« Non temere la sacralità’ e i sentimenti, di cui il laicismo consumistico ha privato gli uomini trasformandoli in bruti e stupidi automi adoratori di feticci.››
(Lettere Luterane, 1975)
De mortuis nihil nisi bonum (Dei morti non si può dire niente se non bene). Uno degli autori a cui questa massima latina di Diogene Laerzio è maggiormente adeguata è certamente Pier Paolo Pasolini. Quest’anno si celebreranno i trentacinque anni dal suo orribile omicidio e molte saranno le celebrazioni e le manifestazioni per commemorarlo. Peccato che tutto ciò non sia stato fatto in vita dove Pier Paolo Pasolini, da destra così come da sinistra, fu violentemente attaccato. Un attacco che oggi, molto semplicisticamente, si afferma derivare dalla sua omosessualità. Le cose stanno invece in un modo abbastanza diverso. Certamente un’omosessualità dichiarata come quella di Pasolini nell’Italia degli anni ‘60 costituì uno schiaffo morale a quell’ambiente moralista, bacchettone e sostanzialmente piccolo-borghese (anche, se non soprattutto, negli stessi ambienti comunisti). L’eresia, la vera eresia pasoliniana, è però fondata su ben altro. Un messaggio su cui oggi bisogna riflettere.
Dati gli evidenti limiti di spazio non sarà possibile qui analizzare tutta l’opera letteraria, cinematografica e saggistica di Pasolini (anche se ci auguriamo che questo modesto articolo possa contribuire a chi ancora non lo conosce di approfondirlo, e dato il momento di abulia culturale ed intellettuale in cui ci troviamo a vivere non sarebbe purtroppo una sorpresa), ma cercare di individuare alcune chiavi interpretative con cui Pasolini intese leggere la realtà.
C’è da dire innanzitutto che Pasolini fu, probabilmente insieme al suo amico Alberto Moravia e a Cesare Pavese, l’ultimo intellettuale italiano degno di questo nome in un Paese culturalmente emarginato e provinciale come il nostro. Con la parola intellettuale non vogliamo ovviamente riferirci esclusivamente all’erudito o solo all’artista(che pure Pasolini fu), ma soprattutto a colui che senza voler fare dell’arte di propaganda, fu un lucido critico del mondo e della società in cui viveva. L’abissale differenza con gli attuali narcisisti che si autodefiniscono “intellettuali” mi pare evidente agli occhi di tutti senza dover aggiungere qualcosa.
Pasolini non fu infatti, come tanti intellettuali di ieri e di oggi, un uomo di “partito”. Pur essendo, a suo modo, un marxista egli non mancò di attaccare duramente il partito comunista per un certo inaccettabile dogmatismo, così come la Democrazia Cristiana in quanto immagine della prostituzione politica, la Chiesa e i cattolici per la loro ambiguità, gli stessi contestatori del tempo in quanto avrebbero di fatto favorito l’abolizione di un vecchio sistema tradizionale con il dominio del neo-capitalismo.
Che Pasolini sia stato elemento scomodo e mal digerito da parte della cultura comunista italiana è dato dai numerosi attacchi che egli ricevette, in gran parte dei casi anche in malafede. Esempio tipico fu quello di Alberto Asor Rosa che nel famoso saggio “Scrittori e popolo” accusò Pasolini di populismo: « Dietro l’ideologia del populismo si profila la presenza di una cultura, che si fa garante e in un certo senso testimone oggettiva, storica della visione pasoliniana di popolo. Si fanno i nomi di Croce e Gobetti, quasi a testimoniare la comparsa di una dimensione morale; si fa, soprattutto, il nome di Gramsci, e dietro o in Gramsci s’individua la funzione attiva, rivoluzionaria, di un’ideologia marxista ». In questo giudizio lapidario convive un’opinione comune da parte dell’ufficialità comunista dell’epoca a proposito di Pasolini. Un etichetta semplicistica con cui si intendeva attaccare il pensiero e l’opera di Pasolini perché egli avrebbe attaccato il progressismo della sinistra italiana, il suo laicismo dogmatico e la sua mancanza di una prospettiva comunitaria. Più che difendere Pasolini, che certo non ne ha alcun bisogno, mi sembrano queste affermazioni sintomatiche delle pastoie in cui la cultura comunista si era impantanata e da cui ancora oggi fatica a liberarsi.
Celebrando infatti l’antico mondo contadino Pasolini, più che esprimere una visione reazionaria, intendeva rendere evidente come la prospettiva del nuovo capitalismo fosse proprio quella di liberarsi definitivamente degli antichi legami comunitari a cui gli antichi assetti sociali borghesi erano comunque vincolati.
Un capitalismo dunque dal volto ancora più aggressivo e che avrebbe trovato la sua arma principale nel consumismo di cui il potere autoritario e repressivo della televisione ne era lo strumento principale avviando un’opera di « acculturazione omologante », non ammettendo altra ideologia che non fosse quella del consumo in base alle regole di ciò che Pasolini chiama una « Produzione creatrice di benesser e»(“Acculturazione e acculturazione” – 9 dicembre 1973 da “Scritti Corsari”). La società dei consumi, insomma, era riuscita a realizzare ciò in cui il Fascismo aveva clamorosamente fallito, un’unione interclassista tra le classi dominanti e quelle dominate in nome, appunto, del consumo e negando in questo modo qualunque prospettiva emancipatrice e rivoluzionaria. Di questa deriva consumistica e falsamente permissiva Pasolini accuserà principalmente la cultura comunista(in realtà comunista nominalmente e di sinistra nei fatti)che aveva creduto di poter risolvere il problema della povertà sostituendo la cultura ed i modi di vita delle classi proletarie e sotto-proletarie con quella delle classi dominanti credendo in questo modo, dice giustamente Pasolini, «che la storia non sia e non possa essere che la storia borghese ». Un messaggio più che mai attuale e sui cui è necessario confrontarsi senza nessuno sconto a chi, ancora oggi, continua a confondere marxismo con progressismo, Karl Marx con Emma Bonino, Antonio Gramsci con Marco Pannella.
«Abbiamo perso un uomo diverso… e la sua diversità consisteva nel coraggio di dire la verità››(Alberto Moravia – Orazione funebre ai funerali di Pier Paolo Pasolini)