici intellettuali che la invogliano a scrivere in prosa, dimostra in quel periodo un grande entusiasmo per questo progetto di romanzo e chiede alla nonna di farle un elenco di nomi, date e luoghi sì da poter ricostruire la storia della sua famiglia e rappresentarla come modello di vita dell’alta borghesia lombarda, ne stende addirittura un primo abbozzo. Intanto dopo la laurea ottiene di insegnare all’Istituto Schiaparelli. E’ l’anno in cui vengono approvate le leggi razziali: i fratelli Treves con la madre Olga riparano all’estero, Remo Cantoni, ebreo di madre tedesca, vive nascondendosi, le amicizie femminili di Antonia si disperdono ciascuna inseguendo i propri progetti di vita. Ritorna il senso di solitudine, i suoi giovani studenti che all’inizio le avevano dato tanto entusiasmo non le bastano più. Antonia per due volte avverte davanti a lei la presenza di un angelo, una visione di cui parla nei suoi diari. “Ieri sera un angelo mi ha preso per mano. (…) Sono caduta in ginocchio, davanti alla finestra aperta, senza respirare (…) Poi, giù: tre volte ho baciato la terra (…) Dopo- mi sono alzata come da un sonno di anni, leggera come una donna che ha partorito.” E il giorno dopo: “Questa storia dell’angelo è strana, ma è vera. Io non so come sia fatto, ma già due volte ho avuto la sensazione fisica di averlo vicino. (…) Forse tutti quelli che hanno sofferto e sono un po’ deboli e malati, a un certo punto cominciano a sentire gli angeli. Se no, perché avrei baciato per terra l’altra sera?” Questo “sentire gli angeli” nella sofferenza può presentare una lettura polivalente: il desiderio di una presenza salvifica e nello stesso tempo l’annuncio di una tregua al travaglio dell’anima, ma anche il ricongiungersi con quella creatura immaginata e mai nata. Già nella poesia Lamentazione Antonia invoca la presenza divina con una sorta di rabbia per l’ingiustizia di cui non si sente risarcita:
Che cosa mi hai dato
Signore
in cambio
di quel che ti ho offerto?
(…)
Che cosa hai fatto tu
se non legarmi
a questo altare
come ad una eterna
tortura?-
Ed io ti ho dato
la mia creatura
unica
La mia ansia materna
inappagata
(…)
E tu
che cosa mi hai dato
in cambio
della mia dolce casa
immacolata?
Il 2 dicembre del 1938 Antonia Pozzi, dicendo di sentirsi male, esce da scuola e si reca presso l’abbazia di Chiaravalle. Dopo aver ingoiato una dose di barbiturici, si stende sul prato vicino alla Certosa aspettando la morte. Viene ritrovata dopo molte ore e trasportata in ospedale. L’amica Lucia Bozzi, alla quale i genitori si erano rivolti dopo aver saputo che Antonia non era più tornata a scuola, colta da un presentimento, si reca al Policlinico dove la trova in coma. Riescono a portarla a casa, ma la sera del giorno dopo Antonia se ne va “a cuore scalzo / e con laceri pesi / di gioia”. Nella sua borsetta un messaggio di addio per Vittorio Sereni ed uno per i genitori.
Nel necrologio, “la irreparabile perdita della loro diletta Dott.ssa Antonia Pozzi”, infiocchettata di titoli nobiliari e accademici, viene comunicata dai genitori come “morte per serissima malattia”. Roberto Pozzi distrugge il breve Testamento lasciato dalla figlia per ricostruirlo in seguito a memoria. La poetessa scrive fra l’altro: “(…) voi dovete pensare che questo è il meglio. (…) Ho tanto sofferto (…) Ciò che mi è mancato è stato un affetto fermo, costante, fedele che diventasse lo scopo e riempisse tutta la mia vita.”. Antonia viene sepolta a Pasturo, come ha lasciato scritto; sulla sua tomba viene eretta la statua di un Cristo dal volto angelico e la famiglia commissiona per la chiesetta parrocchiale due affreschi nei quali si riconosce l’immagine di Antonia. In seguito il padre farà costruire una scuola a lei intitolata.
Delle sue carte, poesie, diari, lettere viene fatto scempio: il padre censura molto di ciò che trova scritto, forse per un malinteso senso di pudore, forse per salvaguardare agli occhi della società cui appartiene l’immagine di quella figlia che voleva vivere una vita diversa da quella programmata per lei, cancella versi, elimina dediche. E malgrado ciò si deve a lui se la poesia di Antonia è conosciuta: nel 1939 Roberto Pozzi raccoglie alcuni testi, li fa pubblicare in forma privata e diffonde il libro presso amici, poeti e critici; da tutti riceve segni di apprezzamento, gli risponde anche Thomas Stearn Eliot. La poesia di Antonia, dopo l’oscurità a cui era stata consegnata finché lei visse, ha finalmente un posto nella letteratura italiana del Novecento. La “morte bionda”, cantata nel 1933 come un addio precoce e dolcissimo, un addio alla “vita sognata” con Antonio Maria Cervi, restituisce al mondo tutta la ricchezza della sua anima e tutta la sua forza d’artista.
- 7 - Piccola ombra in riva alla luce
Nella sua vita, prodiga di grandi risorse sia sul piano materiale che su quello spirituale e intellettuale, Antonia Pozzi non prese mai coscienza delle sue doti di donna e di artista, persistendo invece in una forma di sfiducia in se stessa che verosimilmente le precluse ogni risoluzione definitiva dei suoi desideri più intimi. Leggendo le sue poesie, i suoi diari, le sue lettere, se ne ricava una sensazione quasi di rabbia per il suo mettersi spesso “in riva alla luce”. In questo senso è paradigmatica la poesia Sorelle, a voi non dispiace…Scritto per le amiche Lucia Bozzi ed Elvira Gandini, il testo è un delicato offrirsi in punta di piedi all’amicizia. La poetessa chiede di accompagnarsi alle amiche per le “strade buie del mondo”, ascoltandone in silenzio le anime, come una piccola stella “cieca” che segue due altre stelle, più luminose, e da esse impara il cammino. E’ una metafora che svela come Antonia abbia sempre sfiorato la luce senza riuscire mai ad esserne illuminata pienamente. La poesia della Pozzi parte sempre da dati reali, la natura, la montagna, le persone, gli affetti, ma si rivela nella sua essenza attraverso le assimilazioni e le metafore, le immagini e i traslati, sì che il dettato, pur nella narrazione di emozioni del tutto personali, non scade mai nel contingente. Forse è stato proprio il suo esporsi senza veli ipocriti, il suo generoso riversare nella poesia tutto ciò che il suo animo sentiva, a dare agli altri l’impressione di una donna dotata intellettualmente ma “disordinata”, come le rimproverava l’amico Remo che la spronava ad esercitare l’ordine come “un muscolo”. E’ certo che dopo le prime pubbliche testimonianze di stima succedutesi alla sua morte, il silenzio riavvolse l’opera della poetessa e passarono parecchi anni prima che la sua poesia riecheggiasse nel mondo delle lettere. Ma da quel momento fu quello che doveva essere: una poesia che travalica il tempo e le mode.
Antonio Maria Cervi morì nel 1966, senza essersi mai formato una famiglia; non dimenticò mai la sua allieva né l’amore che li aveva uniti; non mancò mai di andare a trovare “l’Antonia” e di lasciare dei fiori sulla sua tomba. Il 3 dicembre del 1965 Cervi si recò per l’ultima volta a Pasturo e lasciò sulla tomba di Antonia un biglietto con dei versi del poeta Meleagro: “Ma io ti supplico in ginocchio, o Terra che tutto nutri, lei, che è tutta un pianto, dolcemente nel tuo seno, o madre, avvolgi, nascondendola.” In quello stesso anno aveva consegnato, piangendo, ad Elvira Gandini una busta con le fotografie di Antonia bambina, che lei gli aveva a suo tempo donate. Di questo dono Antonia parla nella poesia Inizio della morte, che fa parte di una breve silloge dal titolo La vita sognata, dedicata appunto ad Antonio Maria Cervi:
Quando ti diedi
le mie immagini di bimba
mi fosti grato:dicevi che era
come se io volessi
ricominciare la vita
per donartela intera.
Ora nessuno più
trae dall’ombra
la piccola lieve
persona che fu
in una breve
alba - la Pupa bambina:
ora nessuno si china
alla sponda
della mia culla obliata -
Anima -
e tu sei entrata
sulla strada del morire.
L’anima è spesso citata-invocata nella poesia pozziana e ciò ci induce a riflettere su quanto fosse importante per l’autrice la dimensione spirituale, che nella sua concezione non è solo desiderio di una fede religiosa ma realtà precisa che oltrepassa ogni apparenza e porta via le maschere del vivere sociale. Anima è il suo pensiero, la sua incapacità di adattarsi alle disillusioni, la sua forza di ricominciare, la sua “resa senza scampo”.
A cura di Anna Maria Bonfiglio
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