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il trampoliere
di Federico Bezzi
Pubblicato su SITO


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Il trampoliere

O Convitato! Quest’anima si è trovata
sola sull’ampio, ampio mare:
tanto sola, che Dio stesso
pareva appena essere là.

(S.T.Coleridge, The Rime of the Ancient Mariner)


All’alba mi ha detto: sulla spiaggia.
Io non devo fare altro che presentarmi puntuale, al resto pensa lui: anche le armi le porta lui. Forse dovrei starmene qui ad osservare la notte, questa notte che non scolora, che non cede al giorno nemmeno per un momento, e pentirmi di come sono andate a finire le cose. O dormire, riposare almeno un po’ per essere lucido a sufficienza da avere salva la vita domani. Devo dire che all’inizio la paura non aveva questo aspetto, ma un sorriso lucido di beffa, come se considerassi me stesso alla stregua di uno di quei bicchieri che traballano sul tavolo dopo che si è giocato con la tovaglia, togliendola con uno strattone da sotto l’intero servizio da pranzo. Sapete, è per qualcosa del genere che sono in questo posto oggi: ed è per lo stesso motivo che domani mi giocherò la vita con un uomo, un altro uomo, triste quanto me, se non addirittura di più. E’ una cosa che tutti chiamano azzardo, anche se spesso e volentieri a me non è mai sembrato che ci fosse nulla di tanto rischioso. Domani però sarà diverso. Domani in gioco ci sarò io, e non più ciò che possiedo.
Domani, sì, domani: all’alba: sulla spiaggia.
Dell’uomo che devo affrontare preferisco non fare il nome, perché c’è chi dice che pronunciare il nome del proprio avversario prima di un duello porti sfortuna. All’incirca cinque giorni fa, se già non ho perso il conto, facevamo entrambi parte dell’equipaggio di una nave mercantile. La versione ufficiale diceva che trasportavamo ferro grezzo, ma in realtà ciò su cui eravamo imbarcati solcava l’Artico trascinandosi dietro un carico illegale di plutonio. Io mi ero imbarcato a Vadsø, nel estremo nord della Norvegia: bazzicando nei pressi del porto ero venuto a sapere di una spedizione diretta in Alaska, con un solo scalo a Novyj Port, una minuscola cittadina posta all’interno di uno strettissimo golfo della Siberia settentrionale. A chiunque solcasse quei gelidi mari artici da un po’ di anni il nome di Novyj Port portava alla mente soltanto traffici illeciti: questo ovviamente per me non fu affatto un problema, perché dovevo assolutamente raggiungere l’America e non avevo denaro a sufficienza per farlo.
Ora, l’uomo che domani mattina affronterò in duello lo conosco da parecchio tempo, è un uomo che ha navigato molto su queste tratte polari. Conosco il suo nome, ma in verità non so molto altro di lui, tranne che era sempre stato uno che ci sapeva fare sia con i dadi che con le carte. Spesso ci incontravamo la notte per giocare nelle stive più nascoste delle navi, assieme ad alcuni degli altri membri dell’equipaggio. Ricordo persone che dopo essersi fatte svuotare le tasche si indebitavano ancora di più garantendo sullo stipendio di fine traversata, un modo, questo, fatto anche per poter continuare a giocare tutta la notte.
Cinque giorni fa, compiuto ormai lo scalo a Novyj Port e ripartiti con il carico di plutonio, successe che presso la piccola bisca organizzata anche su quella spedizione fece visita niente meno che il capitano della nave, un norvegese cattivissimo dallo sguardo folle e la barba tutta strinata, perché pare che amasse passare le notti bevendo vodka al lume di una candela che egli teneva stretta in mano, chiuso nella sua cabina. Non era quella la prima volta che il capitano scendeva nelle segrete di una nave a giocare con il proprio equipaggio: in realtà il vero problema era un altro, ovvero che si diceva in giro che egli non sapesse perdere. Quella notte non eravamo in molti al tavolo da gioco, e tra i pochi c’eravamo io e l’uomo che domani sarò costretto ad affrontare in duello. Quest’ultimo è uno dei più esperti truffatori di carte che io abbia mai conosciuto: di persona l’ho visto svuotare tasche che scoppiavano letteralmente di denaro, senza che quei malcapitati dei suoi compagni di gioco si accorgessero di niente. Molto di quello che so su come fregare a carte l’ho imparato guardandolo durante tutti questi anni di traversate artiche, ed una delle regole fondamentali che ho appreso è che se per caso sei così fortunato da trovare un appoggio tra coloro che stanno giocando, non te lo devi lasciare sfuggire per niente al mondo, perché con l’aiuto di un socio le probabilità di successo sono almeno raddoppiate. Quella sera, che ci crediate o meno, io divenni il suo socio: entrambi lo avevamo capito appena ci eravamo seduti al tavolo, era bastato uno sguardo, uno solo.
E per un po’ parve andare davvero bene: sbancavamo tutti, capitano compreso.
Poi, all’improvviso, quel cagnaccio di norvegese saltò su da sedere ed estraendo una pistola dall’interno della giacca ce la puntò addosso. Era furioso: ribaltò il tavolo: io notai i suoi gradi da capitano un poco scuciti che facevano capolino da entrambe le spalle ben piantate.
Ci fece legare e ci porto sul ponte. Era l’alba, anche se la notte serbava ancora la sua immensa ombra su tutto l’orizzonte: ma non ci sarebbe stata più alba di quella almeno per i quattro mesi successivi, quando sarebbe stato il giorno, e non più la notte, a non cancellarsi dal cielo per un intero mezzo giro d’universo. Il grande buio invernale incombeva su tutto, e le luci della nave avevano un aria così rassicurante che l’equipaggio era solito muoversi soprattutto al di sotto di esse, come un esercito di insetti notturni. Il capitano rimase in silenzio per un po’, assaporando il freddo tagliente che gli scompigliava la folta barba grigia. Poi, con un fervore deciso, disse che non poteva permettere a nessuno di fregarlo, e che noi ci saremmo pentiti amaramente di averlo fatto: di aver tentato di farlo, si corresse poi. Non troppo lontano sull’orizzonte si stagliava infatti la forma indefinita di una piccola isola, come una macchia nera di catrame. Alle latitudini artiche esistono parecchie isole grandi quanto uno sputo, sulle quali non esiste anima viva, veri e propri pezzi di terra ghiacciata sperduti sullo specchio piatto del polo: molte di queste isole nemmeno sono classificate nei registri nautici e nessuno sa della loro esistenza. Il capitano aveva deciso che avrebbe abbandonato me e l’uomo che domani affronterò in duello sulla piccolissima isola a cui la nostra nave era ormai prossima.
Una scialuppa ci portò a terra.
Il capitano norvegese rise di gusto quando dalla poppa della nave ci salutò con un fazzoletto bianco, coprendoci allo stesso tempo di insulti e maledizioni. Ci aveva lasciato un bagaglio a testa, ma io sapevo di avere nella mia valigia soltanto qualche calza di lana ed una Bibbia. Il capitano ci concesse anche una di quelle grosse bottiglie di vodka, perché, disse lui, non gli piaceva l’idea che morissimo di sete: preferiva che morissimo lentamente, soffrendo per dei giorni interi.
La nave ben presto sparì nell’oscurità dell’orizzonte.
Il mio compagno di sventura si allontanò senza proferire parola e andò a ripararsi in una specie di piccola grotta: con sé si era portato via anche la bottiglia di vodka. L’isola era tutta scavata dal mare e non impiegai molto a trovarmi anch’io un posto abbastanza riparato dove dormire. Mi accucciai nella conca come un cane nella cuccia. Fuori il freddo era pungente, lo si poteva sentire penetrare attraverso i vestiti e addentare la carne indebolita.
Mi addormentai con nelle orecchie il ruvido fischio del vento.
Al risveglio la notte non si era rischiarata nemmeno di un po’, e tutto intorno era buio allo stesso modo di prima. A tentoni tornai nel luogo dove la nave ci aveva scaricato, una specie di piccola spiaggia di ciottoli. Là ci trovai il mio compagno, l’uomo che domani forse riuscirà ad uccidermi. Il cielo era coperto, e né le stelle né la luna potevano darci una mano ad orientarci su quell’angusto pezzo di terra. Guardai il mio compagno in quel poco di luce che il cielo rifletteva, e mi domandai dove fosse nascosto il sole in quel momento: saremmo morti su quell’isola, di freddo o di fame dipendeva cosa sarebbe venuto per primo: eravamo confinati su di una roccia spoglia e deserta senza la più pallida speranza di essere tratti in salvo da qualcuno. A parte qualche arbusto di licheni vegetazione praticamente non ne esisteva, e la terra era fredda come il ghiaccio: nessun uccello sarebbe mai passato da quelle parti nemmeno per sbaglio.
Presi la bottiglia di vodka senza chiedere nulla e ne scolai un lungo sorso.
Il mio compagno scoprì di avere con sé una scatola di fiammiferi. Accendemmo un fuoco, e anche se i licheni non bruciavano più di tanto ed il falò andava attizzato in continuazione per evitare che si spegnesse, quel calore e quella luce riuscirono in qualche modo a farci sperare ancora. Passavamo gran parte del tempo a scrutare le ombre dell’orizzonte convinti di poter vedere le luci di una nave venire dalla nostra parte, sebbene sapessimo con certezza che un fuoco di quelle dimensioni non sarebbe mai stato avvistato da nessuno.
Era forse il secondo o il terzo giorno quando, accoccolati attorno al piccolo falò per vincere il gelo, cominciammo a scambiarci qualche parola. All’inizio si parlò di quel figlio di puttana del capitano, di cosa gli avremmo fatto se la fortuna ci avesse concesso di sopravvivere e rincontrarlo. Pensammo a qualche soluzione per trarci in salvo, ma ogni parola detta sull’argomento cadeva nel baratro più profondo dell’impossibilità: non c’era materiale per costruire una zattera, non c’era legna per appiccare un grosso falò, non c’era nemmeno luce per essere visti.
La fame cominciò a farsi sentire prima del previsto.
Decidemmo di esplorare la piccola isola nella speranza di trovare qualcosa di commestibile con il quale riempire lo stomaco. Ci incamminammo a tentoni uno da una parte e uno dall’altra, chini sulla terra a scrutare ombra di cibo.
L’isola doveva misurare da una sponda all’altra non più di una trentina di passi.
Quando arrivai sulla riva opposta a quella dove stavamo noi mi alzai in piedi per sgranchirmi la schiena e vidi il tenue bagliore del fuoco scintillare non troppo lontano da lì: quasi immediatamente ripresi il cammino andando verso di esso, senza aver trovato assolutamente nulla da mettere sotto ai denti. Fu durante quel tragitto di ritorno che, incredibilmente, andai a sbattere la testa contro qualcosa che si ergeva nel mezzo dell’isola. La ferita mi riempì la fronte di sangue, ma quando alzai gli occhi per capire contro cosa avessi sbattuto vidi di fronte a me un lunghissimo palo del quale non riuscivo a scorgere la cima. Intimorito provai a toccarlo: era di ferro, ed era freddo come ogni altra cosa presente sull’isola. Usando entrambe le mani lo si poteva stringere completamente. Non so perché ma provai a strapparlo dal suolo, senza riuscire però a smuoverlo di un solo millimetro.
Con uno straccio che avevo in tasca mi tamponai la ferita.
Chiamai a gran voce il mio compagno. Egli corse verso di me, e quando vide quell’enorme palo ergersi altissimo verso il cielo si gettò a terra in ginocchio. Rimase a fissarlo per qualche secondo: poi scosse la testa incredulo e bestemmiò con amarezza dicendo di non farcela più, di star morendo di fame, di non capire cosa diavolo fosse quella fottuta pertica posta nel mezzo di quella fottuta isola maledetta. Non pianse, ma ci mancò poco che lo facesse. Io mi chinai verso la radice del palo senza dire una parola. Toccando un po’ a caso sentii al tatto una specie di piccolo pulsante: ritrassi subito la mano. Riferii la cosa al mio compagno che, alzandosi da terra, volle subito controllare di persona.
“Secondo te dovremmo provare a premerlo?” gli domandai, mentre se ne stava chinato di fronte a me toccando con cautela la base del palo, “Potrebbe essere un interruttore” aggiunsi.
“Un interruttore?” disse il mio compagno stupito, “Un interruttore di cosa?”
“Questo palo ha tutta l’aria di un lampione” replicai io.
“Un lampione, con tanto di interruttore per spegnerlo ed accenderlo, qui, su un’isola deserta dove nessun altro essere umano ha certamente mai messo piede?” disse il mio compagno senza risparmiare a se stesso qualche risatina di scherno.
“Forse è una specie di faro d’emergenza” aggiunsi io con semplicità.
Restammo in silenzio per dei lunghissimi minuti. Il vento tagliava l’anima di qualsiasi cosa si mettesse sul suo percorso, e per la prima volta ebbi l’impressione che il fischio che emetteva altro non fosse che il lamento delle anime che andava ferendo di luogo in luogo, fino alla piccola isola su cui io e l’uomo che domani affronterò in duello eravamo confinati.
“Lo accendiamo?” mi domandò all’improvviso voltandosi verso di me.
Gli annuii quasi senza muovermi.
Il mio compagno premette il piccolo pulsante che stava alla base del palo, e nello stesso momento un’ondata di luce squarciò l’oscurità dentro la quale eravamo rimasti fino ad allora. Fummo persino costretti a coprirci gli occhi, e a tenerli serrati a metà. Soltanto dopo un paio di minuti il nostro sguardo riuscì ad abituarsi alla luce del lampione, perché ormai era chiaro ad entrambi che si trattava proprio di un lampione. Il mio compagno si alzò e venne da me sorridendo.
“Forse adesso qualcuno ci vedrà e verrà a prenderci” disse.
Ancora una volta gli annuii. Il lampione in effetti emetteva una luce molto intensa, ma gran parte di quella intensità derivava dal fatto che fosse l’unica luce nel mezzo di un’oscurità quasi totale. A ben vedere si trattava di un semplice lampione, uno di quelli che si vedono ovunque fiancheggiare le strade di una qualsiasi metropoli.
Comunque fosse non saremmo più stati al buio, il che era già qualcosa di buono.
Erano ormai giorni interi che osservavo nell’oscurità il volto dell’uomo che domani affronterò in duello. La luce aveva rivelato ai miei occhi una disperazione inaspettata: il suo viso era consumato e contratto, e lo sguardo si perdeva facilmente dietro al più piccolo movimento che riusciva a percepire. Eppure quell’uomo continuava ad avere per me l’aria di chi sapeva il fatto suo, l’aria di un uomo che aveva chiaro in testa il modo di scamparla anche quella volta.
Non avevo mai pensato di potermi sbagliare a riguardo.
Invitati dalla luce esplorammo l’isola nuovamente, sperando di trovare qualcosa per vincere la fame, ma ancora una volta i nostri propositi furono delusi. Risultò che l’unica cosa presente sull’isola era quel lampione: nient’altro.
Tornati alla spiaggia di ciottoli trovammo il fuoco ormai spento. Notammo che la vodka rimasta era decisamente meno di quanto pensassimo, ed il mio compagno si lanciò sulla bottiglia per berne l’ultimo sorso. La trovai un cosa legittima: al posto suo io avrei fatto ugualmente.
Non riuscimmo a recuperare più nemmeno mezzo licheno per il fuoco, ed allora cominciammo a gettare nelle fiamme parti della mia Bibbia: tutta la Genesi e circa tre quarti dell’Esodo. Fissavamo le parole di Dio cancellarsi lentamente nelle braci e tra la cenere: presto, pensavamo entrambi, non ci sarebbe stato più niente con il quale proteggerci dal freddo.
Le onde scurissime si infrangevano sulla riva dove terminava la spiaggia di ciottoli.
“Non è strano guardarsi intorno e vedere finalmente cosa c’è?” chiesi al mio compagno.
“Qui non c’è proprio un cazzo da vedere” rispose egli immediatamente.
E aveva ragione.
Poi però notai che a qualche decina di metri dalla riva qualcosa si stava lentamente avvicinando all’isola. Feci cenno al mio compagno di guardare anch’egli in quella direzione, e dopo qualche minuto fu chiaro ad entrambi che si trattava di due lunghi bastoni di alluminio legati insieme da un brandello di corda. Non appena toccarono terra il mio compagno li prese in mano e li osservo incuriosito. Erano robusti ma leggerissimi, e molto lunghi, dello spessore di circa un pugno. A tre quarti della loro lunghezza avevano entrambi una piccola sporgenza di metallo lunga una ventina di centimetri, che veniva in fuori. Il mio compagno disse che quei bastoni potevano essere segno che nelle vicinanze stesse transitando qualche imbarcazione. Quindi gettò i bastoni a terra e se ne ritornò al fuoco. Io lo seguii senza proferire parola.
“Non sono nemmeno buoni da bruciare” disse scrollandosi il gelo di dosso.
Qualche minuto dopo si alzò e, raccolti i bastoni di alluminio, si diresse verso il centro dell’isola. Ai piedi del lampione liberò i bastoni dalla corda che li teneva legati ed arrampicandosi al palo riuscì ad issarsi sopra uno di essi, poggiando il piede nelle sporgenze di metallo – fece lo stesso con l’altro e, quando si sentì abbastanza stabile, con un colpo di reni si diede una spinta e cominciò a camminare sopra ai bastoni di alluminio come se fossero dei trampoli. Mi guardò da quella altezza e scoppiò a ridere, soddisfatto della sua trovata.
“Guarda amico, guarda come sono alto! Sono più alto anche del lampione!” disse.
Io cominciai a ridere con lui, e vedevo che più gli tenevo corda più egli si divertiva. Mi stupì incredibilmente l’abilità con la quale camminava issato sopra a quelle specie di trampoli, dato che io non ero per niente sicuro che sarei stato capace di fare lo stesso. Girò attorno al lampione un paio di volte facendo il verso del gallo, ed era impressionante vederlo passeggiare al di sopra di quella luce, come se stesse letteralmente muovendosi sospeso per aria e si prendesse gioco in quel modo di tutto ciò che stava sotto di lui.
La cosa infine lo stancò e mi chiese di aiutarlo a scendere: avrei dovuto tenere fermo uno dei due bastoni così da permettergli di calarsi giù attraverso di esso senza farsi del male. Quando fu nuovamente con i piedi per terra rise ancora per qualche minuto, ma dopo pochissimo tornò irrimediabilmente nell’inquietudine che lo aveva contraddistinto fino ad allora. Mi domandò se non volessi provare anch’io, ed io gli risposi che non ci sarei mai riuscito. Scosse la testa: disse che non era così difficile quanto sembrava, che bastava avere il coraggio di provare e mettere in conto qualche brutta caduta, tutto qui. Lui l’aveva imparato da solo lavorando come acrobata in un circo, molti anni prima.
“Preferisco di no, davvero” dissi, “E poi in questo momento mi sento molto debole, faccio fatica a reggermi in piedi: non riuscirei a fare nemmeno un passo sopra quei bastoni”
Mi osservò per qualche secondo, e poi, scuotendo la testa, si voltò nel silenzio più assoluto. Quando fu a qualche metro dalla riva prese una piccola rincorsa e lanciò entrambi i bastoni in mare. Poi si sedette al fuoco, ed allungò le mani verso le fiamme.
Quella sera il mio compagno tirò fuori di tasca un piccolo dado nero con dei numeri bianchissimi, quasi non fossero essi che una mezza dozzina di stelle tirate giù direttamente dalla notte. Mi propose di giocare. Mi guardai in tasca: avevo solo qualche rublo, nulla di più. Volle giocare lo stesso. Tirò fuori un paio di banconote e le gettò a terra davanti a noi, fermandole sotto ad un grosso sasso. Poi prese in mano la mia valigia e appoggiandosela sulle ginocchia mi fissò chiedendomi se ero pronto. Nella mano chiusa faceva roteare il piccolo dado.
“Avanti, cosa giochi?” mi chiese.
Io lo fissai senza sapere cosa rispondere.
Avevo l’impressione che volesse fregarmi, ma forse era solo un’impressione.
“Sei” risposi con sicurezza, porgendogli nello stesso momento una banconota di piccolo taglio.
“Uno” disse lui con un sorriso tirato sul volto.
Lanciò il dado e comparve l’uno: come al solito quello stronzo aveva vinto.
Andò avanti così per un po’, finché non mi ritrovai senza più nemmeno uno spicciolo.
Guardi il fuoco che diminuiva lentamente e strappai dalla Bibbia la Siracide e quasi tutti i libri dei Profeti: la volta successiva anche ai Vangeli sarebbe toccato finire tra le fiamme.
“Sei in debito amico, lo sai?” disse con aria molto seria il mio compagno, “Mi devi ancora trenta rubli. Non credere che io te li abbuoni: non l’ho mai fatto in vita mia e non lo farò certo questa volta”
“Ma non ho più un soldo” dissi io stringendomi nelle spalle.
“Se non puoi pagarmi ci sfideremo a duello”
“A duello?” domandai con stupore.
“Se non puoi pagare i tuoi debiti di gioco faremo un duello di pistole, qui, all’alba, sulla spiaggia. Domani.”
Non sembrava scherzare affatto.
“Domani?” chiesi atterrito.
“Domani. Alle pistole ci penso io. Penso a tutto io. Tu non devi fare altro che presentarti puntuale domani all’alba qui su questa spiaggia di ciottoli. Tieni d’occhio l’orologio e non arrivare in ritardo, tutto qui”
Avrei voluto parlarne, ma l’uomo che il giorno seguente avrei affrontato in duello si alzò da terra e raccogliendo le sue cose si allontanò verso il suo giaciglio per la notte. Ognuno di noi andava a dormire nella piccola conca che si era trovato, uno da una parte e uno dall’altra della piccola isola. Prese su la bottiglia di vodka anche quella volta, anche se la bottiglia era vuota. Io avevo le ciglia degli occhi ghiacciate ed il naso distrutto dal gelo, e già sentivo la paura alitare con sospetto dentro di me. Riattizzai il fuoco con l’ultimo pezzo di Bibbia rimasto, e restai ad osservare le parole dell’Apocalisse di Giovanni sparire nella cenere del fuoco ormai estinto. Poi me ne sono venuto qui alla conca, sono andato anch’io al riparo per passare la notte, una notte che già in quel momento sapevo benissimo poter essere l’ultima di tutta la mia vita. Sono stanco, stanchissimo. Sento le ossa scricchiolare avvolte come sono di muscoli e nervi: eppure non riesco a chiudere occhio nemmeno per un momento. Domani sarò fortunato se riuscirò ad alzare la pistola per aria, figuriamoci sparare contro un altro uomo.
Il cielo è coperto, non c’è un solo piccolissimo squarcio tra le nuvole che permetta di spiare l’intimità della notte. Anche se si vedesse qualche stella poi, a cosa servirebbe? Il lampione è l’unico astro al quale inchinarsi in questa briciola di terra cascata chissà come dalle mani di Dio, anni e anni fa, talmente tanti che egli nemmeno si ricorda di farci splendere sopra un poco di luce. Chissà cosa ha in serbo Dio per la giornata di domani: probabilmente sarà troppo occupato per gettare uno sguardo su di un’isola tanto piccola, dove due stupidi uomini si spareranno l’un l’altro per un debito di gioco. Ma questa sera pregherò ugualmente, pregherò per davvero, e non si sa mai che per una volta non sia davvero Dio, Dio in persona, a farmi vincere: sarà anche l’ennesima sconfitta di cui mi faccio carico, ma tanto vale: ormai non ho più niente da perdere. Io credo in Dio, ci ho sempre creduto. Però adesso ho paura, una paura fottuta.
Controllo l’orologio: è uno di quegli aggeggi meccanici che bisogna caricare ogni santo giorno perché non si fermino. Ora segna le sei del mattino, e se si fissa per un po’ l’orizzonte eccola, non si vede ma eccola, l’alba. Il buio è totale. Mi alzo in piedi e noto che alla spiaggia di ciottoli ancora non c’è nessuno. Ogni movimento che compio è controllato alla perfezione per timore di poter cedere alla stanchezza: so benissimo di non essere più nella condizione di potermi permettere un qualsiasi passo falso. La testa mi pesa sul collo in maniera insostenibile ed il freddo sembra essere sempre sul punto di aumentare ancora di più la propria affilata cattiveria.
Sono arrivato in spiaggia per primo.
L’uomo che stamattina affronterò in duello ancora non c’è. Mi siedo a terra stringendomi nella pesante giubba che indosso, per tenermi caldo un altro po’ prima dello scontro. Il lampione illumina tutta la piccola isola dall’alto della sua vertiginosa statura. Ormai sono passati più di dieci minuti: il rumore del mare sembra battere i secondi alla rovescia, anch’egli in attesa. E le stelle, puttane e bastarde, non piangono affatto nelle rughe di questa mattina fatta di notte, come mi piace pensare, ma sembrano al contrario ridere della mia agonia, nascoste come sono dietro coltri e coltri di nubi e desiderose al più presto di abbandonare per sempre la scena.
Infine, eccolo, anche il mio avversario giunse alla spiaggia di ciottoli.
Mi osserva senza particolare riguardo. Apre la sua grossa valigia e la poggia a terra davanti a sé, invitandomi a guardare: due bellissime pistole antiche si stagliano nell’interno della valigia, lucide e pulite come sempre dovrebbero essere armi di tale valore e prestigio.
“Essendo tra i due colui che è stato sfidato, hai il diritto di scegliere l’arma per primo” disse il mio avversario fissandomi con particolare intensità.
Le pistole mi sembrarono identiche. Scelsi quella che all’apparenza mi dava l’idea di essere più leggera nella speranza di riuscire a maneggiarla meglio durante il duello. La stringo nella mano cercando la posizione più adatta con la quale tenerla.
Mi furono allora spiegate in maniera molto coincisa le regole del duello.
La distanza tra di noi sarebbe stata di dieci passi.
Essendo dei due colui che era stato sfidato, avrei sparato per primo.
Un solo sparo alla volta, in maniera alternata, fino a che uno dei due contendenti non fosse stato colpito.
I duellanti non potevano muoversi dalle loro posizioni, né in fase di attacco né in fase di difesa.
Lo sfidante poteva interrompere il duello dichiarando soddisfatta la propria offesa. Questa era una possibilità concessa esclusivamente allo sfidante: lo sfidato non poteva in alcun modo interrompere il duello. L’unica maniera che quest’ultimo aveva di porre fine allo scontro era colpire l’avversario e far sì che egli desistette dal proseguire ulteriormente la sfida.
Il mio avversario ha appena fatto dieci passi allontanandosi da me. Non mi ha nemmeno guardato negli occhi. Il vento scompiglia i suoi radi capelli neri, ed io non faccio altro che osservare lui e la punta della mia pistola.
Siamo quei soldati romani che si giocarono ai dadi le vesti di Cristo, proprio sotto alla croce.
“Tocca a te” disse da quella distanza, “Basta premere il grilletto: il primo colpo è già caricato”
Lo fisso: la sua figura non è certo quella di un uomo che sta per morire: il suo sguardo è fiero, sicuro: tiene le mani distese lungo i fianchi pronto a ricevere il mio sparo senza quasi battere ciglio. Alzai gli occhi al cielo e guardai verso la luce del lampione, come invocando Dio: fu l’unico tipo di preghiera che mi riuscì di fare in quel momento. Ogni muscolo del mio corpo è teso e pronto ad andare in frantumi assieme alla mia anima. Alzo la pistola verso il mio avversario: la vedo disegnare minuscoli cerchi di zolfo con la punta della canna. Cerco di prendere la mira. So che non è soltanto il freddo a far tremare la mia mano.
Sparo.
Il grilletto scattò con più facilità di quanto mi fossi aspettato. Il vento si è portato via quasi subito la folata di fumo prodotta da quella vecchia pistola, e il mio avversario è là, ancora in piedi, completamente illeso. Mi domandai allora dove fosse andato a finire il colpo, se avessi o no colpito qualcosa, ma subito mi ricordai che a quel punto sarebbe toccato a me ricevere lo sparo del mio avversario: divenni ancora più rigido, strinsi i denti.
“Sei pronto?” mi domandò.
Ho annuito.
Ho sentito il vento accarezzarmi il volto e portarsi via piccoli brandelli di carne.
Ho guardato in bocca alla pistola del mio avversario.
Non ho guardato che faccia avesse prima di premere il grilletto.
Ho tremato tutto al boato assordante dello sparo, ma non mi sono mosso: quelle erano le regole.
Devo aver chiuso gli occhi.
Sono stato colpito in pieno petto, vicino al cuore.
Ora eccomi qua, a terra, con entrambe le mani che cercano invano di tamponare la ferita sotto ai vestiti. Il sangue è caldissimo, ed il sottile torpore fa accennare alla mia bocca un mezzo sorriso di soddisfazione. Mi sento al caldo, finalmente. Il fatto che stia morendo sembra spaventarmi meno del previsto. Non provo nessun bisogno di pregare, lo dico a me stesso e a Dio.
Il mio avversario fece allora qualche passo verso di me: in cuor suo sapeva di aver fatto centro, di aver vinto ancora una volta. Mi osserva a distanza rantolare dal dolore, messo di tre quarti, come se non sapesse cosa fare, se guardarmi morire oppure voltarsi ed andarsene.
Con le poche forze che ancora ho in corpo lo chiamo.
“Dimmi” rispose lui senza muoversi dalla sua posizione.
“Una cosa…” mugugnai.
“Dimmi” disse di nuovo.
“Il capitano…” chiesi, soffrendo come un animale, “…perché, di chi…di chi è stata la colpa se ci ha beccato a barare…”
Rimase in silenzio per un attimo e poi rispose, non riuscendo a celare una sottilissima amarezza.
“E’ stata solo sfortuna, nessuno ha colpa” disse.
Capii che stava mentendo, e nello stesso istante la vista mi si oscurò.
Sono morto.
Morii.
L’uomo che mi aveva sparato si voltò del tutto e se ne andò il più lontano possibile, il che significava a non più di trenta passi da lì. Rimase per delle ore ad osservare il buio sulla sponda opposta alla spiaggia di ciottoli, dove il mio corpo se ne stava invece disteso come il relitto di un naufragio.
Era il sesto giorno che l’uomo che mi aveva sparato non metteva niente sotto ai denti. Lo sguardo fiero e sicuro che gli avevo visto negli occhi prima di sparargli scomparve lentamente, per lasciare il posto alla più segreta disperazione.
Prese la mia valigia, la portò sulla sponda opposta e la bruciò, così da avere ancora del fuoco con il quale scaldarsi. Avrebbe anche potuto mangiarmi, la particolare situazione nella quale si trovava gli concedeva anche questa possibilità. Io non avrei avuto niente di cui biasimarlo, ma devo ammettere che non mi avrebbe per niente fatto piacere essere tagliato a pezzi, cotto sulle fiamme, masticato per benino, digerito, ed infine cagato fuori in chissà quale angolo di quella piccola e sperduta isola, anche se con quel freddo tirare fuori il culo dai pantaloni non era certo la cosa più facile da fare. Non so esattamente di cosa si sia trattato, se di questioni etiche o di stomaco: quello che conta è che l’uomo che mi aveva ucciso non sarebbe mai stato capace di mangiarmi, e in ciò, devo ammetterlo, fui davvero fortunato.
Poi cominciai a sentirmi un po’ solo là su quella spiaggia di ciottoli: l’unica nota positiva era che non soffrivo assolutamente più il freddo: anzi, non soffrivo più di niente. Il mio corpo se ne stava disteso e completamente privo di vita, in pace. Io di queste cose non ci capisco molto, ma fosse anche stato vero che il ciclo delle nascite e delle morti, di cui ho sentito parlare, esisteva veramente, quella doveva necessariamente essere la prima volta che morivo, perché tutto ciò che avveniva al mio corpo in quel momento era per me allora nuovo e stupefacente.
L’uomo che mi aveva sparato cominciò quindi a sentire la mia presenza in maniera ingombrante. Cercava di non voltare mai lo sguardo verso la spiaggia di ciottoli e passava le ore a fissare l’oscurità del mare sperando che dall’orizzonte più lontano qualcuno arrivasse a salvarlo. Deve essersi anche messo a cantare qualche canzone da ubriaco per uccidere il silenzio.
Trascorse un altro estenuante giorno, e l’uomo che mi aveva ucciso se ne andò a dormire nella sua solita piccola conca, anche se non sono per niente sicuro che quella notte sia riuscito a chiudere occhio.
Doveva essere passata da poco la mezzanotte quando sentii le sue mani afferrarmi per le gambe e trascinare il mio cadavere in acqua. All’inizio andai lentamente alla deriva, galleggiando in maniera calma e senza particolari turbamenti: il mare era piatto, un’immensa distesa d’ombra. Poi però le correnti marine mi riportarono esattamente sulla stessa piccola spiaggia di ciottoli sopra alla quale ero morto, e quando l’uomo che mi aveva sparato tentò nuovamente di liberarsi di me gettando il mio corpo in acqua, il mare non acconsentì alla sua decisione e mi riadagiò con dolcezza sulla riva dell’isola. Disperato, l’uomo che mi aveva ucciso cominciò a bestemmiare ad alta voce maledicendo me, il capitano della nave e la mia morte: fu allora che dalla sua bocca ebbi la conferma che era stata tutta colpa mia se il capitano ci aveva beccato barare al tavolo da gioco.
L’uomo cominciò a delirare. Gridava in continuazione e credo lo facesse soprattutto per non sentire la pressione assordante del silenzio. Cantò nuovamente canzoni da ubriaco, improvvisando strofe su alcune melodie note ad ogni buon vecchio marinaio.
Lanciò sassi al mare, con violenza.
Solo ogni tanto si voltava verso il mio corpo senza vita e lo osservava socchiudendo gli occhi. Era chiaro che non riusciva più a sopportare la presenza di quel cadavere, eppure non aveva idea di come fare per sbarazzarsene se persino le acque si rifiutavano di prendersi carico di esso.
L’uomo che mi aveva sparato non mangiava da una settimana e non beveva da quasi due giorni. Le sue forze erano ormai allo stremo, ed anche se le sue grida e le sue canzoni andarono lentamente attenuandosi, ciò nonostante ebbe ancora l’energia per alzarsi e raggiungere il lampione: rimase qualche minuto in ginocchio, proprio come era avvenuto la prima volta che se l’era ritrovato davanti. Poi, quasi avesse avuto un repentino scatto di nervi, si precipitò alla base del palo: cercava l’interruttore per spegnere il lampione, così da poter ripiombare immediatamente nell’oscurità più totale e sbarazzarsi di me grazie all’ombra. Ormai non credeva più che qualcuno sarebbe venuto a salvarlo: la sua unica speranza ora era di poter morire in pace, liberandosi almeno della mia vista dato che non riusciva a liberarsi del mio cadavere.
L’interruttore, però, non funzionava: provò a premerlo parecchie volte, ma il lampione continuava ad emettere la sua intensa luce gialla senza dare il minimo segno di spegnimento. L’uomo che mi aveva ucciso, nonostante la stanchezza, gridò allora ancora più forte.
Ormai era in lacrime.
Raccolse da terra un paio di sassi e cominciò a scagliarli contro alla luce. Il lampione aveva l’estremità superiore leggermente curva, ed assomigliava ad un uomo con il capo chino in avanti. La fonte di luce era posta così in alto che sembrava impossibile raggiungerla, e ci vollero parecchi lanci prima che l’uomo che mi aveva ucciso decidesse di rinunciarvi. Andò allora alla sua valigia e prese con sé una delle due pistole che avevamo usato per il duello. La caricò e dopo aver preso la mira fece fuoco verso la luce del lampione. Al boato dello sparo seguì subito il rumore di vetri rotti, e l’uomo evitò di poco alcuni frammenti piovutigli in testa dall’alto.
L’oscurità fu immediata.
L’uomo che mi aveva ucciso cominciò a ridere eccitato, euforico, completamente fuori di testa. Afferrò con una mano il palo e vi danzò intorno riprendendo a cantare le canzoni che aveva interrotto soltanto qualche minuto prima.
La notte osservava, silenziosamente incredula.
A metà di una strofa l’uomo che mi aveva ucciso cadde a terra e non si rialzò più.
Il fischio del vento era l’unica voce che ancora restava da ascoltare.
Trascorse non più di un’ora quando all’orizzonte comparvero le luci di una nave: l’imbarcazione passò a poche centinaia di metri dalla piccola isola ma nessuno dell’equipaggio si accorse di essa, né tanto meno avrebbero potuto accorgersi dei due corpi che vi erano abbandonati sopra.
Ai più assennati di voi forse sembrerà strano, ma la luce rotta del lampione era ancora abbastanza calda da emettere un sottilissimo filo di fumo, un fumo che non faceva in tempo a muoversi e che subito spariva nel vento della notte, accennando solo a qualche piccola voluta.
E così, allo stesso modo, svanì anche la nave, nel punto più scuro di tutto l’orizzonte.










© Federico Bezzi





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