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Come Lucybel divenne Lucybel
di Paolo Maffei
Pubblicato su SITO


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COME LUCYBEL DIVENNE LUCYBEL

 

 

Lucybel aveva un terribile segreto che non aveva mai confidato a nessuno, perché nessuno le avrebbe creduto.

Aveva scoperto di essere un  fumetto.

Copie gratuite, senza indicazione dell’autore, circolavano da anni nei bar, nelle stazioni, nelle pensiline degli autobus, infilate sotto i tergicristalli di alcuni fortunati che erano riusciti a parcheggiare all’IperCoop di sabato pomeriggio.  Luoghi popolari e anonimi, ma che forse, se collocati su una mappa della città, avrebbero disegnato, unendo i puntini, un’enorme “LV”, “Lucybel la Vendicatrice”, la sigla rossa che la nostra eroina portava cucita sul costume:  attillato e nero, senza cappuccio, solo una mascherina alla Robin, perché la lunga criniera da moicano doveva intimidire i malvagi e disegnare onde di fuoco mentre correva veloce.

Il fumetto di “LV” era di ottima fattura grafica, in bianco e nero. E le sue copertine erano entrare nell’immaginario popolare. Come da migliore tradizione fumettistica, la Nostra era stata immortalata in numerose pose plastiche: più di una volta mentre sferrava calci volanti a poliziotti corrotti, la loro faccia piegata di lato e stravolta dall’impatto del super-piede, i denti che schizzavano via come sassolini seguendo sottili scie di sangue, gli occhi sbarrati dal terrore. Un terrore per la punizione che li attendeva in seguito,  la tremenda Vendetta di Lucybel! Mio dio, chi non si sarebbe cagato sotto?! Altre volte il tratto elegante del disegnatore aveva colto l’istante in cui un coltello alla Diabolik, lo “swisssss” ad accompagnarne la traiettoria, era stato appena scagliato dall’eroina dritto verso la fronte sconvolta di un balordo, che stringeva prigioniera una inerme bambina in lacrime.  Ma su tutte, passò alla storia quella in cui Lucybel, sospesa in salto, le gambe divaricate alla Uomo Ragno, dirigeva tutta l’inarrestabile energia delle braccia, un tubo dell’acqua stretto a due mani, contro il cranio di un ottuso pedofilo, riducendoglielo in una istantanea poltiglia. Lo “Sbraaang!“ del tubo contro il cranio e lo “Splaaaat!” del cervello che esplodeva da tutte le parti  sottolineavano col loro muto linguaggio l’epica icona. “Ficooo!”, “Dagli così!”, “Grande Lucybel! Ammazzali tutti!” erano stati i commenti che i lettori avevano lanciato all’interno dei loro abitacoli, in uscita dal parcheggio IperCoop, incuranti dei clacson isterici che chiedevano il passaggio.

Lucybel la Vendicatrice, già dalla sola copertina, risvegliava istinti ed emozioni ataviche, nascoste in profondità nel sangue dei lettori da millenni di civiltà.

Non era raro vedere la sigla “LV” scarabocchiata a spray sui muri dei palazzi da ragazzini infervorati. Gli stessi che poi urlavano: “Fermati impostore, affronta il tuo destino!”, inseguendosi sulle loro bici,  con mantelli dai colori improbabili che svolazzavano a vortice. Già perchè il mantello giallo della Nostra, la sigla “LV” in nero, dava il coraggio di affrontare battaglie impossibili.

Il volto di Lucybel, nonostante la mascherina, era spesso stravolto dalla furia: le sopracciglia inarcate in modo quasi diabolico, ma soprattutto i denti stretti come una morsa mortale di incontenibile violenza sterminatrice. Dagli occhi neri sbarrati dall’ira ci si convinceva che nessuno, dico nessuno, avrebbe potuto fermarla. Nemmeno i proiettili dei cattivi, che rimbalzavano sempre contro la sua pelle d’acciaio, o che Lucybel scansava furente con l’avambraccio come fossero fastidiosi insetti: “Credi di fermarmi, ignobile macaco?!”. Lucybel aveva un linguaggio insolito, ma che la rendeva, se possibile, ancora più carismatica. Un vernacolo alquanto colorito, estremo, spesso surreale, che l’abile mano del disegnatore misterioso racchiudeva nella classica nuvoletta. E che le maestre preoccupate ritrovavano nei temi dei piccoli alunni.

In poco tempo era diventata un mito metropolitano. Per fare paura ai bambini capricciosi si diceva “Guarda che chiamo Lucybel!”, e il bambino, per quanto ancora ignaro, si taceva subito.

I titoli delle pubblicazioni erano vari, ma simili a quelli truci dei polizieschi italiani degli anni ‘70: dai più classici, come “La Vendetta non attende” o “Sparo nella notte”, ai più aggressivi, involontariamente demenziali come “Ti apro il culo con un crick, bastardo!” o “Preparati, tra poco diventerai uno stupido eunuco!”. I racconti si svolgevano quasi sempre di notte, territorio prediletto dell’eterna lotta Bene-Male: eroi mascherati contro cattivi, sullo sfondo l’immancabile gatto terrorizzato che si rifugiava dentro un bidone dell’immondizia: “Meooorw!”

Lucybel sapeva di essere reale, certo. Ma  di recente aveva scoperto, sconvolta, di essere un fumetto, il frutto della matita di un misterioso Creatore.  Sembrava reale, la sua vita, ma non lo era.  Lucybel sentiva effettivamente la forza del suo pugno scaricarsi come dinamite contro i nemici, istantanea sentenza di morte. Effettivamente parlava, urlava bizzarri improperi. Effettivamente dava da mangiare al suo piccolo cane Sentenza, ed effettivamente si sforzava di far proseguire per il meglio la sua relazione con PedroMiguel, il suo ragazzo italo-peruviano, scuro e statuario. Ma non era la vera realtà, era un limbo, un surrogato di vita. Avventurosa, entusiasmante, pericolosa, ma un surrogato. Come il caffè d’orzo, come la PepsiCola, come le pugnette, come la birra zero alcool. Come l’aria condizionata rispetto all’incantevole brezza marina che ti accarezza il volto nelle sere d’estate...

Se ne era resa conto un giorno quando, rivolgendosi a PedroMiguel per chiedergli se aveva visto il suo coltello seghettato, non aveva ricevuto risposta. “E’ un po’ distratto, il mio bel Pedro…” aveva pensato Lucybel, “come lo sono sempre gli uomini quando una donna rivolge loro parola”. Insistendo una seconda volta, lui le aveva quindi risposto, un po’ scocciato, come sempre fanno gli uomini quando le donne entrano nel loro mondo privato: “Mio amor, è in cucina il tuo coltello. Dove può mai essere, Lucyble mia?”. Poi PedroMiguel aveva continuato a leggere beato il suo romanzo sulla psicologia dei cani (Problema: Sentenza pisciava sempre sul suo pigiama. Era ricerca di attenzione?). Fin qui normale vita di coppia, ma il problema stava nella storpiatura di un nome così fiabesco come il suo: da Lucybel in Lucyble. Con quel “-ble” finale che aveva lo stesso suono del “bleah!”, dell’esclamazione di disgusto…ma lei era da amare con “mucha passion”, non era ripugnante! “Vero Pedro?!” gli aveva più volte chiesto la Nostra, ma Pedro sembrava non capire, e rispondeva sinceramente: “Ma certo Lucyble! Perché me lo chiedi?”. Una storpiatura dislessica che Pedro Miguel aveva usato inspiegabilmente per giorni e giorni, senza rendersene conto.

In seguito Lucybel non ci aveva più pensato, complice l’arrivo imminente della sua stagione preferita, l’estate. E proprio per la calura estiva la nostra eroina una sera era andata a farsi due passi, lungo gli argini del fiume vicino. Lì, passeggiando a fianco di un piccolo canneto, aveva trovato alcune pagine strappate dell’ultimo numero di “LV”: le aveva raccolte, e dal momento che gli eroi non possono conoscere i fumetti che narrano delle loro gesta, era rimasta sbalordita nell’accorgersi che qualcuno la disegnava così bene. Si sa, la notorietà porta ammiratori e tante soddisfazioni! Ma sfogliando bene,  a uno sguardo più attento, quelle vignette ritraevano qualcosa di già accaduto dentro le sue mura domestiche, che nessuno poteva avere visto! E soprattutto, negli stessi (identici!) dialoghi raccolti nelle nuvolette, Pedro continuava a storpiare il suo nome in Lucyble! Come era possibile? Era normale che qualcuno che aveva assistito a qualche sua azione di giustizia ne volesse riproporre un racconto a disegni, ma certi dettagli…come facevano a saperli? Le stesse ambientazioni domestiche,  dettagliate al millimetro, le stesse parole. Lucybel pensò a qualche telecamera nascosta, a qualche cimice, ma l’abitazione era costantemente monitorata da lei in persona, tutti i giorni, visto il mestiere che faceva e le possibili ritorsioni da parte dei malavitosi, a cui assestava batoste su batoste… Spie le escludeva, perché solo lei, Sentenza e PedroMiguel vivevano in quell’appartamento inaccessibile, non avevano neanche la domestica…Spiati da fuori con binocoli o roba  simile era impossibile, troppo fitta e alta la siepe del giardino. “Cosa può ess..”, la frase che Lucybel stava ripetendo riflettendo fra sè fu interrotta da una intuizione tragica. Raggelò, cominciò a tremare, un’angoscia fredda le serrò il respiro, rendendolo affannoso e breve. L’ultima fra le pagine che aveva raccolto conteneva una didascalia in basso in cui l’autore del fumetto si scusava, in quanto per un suo difetto di dislessia aveva sbagliato a scrivere, senza accorgersene,  quasi tutti i dialoghi di quell’ultimo numero: in luogo di Lucybel aveva scritto Lucyble.  Il correttore delle bozze era ammalato, il numero era in ritardo e…era successo! Si scusava ancora con i lettori dell’inconveniente, sarebbe stata la prima ed ultima volta…

Passò una buona mezzora a riflettere. Non c’era altra spiegazione logica. Per quanto fosse assurdo la nostra eroina aveva la prova schiacciante di essere un fumetto, mossa dalla stessa trama dei racconti di cui era protagonista. Un piccolo, minuscolo indizio che aveva aperto una voragine nel sistema, una terribile inezia sfuggita all’autore. Il prossimo numero sarebbe uscito con questa sua passeggiata lungo il fiume, ne era sicura, ma non certo con questo errore che svelava tale mostruoso abuso (almeno tale agli occhi di chi lo subisce in prima persona…).

“Figlio di puttana, figlio di una grandissima puttana!” aveva esclamato la Nostra rivolta all’Autore Che Tutto Muove, il pugno serrato rivolto verso il cielo, finalmente illuminata dal dettaglio fuori posto. La certezza di non avere una vera vita, che non era lei a guidare la sua esistenza, ma uno strambo fato deciso da un disegnatore, l’aveva ferita a morte. Com’era comprensibile. Povera Lucybel! Grosse e copiose lacrime le avevano quindi solcato il viso, formando goccia a goccia, sulla rena del bordo del fiume, una triste grande pozza a forma di cuore trafitto da un pugnale…

Era disperata per quella tragica verità, per quella sua esistenza a metà che ogni personaggio dei fumetti, come lo era lei,  crede ovviamente reale. Lucybel si rifugiò nelle considerazioni filosofiche: Paperino era isterico, ma aveva voluto esserlo veramente, autonomamente? E lo stesso Paperone, era quindi veramente avaro o lo disegnavano in quel modo?

E ancora: era dotata lei, la creatura Lucibel, del libero arbitrio, sempre ammesso che esistesse per i personaggi dei fumetti? Disponeva di una sua volontà? E soprattutto: PedroMigule l’amava veramente o era costretto a farlo da una trama?

Quale strazio. Ossessivamente, visualizzava il suo cuore impacchettato con pagine di fumetto, un po’ come le frattaglie che il suo macellaio si sbrigava ad avvolgere con fogli di giornali vecchi… . Prigioniera della sua stessa vita.

Dopo vari ragionamenti angosciosi, Lucybel aveva però deciso di continuare così, di fingere che nulla fosse successo, che quell’interruzione breve e casuale del sogno che era la sua vita, non fosse mai accaduta. Cosa sarebbe accaduto se si fosse svegliata? Temeva di perdere PedroMiguel, ma anche i suoi superpoteri, il coraggio di combattere…l’adrenalina che muoveva i suoi salti leggendari, che fine avrebbe fatto? Non osava pensarci. Finora il suo occulto padrone era stato magnanimo con lei. Lucybel aveva la miglior vita possibile, seppure fittizia. Per di più, ora che il fumetto aveva quasi 30 anni di vita, la Nostra non aveva un filo di rughe nè cellulite. Intuiva che avrebbe potuto diventare vulnerabile. Avrebbe potuto invecchiare. Morire. E che la stessa sorte potesse accadere anche al bel PedroMiguel non lo poteva sopportare, per lui no!. Era così bello e premuroso, il suo matador. “Sempre insieme…” ripeteva spesso fra sè prima di addormentarsi, la mano ad accarezzare il petto di PedroMiguel già nel mondo dei sogni, illuminato fiocamente dalla luce dell’abatjour.

Le avventure erano quindi continuate. Malvagi di ogni sorta, ladri, pervertiti, truffatori, papponi, avvocati, tutti erano finiti in ginocchio, tremanti, dinnanzi al giudizio di Lucybel la Vendicatrice. Che inevitabilmente li aveva mandati all’Altro Mondo (o meglio all’effimero inferno dei fumetti, ora lo sapeva…). Con estrema violenza. Uno splatter su china, il sangue nero che volava da tutte le parti, assieme alle membra mozzate o ridotte a purea irriconoscibile.

Show must go on: ogni episodio finiva, ancora una volta, con Lucybel che marchiava con uno stiletto la sigla “LV” sulle chiappe senza vita dei giustiziati…

Non era male, in fondo. “Ammettilo, Lucybel” si ripeteva per giustificarsi.

In particolare, ricordava con piacere l’episodio n.23, “Giustizia è fatta”,  in cui aveva inseguito un truffatore di povere vecchine in fuga. Similmente al geniale surrealismo tipico di Jacovitti, in una sola mossa aveva immobilizzato e sollevato il manigoldo, lo aveva ripiegato su se stesso fino a infilargli la testa nel culo, trasformandolo così in un grosso ragno cieco a quattro zampe. Proprio come fanno i clown quando modellano i palloncini per far divertire i bambini. Poi lo aveva lasciato andare. “Vai ora, ti perdono…” riportava la nuvoletta della nostra eroina. A chiudere la storia, la scritta “The End” dell’ultima vignetta sormontava il neo insetto, ritratto in fuga disperata e circondato dalle grida di scherno della gente del quartiere, mentre cozzava contro ogni sorta di ostacolo. Giustizia era stata fatta di nuovo. In realtà, Lucybel non lo aveva risparmiato ma, come un gatto in tuta nera e mantello giallo, si era solo divertita ad allungarne di poco la penosa fine: a guardare bene infatti, nello stesso ultimo riquadro a china, il malvivente, assurdamente ricurvo dentro di sé come in un quadro di Bosch, si stava dirigendo ignaro verso le rotaie del treno locale…il fumetto “Ciuuuuff!!” sullo sfondo, a preannunciare l’arrivo del convoglio,  garantiva al lettore una fine da macello. Ma doverosa, secondo il sacro senso popolare di giustizia, per il quale il sangue deve essere versato a mondare il torto subito.

Ma, nel numero del giungo di tre anni dopo, gli specchi dell’illusoria vita di Lucybel si incrinarono. Fino a rompersi del tutto.

Nel numero 54, “Piccoli malviventi crescono”, stava inseguendo a tutta velocità due membri di una baby gang locale e li aveva quasi raggiunti. Già pregustava la violenza pura con cui li avrebbe ridotti ad una unica e informe polpetta, quando con la coda dell’occhio intravide uno spettacolo osceno. Un tradimento unico, una tortura estrema perpetrata contro di lei dall’Autore. Il corpo ormai senza vita di PedroMiguel stava precipitando da una vicina terrazza sopraelevata, un coltello nella schiena. Forse una vendetta per una esecuzione di vecchia data, forse una rapina. In un fumetto del genere i pericoli non mancavano, ed erano sempre in agguato. Ma Pedro ne era rimasto sempre fuori, grazie a una sorta di tacita immunità. Un privilegio che era alla base della felicità di cellulosa di Lucybel.

Lucybel quindi si fermò, immobile. Non era furiosa. Era fredda e calma. La sua profonda disperazione, insieme alla voragine nera del dolore, si erano semplicemente tramutate in un istante in una enorme lama mortale, pronta all’unica e vera vendetta che meritasse di essere compiuta. Finalmente l’aveva capito. Non soccorse Pedro, non lo pianse, perché non era necessario. Ora. Trattenne le lacrime. Il piano finale, quello che aveva in serbo da anni nel caso fosse stato necessario attuarlo, non lo prevedeva perché era innanzitutto la Vendetta a dover trovare forma. Poi sarebbe venuto il resto. Così almeno sperava.

Estrasse una grossa matita rossa con inciso un teschio d’oro, da lei stessa creata di nascosto dallo sguardo vigile dall’autore.  Grazie ad essa, incredibilmente,  disegnò un water nello spazio vuoto della realtà-vignetta, con un tratto infantile ma efficace. E ci gettò dentro l’ultimo numero di “LV”,  che ormai da anni, di volta in volta, portava sempre con sé, per  ricordarsi costantemente di quanto la sua vita fosse il surrogato di una vita vera; o come testimonianza aggiornata su carta dell’occulto potere dell’Autore sul dipanarsi della sua esistenza. Poi, dopo aver tratteggiato la catenella e il pomello,  tirò l’acqua. “Fanculo”, pensò. Il fumetto finì nelle fogne di cellulosa, che si diramavano in profondità come in ogni città inventata. Ora, dopo quel gesto simbolico ma fondamentale,  era libera dalla dipendenza verso l’Autore. L’inizio della fine. E grazie ai disegni della sua matita rossa, come aveva scoperto in vari tentativi clandestini, poteva crearsi una realtà propria con cui interagire e dominare gli eventi. La matita non aveva poteri speciali, era una matita normalissima, solo esteticamente un po’ tamarra: semplicemente l’autore non aveva pensato che un personaggio potesse ribellarsi al punto da disegnare sulle sue stesse tavole un destino diverso da quello già deciso da lui.

Che il piano finale avesse inizio. Tornò indietro e corse a tutta velocità verso lo sfondo indefinito della vignetta. Aveva notato che un palazzo apparentemente anonimo ricorreva in tutte le vignette di “LV”, dall’origine a oggi. Sempre lo stesso, era riuscita ad individuarlo con anni di osservazione e l’occhio di eroina quale era. Sospettava fosse la tana dell’Autore. Raggiunse il palazzo in pochi balzi, saltando come un gatto da un tetto ad un altro, nella plasticità perfetta della tuta nera. Non poteva interagire col portone d’ingresso perchè non era previsto dalla trama. Ma con la matita rossa disegnò come meglio poté una sorta di entrata tonda e irregolare. Si mise a gattoni e l’attraversò. Ce l’aveva fatta, era dentro. Imboccò di volata le scale. La mente era vuota di ogni pensiero, era solo una lama con le gambe. Una enorme lama affilata.  Giunse all’ultimo piano, guidata dall’istinto perfetto della donna a cui hanno ucciso l’unico uomo mai amato nella vita. E a cui hanno rubato la propria. Imboccò a sinistra un lungo corridoio percorrendolo secondo una accelerazione inconcepibile, che la portò a una velocità mai raggiunta prima. Nello stesso istante del tremendo impatto con la porta che conduceva all’ultima stanza, dove intuiva ci fosse l’Autore, disegnò un cerchio perfetto che le permise d’entrare. In realtà Lucybel percepiva tutto rallentato rispetto alla realtà di quel fumetto infame. Tutto le veniva facile e spontaneo, come quando giustiziava i pervertiti di ogni specie.

L’Autore era lì, chino sulla sua scrivania di lavoro, cappuccio in testa. Aveva visto il piano di Lucybel emergere per magia dalle sue tavole, sapeva di non poter far nulla per cambiarlo. Aveva tentato dapprima di cancellarlo, ma niente, il tratto generato dalla matita della Nostra era indelebile. E rosso sangue.

Il silenzio si ruppe:“Credi che la mia vita sia migliore della tua, Lucybel?” disse l’Autore, senza staccare gli occhi dalle tavole che stava assurdamente ultimando. “Ti ho concesso un’esistenza meravigliosa: bellezza, salute, forza, avventura, amore, piacere…”.

“E l’immortalità…”soggiunse, sempre a capo chino. Soffiò via qualche avanzo di gomma.

Lucybel non aveva intenzione di parlare. Parlava in sua vece il silenzio e il suo corpo perfettamente immobile.

“Si, il cane…è vero, forse quello ha rotto la perfezione…ha ha ha“ disse l’Autore in vena di facile humor.

Nessuna risposta.

“E in merito all’amato Pedro, beh, sappiamo entrambi che chi crea può distruggere, chi da può togliere. E’ nella natura di chi è Creatore. Io posso. Ho voluto. Non avercela con me, Lucybel…era un mio diritto. Una mia prerogativa.”

Nessuna risposta, anche se avrebbe voluto confoderlo col linguaggio fantasioso e singolare con cui di solito sfotteva i delinquenti. Ma non era necessario.

Anche Lucybel era in vena di humor. A passi lenti ma sicuri si diresse vicino alla scrivania. Disegnò una sedia assai sbilenca, la prese e la poggiò sopra il piano di lavoro di Colui che tutto muove. Poi vi salì sopra, e in un equilibrio precario disegnò nello spazio vuoto sopra di lui un’enorme incudine, su cui scrisse sopra “1000 tons”, mille tonnellate di peso, ridacchiando al ricordo di Willy il Coyote. Poi vi disegnò sopra un sottile filo che, arrivando fino al soffitto,  ve la ancorava tramite un ridicolo nodo a fiocco.

L’Autore vide comparire tutto questo sulla sua penultima tavola, in color rosso sangue. In quella  tavola c’era ovviamente anche lui stesso, chino intento al lavoro, la gigantesca l’incudine sulla testa. L’ultima tavola stava prendendo forma, terribile.

Lucybel scese e si riportò davanti alla scrivania per l’esecuzione. Con la matita disegnò una grossa scure nello spazio della vignetta-realtà. Le diede una forma esageratamente grande. L’impugnò, la soppesò per bene e la lanciò di scatto verso il sottile filo. La scure viaggiò rettilinea, perfetta nel suo roteare. Colpì il filo che si recise di netto, facendo precipitare in una frazione di secondo quella mole sospesa.

Dove prima l’autore era seduto apparve un enorme “Splaaaat!!” onomatopeico, affiancato da schizzi copiosi di sangue diretti fino al soffitto,coma una macabra fontana. Lucybel si avvicinò di nuovo. Di lui non rimanevano che le due mani e i due piedi che uscivano dall’incudine. Il resto era ridotto a un sottilissimo grumo di ossa, sangue, organi interni. L’apoteosi dello splatter. Sul soffitto i fiotti di sangue avevano disegnato un cerchio assurdamente perfetto. “Così sia” disse piano Lucybel, guardando ciò che rimaneva del suo piccolo dio personale. Avrebbe voluto tracciargli la “LV” sul culo, ma ormai era impossibile. Non c’aveva pensato.

L’Autore era morto, e con lui il suo mondo. Lucybel d’altro canto ora coincideva del tutto con la realtà degli umani, lo sapeva perché tutto stava riprendendo il colore. Una meraviglia rispetto al solito bianco e nero.

Aveva perso i suoi superpoteri, sarebbe invecchiata e morta. Avrebbe sofferto. Ma non da sola.

Il potere della matita rossa col teschio dorato c’era ancora. Cercò la tavola dove PedroMiguel, il suo Pedro, moriva ammazzato. La trovò e la corresse, tra lacrime di gioia, cambiando i connotati al corpo che precipitava col pugnale nella schiena. Gli fece la faccia di un delinquente che cercava da tempo. Quei soliti tratti infantili, ma volutamente più brutti, rappresentavano un ottima soluzione.

Lo aveva salvato. Ma, dubbio che la torturava fin dalla prima ideazione del piano finale, tornando a casa, Pedro l’avrebbe riabbracciata come sempre? Sarebbero davvero invecchiati e morti insieme?. “Sempre insieme…” ripeté fra sé, prima di spezzare la matita rossa col teschio d’oro. Non doveva più correggere niente, doveva vivere la realtà così com’era. E basta. Senza nessuna certezza.

Di corsa, affannandosi come si affannano le donne normali quando corrono dall’uomo della loro vita, giunse davanti alla porta di casa. Suonò il campanello eccitata e ansiosa: PedroMiguel le avrebbe aperto la porta o se n’era andato per sempre?

Suonò più volte. Nessuno. Forse era …

Si mise a piangere dalla gioia quando Pedro, come se nulla fosse, in orrende braghette corte a fiori da turista tedesco, la accolse sul pianerottolo, in mano  il pigiama intriso della piscia del cane. Sentenza era sicuramente nascosto da qualche parte, in preda ai rimorsi. “Che c’è da piangere, mio amor?” chiese PedroMiguel, sorridendole come sempre, gli occhi grigi da bambino che guizzavano come pesci nel loro mare aperto.

 

 

 

 

© Paolo Maffei





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