Mio figlio e Bukowski, lo scrittore, sono nati lo stesso giorno.
Il giorno in cui è nato il mio secondo figlio ce la siamo presa tutti molto comoda. A cominciare da Susanna, che verso le sei del mattino si sveglia e prepara un caffè.
Non credo dovresti bere caffè, le dico ancora assonnato.
Ma l’ho fatto per te, risponde. Diamine che donna!
Così bevo il caffè e un sorso lo beve anche lei poi mi guarda e fa una piccola smorfia, in piedi davanti a me. All’inizio credo che faccia la stupidina per farmi sorridere, me che sono un musone sempre, figuriamoci al mattino appena sveglio. Invece è una smorfia vera e di dolore. Si appoggia con entrambe le mani allo stipite della porta e stringe una contro l’altra le gambe come dovesse andare al bagno. La osservo e aspetto che accada qualcos’altro in modo da sapere meglio come reagire. Nel frattempo vado a posare la tazzina vuota nell’acquaio. Lei, appoggiata allo stipite della porta si piega un poco e chiude gli occhi o li aveva già chiusi e stringe le palpebre ancora di più. Mi vesto? chiedo. Si, fa lei con la voce tra i denti, ancora alle prese con la contrazione.
Siamo tranquilli. Dario, il primo figlio, è nato con un parto cesareo. E’ uscito fuori fresco come una rosa, con la sua bella testolina tonda; sembrava pronto per farsi due passi nel piccolo parco dell’ospedale. Erano circa le undici di sera ed era giugno. Dalle finestre aperte della sala d’attesa, entrava un superbo odore di glicine. Eravamo tranquilli anche quel giorno, quello di giugno in cui è nato Dario, e ci siamo rimasti un po’ male quando ci hanno detto che il parto naturale non si poteva fare senza mettere a rischio la vita del piccolo.
Dario adesso è con la nonna materna. Mentre saliamo in auto lui starà ancora dormendo. Sarà una bella sorpresa. La faccenda dovrebbe concludersi in giornata. Si? Suppongo di si; l’altra volta fu così, ma fu un cesareo, non so se vale.
E’ una mattina limpida e ventilata e dai finestrini aperti entra un’aria che profuma di terra umida. Forse questa notte è piovuto un poco e non ce ne siamo accorti; strano, perché io dormo poco ed ho il sonno così leggero… I colori non ancora appesantiti dal caldo scorrono sui bordi della strada. Non puoi credere che non rimanga tutto così, per tutto il giorno. E’ come se me lo avesse detto dio in persona: lasciamo le cose come stanno. Ma le cose cambieranno: presto si alzerà la temperatura, la luce si farà dura e scintillando come un maglio inchioderà le cose a terra, fissandole in una morsa di caldo. E nascerà questo bambino. Proprio lo stesso giorno in cui è nato quell’ubriacone di Buk, dio lo benedica.
E’ tutto a posto. Le contrazioni non sono ancora vere e proprie contrazioni. Mentre aspettiamo che arrivi il medico di turno, leggo da una rivista di un tale che è stato preso con un paio di etti di marijuana nei pantaloni: proprio un sacchetto infilato nella cintura, come una pistola o la maglia di cotone. Lo hanno processato per detenzione e spaccio di stupefacenti e condannato e questo nei primi due gradi di giudizio. Poi, contro ogni previsione, la cassazione lo ha scagionato perché ha ritenuto valido come motivazione a sua discolpa, il fatto che lui avesse dichiarato ai carabinieri e dopo al giudice, di essere un seguace del Rastafarianesimo. Tutti sappiamo cos’è.
Dicono quelli della cassazione, in uno stupefacente quanto inatteso atto di tolleranza e apertura mentale, che in questo caso la marijuana non è più una droga e non vi è più spaccio. Ma è a tutti gli effetti un’ “erba meditativa che viene correttamente usata in un pio atto di fede”. Così mentre aspettiamo un medico, che in effetti dovrebbe già essere qui, io penso all’erba sacra che cresce sulla tomba di re Salomone, il saggio. Penso a quell’erba cresciuta fra gli interstizi delle pietre rosse, a malapena sbozzate da qualche scalpellino ossuto, laggiù, in qualche parte d’Africa. Un erba tenace, cresciuta alta come un ragazzo, con le foglie affilate e leggere... Penso che mica è pensata male: farsi rasta.
Per dire di quanto eravamo rilassati: parlo con la capo sala, che nel frattempo è arrivata, e con il dottore, che è arrivato anche lui, uno tarchiato, calvo e con gli occhiali alla moda. Verdi, mi pare di ricordare. Verde pisello. Insomma, ci parlo come fossi arrivato tardi al cinema e chiedessi ragguagli sulla parte già andata al mio vicino di poltrona. Mentre parlo con il doctor, non riesco a fare a meno di fissare i suoi occhiali, che forse non erano verdi ma fuxia, comunque un colore molto vivace. E siccome quello comincia a toglierseli e a metterseli mentre parliamo, io muovo la testa qua e là, praticamente seguendo quegli occhiali. Blu elettrico? Forse. Poi, senza che abbia compreso il senso delle sue ultime parole, doctor fa un balzo aggirando il mio fianco sinistro come per assalirmi e si allontana per il corridoio.
Dopo di che fanno degli esami a Susi. La collegano tramite dei fili tipo fili elettrici ( lei è seduta adesso) ad una macchinetta marrone chiaro, che ha anche le ruote per essere spostata con facilità e che, con quelle ruote, sembra un carrettino per gli hot dogs come si vedono nei film americani, solo un po’ triste per via del colore. La macchinetta non ha indugi e immediatamente spara fuori un nastro di carta con tanti numeri. Un nastro lungo che esce fuori a rotta di collo e si piega, s’inarca come imbizzarrito, tanto che per evitare il peggio, la caposala è costretta ad intervenire e con un gesto deciso lo distende. Da quei numeri, più o meno in colonna ( o era semplicemente un grafico?), insomma dai segni scritti sul nastro di carta sparato fuori dalla macchina, la caposala capisce che ci vorrà ancora qualche ora. Ce lo dice ed io e Susi ne parliamo e alla fine decidiamo che posso andare a lavorare un poco. Eravamo davvero rilassati.
Così saluto la caposala che mi guarda strano per via, credo, della mia partenza. Il dottore non lo saluto, perché è sparito e anche se fosse stato in corsia non l’avrei salutato perché non mi è piaciuto granché. Ma sono veramente rilassato e tranquillo e anche Susi lo è: rilassata e tranquilla.
Ci sentiamo, cioè io mi ci sento e suppongo che anche per Susi sia così, ci sentiamo davvero in gamba, perché non ci agitiamo per una cosa così da poco come questa. Anzi, io provo a sondare ben benino dentro di me, come sono abituato a fare, per vedere se per caso sia una finta e tutta questa calma non sia che un trucco e che più in profondità io sia agitato parecchio. Ma sono a posto anche nelle mie recondite profondità, ovunque siano.
L’ufficio è proprio vicino, ad un paio di isolati dall’ospedale. Ci arrivo a piedi e l’auto la lascio al parcheggio dell’ospedale (allora era gratuito).
In ufficio sbrigo qualche pratica, faccio un paio di telefonate. Riesco anche a mandare giù un boccone alla tavola calda prima che Susi mi chiami. Io sorrido pensando che è stranissimo, perché in genere sono in ansia anche per cose da nulla tipo una bolletta scaduta da pagare, o anche senza che ci sia un motivo tangibile. Ma non voglio comprendere. Non voglio sapere il perché di questa calma.
Mentre sono alla cassa a pagare il conto, Susi mi chiama al telefono e mi dice: Dai ragazzo, vieni a farmi fare un paio di risate.
Così ci siamo, penso. Così pago il conto, saluto i colleghi e vado. Mi sa che non torno oggi pomeriggio, dico. Loro mi guardano perplessi: non sanno niente della gravidanza di Susi. Nemmeno di Susi sanno qualcosa. Dico: Susanna sta per partorire. Loro sgranano gli occhi. Non so perché non ho detto niente in questi nove mesi e anche prima. Non parlo molto della mia vita privata e non perché voglio che rimanga privata, è solo che non ne parlo.
Mentre vado accendo una sigaretta che scompare fra le mie dita nella luce abbacinante delle tredici e quarantacinque. Il sole, superata la metà di agosto, non è che un pazzo che si agita credendosi ancora potente, ma la sua potenza non fa paura, il suo braccio è uguale al mio.
Mentre varco l’ingresso dell’ospedale mi viene in mente una frase del Vangelo, credo di Luca, o di Matteo: “Guardate i gigli come crescono: non filano, non tessono, eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria vestiva come uno di loro. Se dunque Dio veste così l'erba del campo, che oggi c'è e domani si getta nel forno, quanto più voi, gente di poca fede?” E’ già. Per questo si nasce nudi...
Il sedici di agosto dunque, lo stesso giorno di Buk lo scrittore. Proprio in questo giorno nasce il piccolo. Non ci mette molto. Le doglie durano in tutto meno di due ore ( bè, a Susi saranno parse lunghe) ed io arrivo in tempo per assistere al parto.
Forse ora sono un poco teso e non riesco a farla ridere come mi aveva chiesto. E’ lei invece, è Susi a farmi sorridere tra una smorfia e l’altra di dolore.
Le tengo una mano e le carezzo la testa. Sono in piedi accanto a lei, che non è distesa, ma seduta, e questo mi fa apparire la scena d’insieme meno cruenta. La stanza è abbastanza piccola, le pareti tinteggiate d’arancio, di un bell’arancio morbido e riposante. Per un attimo immagino d’essere in una di quelle salette per l’abbronzatura: dopo che ha fatto Susi tocca a me a sedermi sulla poltroncina.
Nel frattempo Susanna ha dato altre spinte e ad ogni spinta mi ha stritolato la mano. Io ho sopportato senza batter ciglio, immaginando che più lei stringeva la mano e più io soffrivo, meno lei soffriva: una specie di macumba da ragazzi.
Ma ecco che ci siamo. Io non credo di capire bene, di essere del tutto dentro me stesso. Volteggio nella stanza, lieve e appena un po’ all’erta, mentre uno fatto come, con il naso lungo come il mio e la schiena leggermente curva come la mia e il neo alla baciami subito, tiene per mano Susanna che sta per dare alla luce ( calda e protettiva della stanza) il nostro bambino. Capisco che quelle sono le ultime spinte, quelle decisive, le più potenti, dove ogni cellula sa che deve spingere e lo fa e non riesce a fare altro. Cerco di guardare laggiù, dove tutto ha inizio, dove tutto è iniziato, ma ad un certo punto mi volto dall’altra parte. Laggiù sta succedendo qualcosa: c’è tipo un guscio d’uovo, coperto di pelle e sangue e umori, ma non riesco a capire quanto appartenga alla madre, quanto al nascituro. In una frazione di secondo valuto, misuro, mi allarmo, mi rassicuro, mi dimentico di Susanna e del resto del mondo, ma anche di quello che accade laggiù, che è un gran casino di tessuti, di colori crudi, come dal macellaio. So bene che non sverrò, ma per un attimo ci penso: e se ora vado giù? Ma no, non io. Infatti resto dritto, ma ignora la mia posizione nello spazio e probabilmente anche nel tempo, che ora è solo un concetto astratto, immisurabile, primordio.
Poi lo sento piangere. Ma credetemi, non penso: è fatta! Non so cosa penso. Né dove si distenda il mio pensiero qualunque esso sia. Mi mettono in mano un paio di forbici; credo, suppongo di dover tagliare il cordone ombelicale. Ma è enorme, sembra un serpente tanto è spesso. Ha uno strano color lavanda, con delle striature di rosso. Non posso tagliarlo, è vivo! Se lo taglio ucciderò il bambino, penso con orrore. E la mente va a quei film di fantascienza dove l’alieno cattivo e il terrestre da salvare, sono ormai un’ unica cosa: impossibile uccidere uno per salvare l’altro, a meno che… E’ quel a meno che, che mi da una speranza. L’infermiera attende che io compia l’atto, le sue mani infilate nei guanti di lattice tengono il cordone ben teso. A questo punto, vedendolo così, penso al contrario che se voglio salvare il bambino devo tagliare altrimenti soffocherà (?). Tutto questo in un secondo, senza agitarmi, o meglio agitandomi in un mondo parallelo non in questo. Taglio. E’ veramente consistente e spesso, il taglio non è agevole, ma che posso fare? So che non posso sbagliare e l’infermiera interpone in qualche modo le sue mani fra le forbici ed il corpicino, fino a nasconderlo, ma nonostante tutto ho l’impressione di stare facendo qualcosa di terribilmente pericoloso e cattivo a mio figlio. Quando riesco a tagliare fino in fondo, i due lembi di tessuto si allontanano di scatto scomparendo dalla mia vista, come quando si taglia un grosso elastico tenuto teso sotto di noi.
Andata! Stavolta lo penso, forse lo dico anche. Andata! Solo allora guardo il piccolo: misuro, valuto, faccio proporzioni, confronti, conto nasi, occhi, orecchi, testicoli, pisellini, gambe, dita, mani… mi pare tutto a posto…
Mentre lo portano via per lavarlo e sistemarlo, io e Susanna ci guardiamo, lei è sfinita, sudata, felice. Anche io sono felice. E’ andato tutto bene. Faccio per passarmi una mano tra i capelli sudati e ricordo d’avere in testa quella ridicola cuffia che ha anche Susi. Vorrei togliermela, ma non so se posso. Credo di no. E poi ho i guanti e forse del sangue sui guanti…
Il piccolo è stato lavato. Ce lo fanno vedere, lo mettono per un minutino accanto alla madre. E’ bellissimo, come altro potrebbe essere? A questo punto penso a Uma Thurman che in una pubblicità chiede all’uomo davanti a lei, un giornalista credo, se vuole bere con lei, ma glielo chiede come se gli chiedesse di scopare e lui questo capisce e chiede conferma: Intende del sesso? Dice lui. Ma no, dice lei, chiedevo se vuoi bere con me, che altro potrebbe essere (o che altro hai capito, insomma una specie). E non chiedetemi perché di questo pensiero.
Dopo un paio d’ore arriva il nostro Dario, con la nonna e le zie. Tutti andiamo a vedere il baby, dietro il vetro della nursery, pulito e pettinato, chiaro come una stella. Dario è euforico, parla in continuazione e poi tace e sembra triste e poi parla ancora. Aveva quattro anni nel 2005, ma io credo d’avergli parlato della creazione.