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È una cosa che so fare fin da bambino.
All’inizio accadeva quando ero a letto, la notte, con la stanza immersa nel buio più profondo. Oppure, se il buio non era completo, tiravo su le coperte e nascondevo la testa. E il buio era di nuovo tutto intorno, avvolgente.
Allora mi libravo nell’oscurità e cominciavo a fluttuare, scivolando su onde di buio invisibili e morbide. Con gli occhi chiusi e la mente assuefatta da una inspiegabile quiete e serenità. Con la mente vedevo la mia camera e il mio corpo dentro il letto. Ma la mia essenza era sospesa a mezz’aria, quasi incapace di allontanarsi troppo, come se fosse ancora legata a un filo invisibile.
I pensieri erano lievi e un senso di leggerezza pervadeva il mio corpo, anche se non saprei dire quale corpo, se quello di carne immobile nel letto, o quello di pura essenza che fluttuava a pochi centimetri. Una sensazione che ancora oggi non riesco a descrivere. E non riesco a comprendere.
Ma allora durava tutto molto poco. Una frazione di secondo e quella sensazione di allontanarsi dal corpo svaniva di colpo. Non ero allenato a fare quello che facevo e la mia mente non riusciva a rimanere concentrata abbastanza a lungo. Almeno questa è la spiegazione che mi sono sempre dato. Smettevo di fluttuare ed ero di nuovo nel letto della mia camera, al buio. E riprovavo di nuovo. Fino a che a vincere non era il sonno. Alla mattina non pensavo a quello strano gioco della mente. Fino alla notte successiva.
Molte volte mi sono sorpreso ad attendere la sera e il buio proprio per poter fluttuare ancora oltre il corpo. Quelle poche volte che ci riflettevo di giorno non riuscivo neanche a simulare nella mia mente quella strana sensazione che provavo, quelle onde di buio che sapevano cullarmi in modo così particolare e infondermi quella strana calma. Provavo a chiudere gli occhi e a immaginare il buio, più nero che potevo, ma ero ancora troppo inesperto. I rumori e la consapevolezza della luce tutt’intorno rendevano la cosa davvero impossibile. Molto spesso mi sono detto che erano solo fantasticherie adolescenziali accompagnate dalla magia della notte, dell’oscurità. Effettivamente il buio ha un proprio fascino. Forse lo subivo troppo.
Ma la notte continuavo a spingermi fuori dal corpo, quasi fosse un istinto irrinunciabile. E devo dire che diventavo sempre più bravo. Progressi piccoli, ma costanti. E non avevo fretta, dopotutto. Avevo ogni notte della mia vita.
La prima volta che riuscii a varcare la soglia della mia camera avevo sedici anni. All’inizio non riuscivo a muovermi molto. La mia essenza, che nella mente immaginavo sempre come un corpo disteso orizzontalmente, si muoveva ondeggiando lungo tutta la mia stanza e alla fine tornava un tutt’uno col corpo. A volte riuscivo a tornare da me, con la forza del pensiero e con la giusta concentrazione, altre volte la mia essenza veniva richiamata bruscamente e dovevo ricominciare tutti da capo.
Superare le barriere più vicine era ancora troppo difficile. Fino a che non mi spinsi oltre la porta. Di solito la lasciavo chiusa, ma per le mie poche capacità superare una barriera fisica era impossibile. Così una notte decisi di lasciarla aperta e fluttuai di fuori, lungo il corridoio e giù al piano di sotto. Il mio corpo mi richiamò a sé poco prima di entrare nella sala da pranzo, alla fine della rampa di scale.
I progressi cominciarono a essere sempre maggiori e tutto divenne più facile. A vent’anni non solo ero in grado di fluttuare per tutta la casa e il giardino circostante, ma potevo anche passare attraverso muri e porte. Ero solo essenza e potevo quello che il mio corpo mai avrebbe potuto.
Ma c’era una cosa che ancora non capivo. Il mondo che visitavo non era esattamente quello che ospitava il mio corpo reale. Vagavo tutta la notte ormai, ma non incontravo nessuno, non c’erano rumori, tutto era immobile. Una notte mi avvicinai al corpo del mio cane, nel mio giardino. Era immobile, ma pensavo dormisse, come ogni altra volta.
Mi sbagliavo. Mi resi conto che vagavo al di fuori del tempo, in un mondo immobile. Il tempo scorreva e l’alba tornava ad affacciarsi, ma per la mia essenza tutto era immobile. Non c’era vita nel mio mondo di buio. Solo le onde che mi cullavano davano un senso di dinamismo a quell’esistenza. La luce del giorno mi riconduceva al mio corpo e tutto riprendeva normalmente. Ma cominciavo a non essere soddisfatto di quel mio inconcludente peregrinare. Essere cullato dall’oscurità non mi bastava. Io volevo viverla appieno.
Cominciai a lasciarmi andare sempre più lontano, alla ricerca di una spiegazione che io stesso pensavo non esistesse. Ero nel buio, nel nulla, quindi era più che logico che nel nulla non ci fosse niente, neanche il tempo. Eppure io c’ero e potevo muovermi quel in mondo-non-mondo.
Poi accadde una cosa ancora più strana. Il mio regno della notte cominciò a svanire, nel senso che il buio cominciò a occupare ogni spazio e ogni giorno mi ritrovavo a fluttuare in un mondo sempre più scuro e impenetrabile. Ma in tutto quel non esistere mi trovavo a mio agio e dopo un po’ anche la ricerca del tempo perse la sua importanza. Tutto stava diventando nulla. Lungo la mia essenza ancora percepivo morbide onde di buio che sapevano cullarmi e farmi scivolare in indefiniti punti di inesistenza.
La vita normale stava perdendo ogni attrattiva e vivevo in modo apatico nell’attesa della notte. Ormai padroneggiavo l’oscurità con estrema abilità e anche ad occhi chiusi, sotto il sole, potevo scivolare nel buio. Ma la notte tutto era più bello e il nulla più intimo.
Qualche giorno dopo il mio venticinquesimo compleanno sperimentai per la prima volta il buio totale. C’era solo la mia essenza, invisibile ombra nel nero della notte, e il buio. Un tutt’uno indistinguibile. E quella strana sensazione di ondeggiare dolcemente, un pulsare lento e continuo. Mi abbandonai a quella sensazione superba. Per la prima volta capii che il nulla era veramente qualcosa. Esisteva e poteva dare piacere. Io vi ero completamente immerso, fuori dal tempo, fuori dallo spazio, fuori da me stesso.
Forse fu proprio questo a rapirmi e a farmi perdere la cognizione di ogni cosa. Tutto era serenità, tutto era quiete e anche i miei pensieri cominciarono a indebolirsi, a divenire parte di un nulla più grande di me.
Ora sono ancora immerso in quell’oscurità totale. Non so quale sia la strada del ritorno, se poi esista davvero un modo per tornare indietro. Non mi interessa poi molto. Il buio è parte di me come io lo sono di lui. Ogni tanto mi viene da pensare a quello che avevo prima, ma tutto dura pochi istanti. Anche pensare ora è difficile, stancante. Non so quanto tempo sia passato, perché qui il tempo non esiste. Qui non esiste nulla. A volte dubito di esistere anche io. Non ricordo nemmeno in quale momento della vita reale sono entrato nel buio. Forse in questo momento sono a letto, ed è notte. Oppure potrei essere nella metropolitana, a occhi chiusi, la testa poggiata all’indietro. Probabilmente non è molto importante.
Forse un giorno tornerò indietro, fuori dal buio, nel mio corpo. Ma è inutile pensarci. Qui credo non esista nemmeno il rimpianto. Se mai ce ne fosse bisogno.
Dopotutto, adesso sono nel buio.
E sono felice.
©
Andrea Franco
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