Lo senti l'odore della terra sulle mani, lo senti il contatto di un bacio sulla tua guancia, il freddo fin dentro le ossa, la stanchezza del viaggio, la sicurezza del ritorno. Lo senti l'odore del cumino, come ti riaccende i ricordi... lo senti.
Il sale che ti rimane sulla schiena dopo un bagno in mare, la sabbia nei piedi, e la visione di quel seno nudo che raramente avevi già visto.
L'odore dell'erba appena tagliata, il fuoco che arde. Lo senti il premere delle mani sui tasti, il premere le mani sul tuo corpo e ogni volta, provarne piacere. Lo senti l'odore del mio corpo appena lavato, non ti appartiene più.
L'odore stantio delle giornate.
Il tuo odore, da cui tutto prende l'essenza, io lo sento e me ne nutrivo, e voglio tornare ad inebriarmene. Torno da te, figlio mio.
Mattia aprì la porta cercando di non farsi sentire dalla mamma, lei era in bagno che lavava qualche panno. Uscì e richiuse la porta. Non si era portato nulla, né qualcosa da mangiare né qualcosa da gettare a terra per rintracciare il percorso in caso il suo piano non fosse riuscito. Ma questo non era nei suoi programmi, lui sapeva che tutto sarebbe andato come doveva, lo avrebbe trovato.
Scese le scale, aprì il cancello del cortile e fu in strada, lo accolse una sensazione di cui ancora non conosceva il nome, era come quando andava alle feste dei compagni d'asilo, i primi minuti li passava intontito cercando di orientarsi in quella confusione che non gli era propria; a lui piaceva il tepore dei baci della sua mamma e la protezione che la voce del suo babbo gli provocava: ma ora non c'era più.
Quella mattina Mattia aveva litigato con la mamma, le aveva rimproverato di aver fatto andar via il suo babbo, lui lo voleva, voleva che lo abbracciasse e lo prendesse in braccio “certo che voglio bene anche a te mamma” le rispose ingrugnato, “ma voglio anche babbo” e la mamma si rifugiò in bagno con la coda fra le gambe.
Mattia uscì dal paese e continuò a camminare lungo un prato, non c'era sentiero, ma lui seguiva una sua traiettoria invisibile che l'avrebbe portato dal suo babbo – ne era certo.
Finalmente era finita anche questa giornata, non ne potevo più. Il problema non era solo il lavoro che mi stava logorando fisicamente, ma erano degli strani pensieri che mi si erano insinuati dentro e non ne volevano sapere di andarsene. Era tutta la mattina che pensavo a mio figlio, avevo anche provato a chiamare Eleonora per cercare di convincerla a vederci, ma non ero riuscito a parlarle. Il cuore mi batteva all'impazzata all'idea, ma lo dovevo fare, non avrei retto un altro giorno senza la mia famiglia, certo pure lei mi mancava. Salii in auto, chiusi la portiera e mi sistemai, feci un lungo sospiro ed accesi l'auto.
Dopo pochi chilometri, senza accorgermene andavo a centoventi su di una piccola strada fuori città, c'era un lungo rettilineo con a bordo solo campi. Mi era sempre piaciuto andare forte in auto, ma col timore costante che potesse succedere qualcosa, “ e se sbucasse un bambino da una casa, da un prato?” ma questo non mi aveva mai dissuaso dallo spingere il pedale.
Iniziò a piovere, i miei pensieri persistevano, nulla li avrebbe lavati via, dovevo riconciliarmi.
Mattia aveva trascorso gran parte della giornata a camminare, gli piaceva, era abituato a fare lunghe passeggiate con il suo babbo, lungo la spiaggia, cercando conchiglie; una volta riuscirono addirittura a trovare una stella marina.
Era quasi arrivato alla meta. Ricordava che un pomeriggio, dopo esserlo venuto a prendere all'asilo il suo babbo lo aveva portato dove lavorava, si era dimenticato qualcosa ed erano andati insieme, a riprenderla.
Mattia stava attraversando un campo cercando di arrivare in fondo dove c'era il lungo rettilineo che lo avrebbe portato a destinazione.
Iniziò a piovere, Mattia rivolse lo sguardo al cielo un po' ingrugnato, lui aveva solo cinque anni ma sapeva con chi prendersela, il suo babbo gli aveva raccontato una sera prima di addormentarsi, la favola del signore della pioggia, evidentemente quest'oggi era triste. Cercò di allungare il passo ma iniziava ad essere stanco, era a pochi metri dalla strada quando senti un forte rumore, era simile ai fuochi d'artificio che avevano fatto scoppiare tutti assieme all'anno nuovo, e poi vide piombargli addosso un gigantesco affare.
Come avevo potuto abbandonare mio figlio? Mi venne alla mente che già un'altra volta era successo, lui aveva quasi tre anni, era il primo giorno d'asilo, Eleonora e io lo lasciammo disperato tra le braccia della maestra mentre lui mi guardava supplicando. Ma questa volta era stato peggio.
Un gatto mi ridestò dai pensieri, ma ormai era tardi, spinsi con tutta la forza sul freno – per istinto – l'auto a ruote bloccate scivolò sull'asfalto fino a quando mi capottai e finii nel prato, su un fianco. Non riuscivo a muovermi, ero bloccato completamente quando, mi spaventai per un istante. Vidi una piccola mano entrare dal finestrino rotto, poi un'altra mano e poi un volto, era un bambino. Persi conoscenza.
Mi svegliai sul letto dell'ospedale, era sera, non avevo la mente fresca, mi ci volle un po' per capire cosa era successo, ma tutto fu interrotto da una voce “babbo, babbo stai bene?” mi girai verso destra abbassando lo sguardo e vidi mio figlio, seduta poco distante, Eleonora. C'era la mia famiglia al mio fianco, e mentre mi misi a piangere, risi, perché ero felice, perché forse qualcosa è cambiato.