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Ci sono storie che non hanno “storia” e ci sono donne che hanno poco o nulla da raccontare ma che, pur con la loro sbiadita vita, restano in qualche modo incastrate nei grovigli della memoria. La signorina Esterina apparteneva a questa categoria. Con i suoi abiti un filino demodé, il suo francese maccheronico mutuato da lontane reminiscenze scolastiche, il cappello a falda larga che avrebbe dovuto ricordare la Bergman di Casablanca e la lunga sciarpa di voile che rischiava di causarle la stessa fine di Isadora Duncan, due pomeriggi alla settimana, alle cinque in punto, saliva lo scalone di Palazzo Dell’Orso per dare lezioni di musica a Lucia. La sua condizione di figlia del direttore della banda musicale paesana le dava credibilità e un certo prestigio, ma il compenso economico che aveva richiesto era mediamente modesto, tale da consentire alla signora Dell’Orso, dama di nobile discendenza ma di ristrette risorse finanziarie, di affidarle la figlia perché ne curasse la formazione musicale. Aveva solo richiesto di trovare una rosa fresca e profumata sul tavolino vicino al pianoforte tutte le volte che fosse andata a dare lezioni a Lucia. La signora Dell’Orso non aveva esitato ad accontentarla. Appena entrava nel salottino dove era alloggiato il pianoforte, Esterina si accostava alla rosa e chiudendo gli occhi ne aspirava il profumo, poi, rinvigorita dall’esalazione del fiore, tirava un lungo respiro, sazia di quell’aroma come un’ape che ha succhiato il nettare della vita. Con un gesto deciso si toglieva il cappello, dal quale sbucava un’ inverosimile chioma ondulata, frutto di torturanti sedute di bigodini, e si metteva al piano dove Lucia l’aspettava diligentemente seduta sul suo sgabello, agitando le gambe magre di adolescente che avrebbero desiderato di calcare una pista da ballo più che di stare a pigiare su tasti e pedali. E così iniziava il tormento. Il fatto era che Lucia non aveva alcuna inclinazione per la musica, cosa che la signorina Esterina si guardava bene dal manifestare per timore di perdere il suo lavoro. “Mais non, mais non, ma petite, plus de attention, plus de concentration.” Lo spartito del Piccolo Montanaro mostrava i guasti di lunghe ed inutili esercitazioni, ma lei non demordeva. E quando la signora Dell’Orso le chiedeva se la figlia progredisse nel suo cammino musicale, rispondeva: “Il faut avoir de patience, ma chère, beaucoup de patience.” Ed esaurita l’estenuante ora di lezione, riprendeva le scale, non prima di avere tolto la rosa dal vaso per portarla con sé, stretta al petto come un bene prezioso. Dopo un lungo anno, i progressi di Lucia non si vedevano ancora. La ragazza smaniava, il tempo passato al piano le sembrava una lenta tortura. Protestava con la madre perché, mentre le sue coetanee passavano i pomeriggi del sabato con gli amici, lei doveva sorbirsi la presenza di quella signorina fuori del tempo. “Ho sedici anni –protestava- A che mi serve imparare a suonare queste musiche che nessuno conosce più? Roba d’altri tempi, da Signorina Felicita e Mazurka della nonna.” Ad un certo punto la signora Dell’Orso capì ch’era giunto il momento di desistere. Comprese che quelle lezioni di musica erano soltanto un cerimoniale officiato per compensare in qualche modo il proprio rimpianto di non essere diventata una grande concertista. Si arrese alla logica della figlia, che si rifiutava di incarnare un ruolo che non era più idoneo ai tempi, e ammise con se stessa, seppure a malincuore, che Lucia non possedeva alcun talento e che quindi continuare quelle lezioni era soltanto ostinarsi a tentare di far sopravvivere modelli femminili obsoleti. Ma non ebbe cuore di comunicarlo personalmente all’insegnante e preferì dare l’incarico alla figlia. La ragazza non se lo fece ripetere più di una volta, felice di troncare finalmente la tortura di quel tempo speso a strimpellare sui tasti d’avorio, si affrettò ad eseguire la missione affidatale. Quando giunse davanti al cancelletto di ferro della casa di Esterina, tirò la cordicella che, facendo oscillare la vecchia campana semiarrugginita, produsse un suono sgraziato, da mandria di vacche. Attese qualche minuto che le venisse aperto, dopodiché riprovò a scrollare la campana. Poiché anche il secondo tentativo non produsse alcun effetto, cercò di sbirciare fra le sbarre, sperando di essere vista. Premendo involontariamente il braccio sul cancello questo si aprì cigolando. Lucia si inoltrò per il cortile fino alla porta di legno e si rese conto che era socchiusa. La spinse ed entrò. “Signorina Esterina, sono Lucia.” Chiamò, ma non le rispose nessuno. Avanzando per la stanza tornò a chiamare: “Signorina Esterina, sono io, sono venuta per dirle…” Ma rimase a metà della frase, sbigottita. Su un divano di vimini era disteso il vestito di velluto verde che indossava la sua insegnante quando andava da lei per le lezioni e a terra vide abbandonate le scarpe con la punta sottile e il cinturino. Allungando lo sguardo scorse il cappello e la sciarpa di voile. Si guardò attorno: sui muri macchie di umido si alternavano a foto ingiallite, squinternati spartiti di musica giacevano ammucchiati su una sedia. Niente di quella casa la riconduceva all’immagine di Esterina seduta al piano accanto a sé. Tutto era silenzio e squallore, vuoto. E quegli indumenti acconciati come se qualcuno li stesse per indossare facevano pensare ad un fantasma. Sul tavolo, coperto da un consunto tappeto che un giorno doveva essere stato di valore, dentro una grande ciotola di terracotta, erano conservate tante, tante rose, appassite e lasciate a seccare. Spaventata per quella desolante scena che le suggeriva ipotesi di delitti, Lucia uscì di corsa da quella casa spettrale, con il cuore che andava a mille e una folla di pensieri assurdi che le turbinava nel cervello. Dove era finita la signorina Esterina? Cosa le era successo? Qualcuno certo doveva sapere e qualcuno doveva poter spiegare quell’assenza misteriosa. Ma della signorina Esterina, inghiottita da un ignoto destino da un giorno all’altro, nessuno seppe mai più nulla, anche se si fecero mille ipotesi. Qualcuno disse che era fuggita con un amante segreto, qualcun altro che era scappata perché sommersa dai debiti, altri affermarono di averla vista in città che “faceva la vita”. Voci che si incrociarono a lungo alla ricerca di una verità sconosciuta, come succede spesso nei paesi, e che, come in ogni paese che si rispetti, col tempo si affievolirono e non si udirono più.
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Anna Maria Bonfiglio
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