Alla luce di una lampada a olio i fratelli James caricavano bossoli d’ottone con polvere nera, nella quantità di trentasette grani per ogni cartuccia come da ricetta del signor Colt.
La lampada da minatore pendeva dal soffitto. Sulle travi annerite dal fumo le muffe disegnavano logore mappe e portolani. Nei giorni di pioggia l’acqua filtrava dal vecchio tetto di assi sbozzate coperte di zolle e nessuno saliva su per chiuderne le fessure.
I due fratelli lavoravano in silenzio e si udiva soltanto il rumore del vento e l’incantato suono del loro lavoro. A tratti giungevano i lamenti di un succiacapre, obsoleti e distanti, mentre spifferi freddi attraversavano le fessure fra i tronchi delle pareti, dove la pece non aveva tenuto.
I bossoli, lavati ed asciugati al sole del pomeriggio, erano sistemati in brevi file sul tavolo di assi di quercia. Oltre ai bossoli allineati come per un gioco, stavano le cartucce già pronte, allineate anch’esse, ma sul lato opposto del tavolo. C’erano le fiasche per la polvere e gli stampi per calibrare le palle e barre di piombo da venti centimetri e altre barre meno dritte, di lunghezze diverse, e pezze di flanella e scovoli e spazzole consumate. In mezzo c’erano le due grosse Colt Navy adattate per la retrocarica da Mr Johnston, l’armaiolo di Columbia.
Si diceva in giro che Emmerich Johnston non avesse più l’uccello. Si diceva che gliel’ avesse tagliato la moglie indiana per vendicare un torto. Si diceva che lo avesse fatto a sangue freddo, quando tutto era apparentemente tranquillo fra loro. Lei, si diceva, si era alzata dal letto aveva sceso le scale della grande casa di Columbia ed in cucina aveva preso un piccolo coltello. Non era ancora spuntata l’alba, si diceva, quando l’indiana sollevò in punta di dita l’uccello moscio di Emmerich e dopo averlo osservato per qualche secondo, lo agguantò più saldamente tendendolo un poco e lo tranciò di netto. In ogni caso, sia prima che dopo il fatto, peraltro mai confermato dall’interessato né da sua moglie ( a onor del vero, bisogna dire che tale di lei conferma sarebbe stata a questo punto un po’ insolita, visto che circa un anno prima era passata a miglior vita per via di una palla calibro .54 tiratale a bruciapelo da parte di ignoti), sia prima che dopo dicevo, il vecchio Johnston continuava ad essere un eccellente armaiolo e questo a dimostrazione che non è con l’uccello che si fanno armi di prima qualità.
Le pistole campeggiavano ben oliate e pulite in mezzo al resto. Neanche la luce della lampada era in grado di intaccarne la composta cupezza, fermandosi un attimo prima, come presa da un dubbio. Erano oggetti severi, non neutrali, come se l’essere stati a lungo nelle mani di due uccisori avesse dato loro un’anima, un’anima oscura ovviamente.
Nella capanna c’era una piccola stufa di ghisa, sistemata in un angolo. Ogni tanto uno dei fratelli si alzava e andava ad infilarci uno o due pezzi di legna che prendeva dalla catasta lì accanto. Di solito toccava a Frank, perché era il più vicino. Quando lo sportello veniva aperto il bagliore del fuoco s’irradiava nella stanza proiettando l’ombra piegata e palpitante di Frank sulla parete. Una volta richiuso, tutto tornava come prima, le ombre e i riflessi sparivano e tornava l’oscurità, ma come ripulita.
Per via del vento, buona parte del fumo che avrebbe dovuto uscire dal comignolo tornava indietro e riempiva la stanza, tanto che ogni cosa là dentro era avvolta da una nebbia giallastra e densa, tranne che per un cerchio intorno alla lampada, nel quale danzava la polvere.
Frank mandò un colpo di tosse. Dovremmo sistemare meglio i cavalli, disse. Potrebbe piovere, disse.
Il fratello non rispose. Finì di calzare la palla nella camera d’ottone del bossolo, alzò la cartuccia pronta verso la lampada, la pulì passandoci sopra un panno di lana e la osservò, così, tanto per vedere che effetto facesse nella sua testa. Poi la posò sul tavolo insieme alle altre, dritta come le altre. I James fabbricavano da sé le loro cartucce, per farle più potenti e guadagnare qualche iarda sul tiro e velocità nella volata. Al momento dello sparo la detonazione era più forte che con le altre cartucce: una vera deflagrazione che spaventava gli uomini e faceva imbizzarrire i cavalli. La palla guadagnava in gittata e precisione e l’unico inconveniente era il gran fumo che veniva fuori, i cui residui ti costringevano a pulire l’arma con maggior frequenza e rimanevano spesso incollati alle mani.
Posò la cartuccia sul tavolo e si alzò. Vado io, disse. Indossò la giacca, il cappello e andò verso la porta. Alla porta si fermò, si toccò il fianco destro che trovò sguarnito, tornò indietro, prese la pistola dal tavolo, alzò lo sportellino del tamburo che scivolò docile - Johnston era un armaiolo coi controcazzi! -, fece ruotare il tamburo per vedere se fosse carico, richiuse lo sportellino, infilò la pistola nella fondina ed uscì.
Quale era il suo Paese? Questo si chiedeva a volte il giovane Jesse Woodson James. La stanchezza lo portava a farsi domande. La stanchezza e una certa tranquillità su cui stendercela sopra. Era solo il Missouri il suo paese ed il resto era terra da razziare? Era solo la contea di Clay? E tutto il resto terra da razziare? La guerra era finita da quattro anni, gli Stati del Sud l’avevano persa. Era convinto di essere alla macchia per vendicare i torti subiti. Convinto di rapinare banche e far fuori gente per una sorta di codice d’onore che gli impediva la resa. Di questo era convinto. La sua parte più fragile e timida lo portava a trattare la faccenda come se la mancata resa fosse colpa degli altri, di quei nordisti bastardi che volevano imporgli la loro legge. Non aveva la capacità di guardarsi dentro con obiettività, e fuori, bè fuori c’erano solo quei maledetti yankees che lo avevano preso a frustate e avevano torturato il suo patrigno, il dottor Samuels. Lo avevano fatto sotto i suoi occhi, per ottenere delle informazioni sulla banda Quantrill, informazioni che il dottore non poteva dare perché non le aveva. Dannati yankees, diavoli dell’inferno! Ma gliel’aveva fatta pagare e avrebbe continuato a farlo. Era colpa loro se lui non deponeva le armi.
Come sappiamo Jesse non divenne vecchio abbastanza per capire i suoi errori e imparare il perdono, ma a volte, quando la stanchezza arrivava e non c’erano pericoli in giro, lui cominciava a farsi domande. Sentiva che qualcosa non andava, che c’era qualcosa di sbagliato in quello che lui e gli altri della banda stavano facendo, ma continuava a cercare l’errore al di fuori di sé.
A volte pensava ai suoi vecchi. Pensava a Robert, che ricordava per i racconti della madre, essendo questi morto quando Jesse aveva solo tre anni, e a Zerelda, la forte e testarda Zerelda. E ovviamente pensava al dottor Samuels, appeso per il collo ad un albero di gelso per tre volte senza essere ucciso, come un dannatissimo santo.
Chiuse la porta dietro di se e lasciò che l’aria fredda, affilata dal vento, lo frugasse fin nelle ossa. Si abbandonò ad essa, come fosse uno strumento di purificazione, ma fu solo per un attimo, perché la guerra appunto, continuava.
Su tutto, sul bosco di abeti e di faggi, sulla piccola radura che si apriva all’improvviso brillando a mezzogiorno come uno smeraldo, sulla capanna al suo margine, sui pensieri del giovane James, sulla sera che stava rapidamente scolorando nella notte, su ogni cosa incombeva un cielo compatto di nuvole scure che si muovevano lente, accavallandosi e scontrandosi in una pantomima colossale e un po’ ingenua. Erano così lente e pesanti che sembravano non avere nulla a che fare con la rapidità delle raffiche di vento che sferzavano la terra giù in basso. Il cielo pareva una cosa e la terra un’altra e la differenza era ciò che passa fra la tranquillità di un uomo forte e l’ansia di un debole.
Jesse alzò il bavero della giacca e si calcò il cappello sulla testa.
Aveva la pelle delle mani e del viso molto delicata e per buona parte dell’anno screpolata e ora la sentiva bruciare al vento gelido. Era stato così sin da piccolo, quando la madre, durante l’inverno o nelle giornate in cui il vento da nord interrompeva la primavera, gli spalmava con cura sul viso e sulle mani una pomata fatta con olio di balena e cenere. Solo in quel modo la sua pelle delicatissima evitava di schiantarsi fino a sanguinare. Avrebbe voluto avere un po’ di quella crema adesso. L’avrebbe messa sulle mani e sul viso, massaggiandoli come faceva sua madre.
Guardò ancora il cielo e lo pensò un mare agitato. Come quello che aveva visto in un quadro un giorno, nella casa di un ricco yankee. Gli era piaciuto quel quadro e se non fosse stato per la fretta indotta da un paio di palle di moschetto dirette alla sua persona, lo avrebbe volentieri staccato dalla parete e portato con se, insieme ai soldi e agli oggetti d’oro e d’argento che intanto gli altri avevano sistemato dentro un grosso sacco di iuta con su la scritta “ MENDELSON COFFEE COMPANY LTD” in grandi lettere nere.
I cavalli impastoiati brucavano l’erba gialla e dura a ridosso dei primi alberi alla fine della radura. Quando l’odore dell’uomo li raggiunse, alzarono la testa e dilatarono le froge voltandosi verso di lui, mentre la pelle dei loro fianchi guizzava come percorsa da corrente elettrica.
Jesse si avvicinò e prese per la cavezza il primo. Lo carezzò sul collo e gli parlò. Tolse le pastoie e allungò la cavezza. Il cavallo si appoggiò al tronco di un abete ad osservare Jesse mentre toglieva le pastoie agli altri. Tenendo insieme le cavezze Jesse li fece uscire dal bosco. Una volta allo scoperto furono investi dal vento e gli animali scartarono con le criniere arruffate. Jesse strattonò le corde e i cavalli lo seguirono docili fino alla tettoia sul retro della capanna di tronchi. Legò le cavezze ad una traversa, slacciò i teli che chiudevano il ricovero e li fissò ad alcuni picchetti piantati a terra. Poi prese da un sacco dell’avena e la rovesciò nella mangiatoia insieme al fieno.
Ecco fatto ragazzi, disse, Ora avete un buon riparo.
Fu nel pieno della notte che arrivarono due dei fratelli Younger.
Jesse dormiva sul pavimento di terra battuta della capanna, avvolto in una coperta indiana; Frank stava disteso allo stesso modo davanti alla porta.
Fu Jesse a svegliarsi. Sentì i cavalli agitarsi sul retro, e con l’orecchio praticamente appoggiato a terra, distinse con chiarezza i colpi sordi degli zoccoli dei cavalli in arrivo. Balzò in piedi con le pistole in pugno e toccò la schiena del fratello con la punta dello stivale. Frank aprì gli occhi e le sue mani andarono al fucile che teneva accanto a se. Erano pronti a ricevere chiunque, anche il demonio.
I cavalli si fermarono, qualcuno chiamò. Era Cole Younger. L’accordo era di trovarsi a Clarence di lì a due giorni.
Qualcosa deve essere andato storto, pensò Jesse. Posò una delle pistole sul tavolo e con la mano libera alzò il traverso di legno che chiudeva la porta e lo appoggiò alla parete. Frank se ne stava leggermente defilato con lo Sharp pronto a sparare. La capanna era immersa nell’oscurità e quando Jesse aprì la porta, insieme all’aria gelida entrò un po’ della luce spettrale della luna. Il vento ha portato via le nuvole, pensò Jesse. E solo dopo aver constatato che gli Younger erano soli, alzò lo sguardo al cielo e vide che lassù brillavano milioni di stelle.
Effettivamente le cose erano andate storte giù a Clarence.
E’ andato tutto a puttane, disse Cole.
La prima cosa da fare era recuperare Jim. L’avevano lasciato alla fattoria dei Merrimar. Il vecchio Dud Merrimar aveva fatto l’infermiere durante la guerra, il portantino per la precisione, e qualche esperienza sulle ferite d’arma da fuoco ce l’aveva. Per prima cosa aveva fermato l’emorragia e steccato la gamba.
In breve, i tre Younger erano entrati in città la sera prima. Jim come suo solito aveva alzato un po’il gomito e aveva preso a palpeggiare uno schianto di bionda che lavorava nel locale. Ogni volta che lei si avvicinava per riempirgli il bicchiere, lui l’agguantava per un braccio e la tirava verso di se tentando di baciarla.
Dico, disse Robert, si è mai vista una così servire dietro il bancone di un saloon? Se le vanno a cercare, disse Robert. Fatto sta che ad un certo punto, un tipo corpulento e dall’aria bellicosa aveva preso Jim per le spalle con l’intenzione di buttarlo fuori dal locale o semplicemente fargli una ramanzina. Jim, lo sapete, è un gatto, tanto è agile: si è liberato in un attimo e ha estratto la pistola. Il tipo bellicoso si è subito ammansito. Io e Cole ce ne stavamo in disparte, con le armi spianate pronti a intervenire: c’eravamo piazzati con le spalle alla parete e tenevamo d’occhio tutti quanti nel locale, tante volte a qualcuno fosse venuto in mente d’impicciarsi. Ma ci siamo dimenticati della bionda dietro al banco! Così quella ha avuto il tempo di estrarre un’enorme colt ad avancarica da sotto il piano e tenendola con due mani ha fatto fuoco sul povero Jim colpendolo alla coscia. Io e Cole abbiamo reagito d’istinto scaricandole addosso le pistole. Un vero peccato: una così bella donna. Quanto agli altri, nessuno ha mosso un dito, neppure il tipo corpulento, che è rimasto immobile in mezzo al saloon; sembrava un orso impagliato, in mezzo ai proiettili che fioccavano e a tutto quel fumo. Il locale era pieno di fumo e l’odore di polvere da sparo bruciava le narici, giù fino in gola. Mi era venuta così sete che sarei volentieri arrivato fino allo scaffale per prendere la bottiglia, disse Robert.
Non ci voleva, pensò Jesse. Non una donna, cazzo. Niente donne e bambini! Ma non era il momento di discuterne.
Com’ è la ferita? chiese.
La palla è rimasta dentro, disse Cole. Dud ha provato ad estrarla ma ha dovuto rinunciare. Ha detto che ci vogliono i ferri adatti.
Dobbiamo portarlo subito da un medico, disse Frank.
Jesse annuì. Il suo volto era cupo. Accidenti, pensò. Ci contava su altri due giorni di riposo. Due giorni a riflettere, lì in mezzo ai boschi, lontano da tutto. Ne sentiva proprio il bisogno. Invece... e poi c’era la storia della donna, una faccenda per niente piacevole. Quelle erano le loro zone, dovevano sparare soltanto agli yankees e solo se necessario.
Il fuoco nella stufa si era spento da tempo e faceva freddo.
Frank, che ne dici di accendere il fuoco e mettere su un po’ di caffè? I ragazzi saranno stanchi, disse Jesse.
Frank uscì per prendere un po’ di legna fine per l’innesco e Jesse accese la lampada. La luce gialla illuminò i volti dei fratelli Younger.
State di merda, disse Jesse. Stendetevi un po’ sulle coperte mentre riscaldiamo questa catapecchia e prepariamo il caffè. Cole fece per dire qualcosa. Non preoccuparti, disse Jesse, appena farà giorno saremo pronti a partire. Ovviamente il piano di Clarence va a puttane. E’ meglio se non ci facciamo vedere da quelle parti per un po’. Quindi troviamo un medico per Jim e torniamo qua per qualche giorno fino a che non si è rimesso. Disse.
Ai ragazzi non piaceva l’idea di dover passare troppo tempo in quel posto; lo trovavano cupo. Così cupo che erano arrivati ad affermare che portasse sfortuna. Neanche a Frank piaceva, anche se non credeva alla faccenda della sfortuna. Preferivano tutti la polvere e la confusione della città, o almeno di una fattoria, con un po’di gente intorno, dove si potessero sentire bestemmie di uomini e risate di bambini e cinguettare di donne. Al contrario Jesse si sentiva a casa. Gli piaceva stare in mezzo alla natura, ed in quel periodo ammetteva di essere un po’ stanco. Ma soprattutto aveva bisogno di riflettere e capire per quanto ancora, e contro chi, doveva continuare a battersi. La vendetta deve avere un termine, una misura, pensava, altrimenti non cesserà mai, ma chiamerà ancora vendetta e dopo non sarà che violenza senza motivo e noi soltanto degli assassini, dei disperati senza onore.
Qualcosa in lui era cambiato. Fino ad un paio di mesi prima non avrebbe avuto pensieri del genere. Anche su questo doveva riflettere. Ma ora non c’era tempo.
Frank accese il fuoco e preparò il caffè. Cole si era addormentato e non lo svegliarono. I due fratelli James e l’altro Younger bevvero il caffè e parlarono sul da farsi e decisero di concedersi un’altra ora o due di sonno prima di partire.
Jesse non riuscì a dormire. Ad un certo punto si buttò una coperta sulla spalle e uscì.
La luna calava dietro le cime degli abeti e la notte stava cambiando odore, come avviene con l’approssimarsi del mattino. Jesse si passò la lingua sui denti e la spinse contro il palato per sentire il gusto del caffè che aveva appena bevuto. Si avvicinò ai cavalli dei fratelli Younger che erano rimasti sellati e li carezzò sul collo. Buoni, disse. Slacciò le selle e le fece scivolare a terra appoggiandole al tronco di un albero.
Buoni. Non va meglio adesso? Si avvicinò con il viso ad uno degli animali e questo abbassò la testa fino a toccargli la guancia con il naso. Bravo. Sei un buon cavallino, disse affettuosamente James carezzandolo sul petto muscoloso.
Faceva freddo ma non aveva voglia di rientrare. Sedette sull’erba e si appoggiò ad una delle selle e in questa posizione si addormentò sognando la sua terra, quella che ricordava, quella della sua infanzia.
Nacque dal fuoco. Era nostra Madre. Eravamo i suoi figli. Pura e vitale ci accolse e noi imparammo a percorrere in posizione eretta i suoi boschi, le sue valli. I torrenti scendevano limpidi dalle montagne, alimentavano i grandi fiumi che scivolavano lenti attraverso le pianure. Imparammo a seminare d’inverno e a mietere col caldo. Il grano ondeggiava alle brezze. Ogni forma di vita in perfetto equilibrio. Perfetto equilibrio.