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Ognuno di noi ha i suoi inferni, si sa. ma io ero in testa, di tre lunghezze sugli inseguitori. C. Bukowski
I "Devo fermarmi qui, signorina? E’ proprio sicura?" "Ovvio che sono sicura. Non mi ha sentito? Ora accosti davanti a quel cartello, sì, proprio lì. E mi aspetti col motore acceso." "Certo, certo, è lei che comanda. Sono ritornato esattamente nel punto che mi aveva detto… e poi non sono fatti miei. Solo che, di notte, questa non mi sembra la zona adatta per fermarsi, specialmente. . . " "Specialmente per una donna, vero? Beh, ha perfettamente ragione: non sono fatti suoi". Nella notte la strada è quasi totalmente immersa nell'oscurità. La luce dei pochi lampioni scivola sulle facciate sbiadite dei palazzi. Si sofferma sugli architravi scrostati disegnando ombre di un’inquietante morbidezza, senza però trovare il coraggio di penetrare nelle troppe finestre dagli infissi scardinati. Da uno stretto vicolo, incuneato fra due edifici, proviene un fischio modulato. Una sorta di richiamo. Sulla strada solo poche macchine arrugginite. E’ notte fonda La limousine blu accosta davanti all'insegna di un ristorante cinese. Il nome non si legge bene. La luce è poca. Come abbiamo detto, e comunque le incrostazioni di sporco e lo smog hanno quasi cancellato i colori. Una moto, rombando, sorpassa la limousine e si perde lontano, violentando il silenzio della notte. La ragazza è alta, bruna, attraente. Può avere trenta, trentadue anni, indossa un abito da sera scuro e lunghi guanti. Cammina sicura, volta appena la testa, ogni tanto. Le labbra morbide e carnose sono strette e attraverso la pelle pallida si disegna l'ombra degli zigomi. I grandi occhi verdi, da sotto le ciglia lunghissime, cercano qualche cosa nell'oscurità. Improvvisamente si ferma. Ha sentito una voce poco lontano, forse un grido, forse soltanto un'imprecazione. Ci deve essere ancora qualcuno nel ristorante cinese, dalla finestra si intravedono le sagome di alcune persone attorno a un tavolo. Ma la ragazza non è lì per giocare d'azzardo. Esita un istante, ora comincia a credere di essersi sbagliata. E' probabile, del resto, la sera è scura e lei lo ha visto solo per un momento. Pure, non saprebbe davvero dire perché, è sicura che sia Lui. Stranamente sicura. Tra il ristorante e il palazzo vicino c’è uno stretto passaggio su cui si aprono le porte di servizio. Potrebbe essere andato da quella parte. Il vicolo, malamente illuminato dalla luce che filtra dalle finestre delle cucine, e' ingombro di rifiuti e di avanzi. L’odore acre dell’olio rancido è ovunque. In un angolo sono ammucchiati alcuni sudici scatoloni di cartone. Nella semioscurità si scorge qualche cosa che, forse, si muove. La limousine non si vede da qui, solo la confortante luminosità dei fari sulla strada ne ricorda la presenza. La ragazza sente un brivido scivolarle lento lungo la schiena. L'uomo in mezzo ai cartoni emette un gemito, si muove, mormora qualcosa che può essere un nome. La bottiglia di liquore gli cade di mano ed esce dal sacchetto. Gli occhi della ragazza si sono abituati alla poca luce, la bottiglia le rotola fra i piedi. Pessima marca. L'uomo giace ora sulla schiena. E' un barbone e il fetore che lo circonda è nauseante, certamente ha appena vomitato. Ha la barba lunga e gli occhi infossati, è magro, emaciato, probabilmente alcolizzato. I capelli sono scuri, radi e sporchi. Gli abiti sono stracciati, ma non così malridotti, forse li ha cambiati da poco in qualche mensa di quartiere. In ogni caso è veramente lui. Ripensandoci, la ragazza non riesce a capire come abbia potuto riconoscere in quel rottame umano il ragazzo di tanti anni prima. Torna alla limousine, fa un rapido cenno che l’autista vede attraverso lo specchietto retrovisore. L’uomo apre lo sportello e si guarda attorno esitando, poi scende portando la mano alla fondina sotto la giacca. Ha la carnagione scura e l’aspetto di un ex-pugile. Segue la ragazza nel vicolo, senza parlare, dondolando sulle gambe, impacciato nella livrea da autista. Ha lo sguardo è stupito, ma è abituato a non fare domande. Il posto è buono e la paga alta. Adesso caricano il barbone sul sedile posteriore. Il cappello dell’autista cade sull’asfalto, l’uomo si china sbuffando per raccoglierlo. Quando rialza la testa gocce di sudore gli imperlano il cranio rasato. Poi riprende il proprio posto, la ragazza sale anch’essa sul sedile anteriore e la limousine riparte nella notte. Nessuno pronuncia una parola, gli unici rumori che si sentono sono il sordo respiro dell’ubriaco e il rotolare monotono degli pneumatici sull’asfalto. Infine, un cancello automatico si apre ronzando e i fari dell’automobile illuminano un viale alberato in fondo al quale si intravede l’elegante facciata bianca di una villa in stile coloniale.
II La stanza è spaziosa, calda. Pesanti tendaggi blu trattengono la luce del sole diffondendo una debole luminosità all’interno. Le pareti sono rivestite di carta decorata con bizzarri motivi, anch’essi in morbidi toni di blu, che si ripetono all’infinito. Il mobilio è ricercato, moderno, lussuoso. L’uomo sul letto sta dormendo un sonno pesante. Coricato sulla schiena, con un braccio sotto le coperte e l’altro piegato sullo stomaco. E’ pallido e magro, la pelle è tirata sugli zigomi, coperta di rughe sottili, segnata dal freddo e dal sole. Le labbra sono serrate. Gli unici segni di vita sono il sollevarsi lento e ritmico del torace e il movimento nervoso delle dita. Che si chiudono ritmicamente come se cercassero il collo di una bottiglia. Improvvisamente, l’uomo apre gli occhi. Ora è immobile, con gli occhi spalancati che fissano il soffitto. Alcuni colpi violenti di tosse scuotono il suo magro corpo. Si guarda attorno lentamente, muovendo appena il capo. Non ha la minima idea di dove si trovi, ma, certo, si è svegliato in posti peggiori. Allunga le gambe sotto le coperte e rovescia leggermente il collo all’indietro premendo la testa sul cuscino. Respira profondamente un paio di volte. Una voce, proveniente dalla porta semichiusa, attira la sua attenzione. “Signorina, il Signor Paul chiede di lei. L’ho già fatto accomodare in biblioteca.” E’ una voce di donna. Una voce bassa e dolce. L’uomo chiude gli occhi e tossisce nuovamente. “Dite al Signor Paul che andrò da lui non appena avrò terminato di telefonare. “ La seconda voce è più giovane, sicura, affascinante. Nella mente dell’uomo sembrano risvegliarsi gli echi di antiche memorie. Ma sono ombre indefinite e lontane. Che più si sforza di afferrare, più si fanno confuse, evanescenti. Stringe ancora di più gli occhi, cercando di concentrarsi. La cameriera, una nera di mezza età, si volta per scendere le scale. Arrivata all’altezza delle porta semichiusa getta un’occhiata dentro. L’uomo è sul letto, immobile, con gli occhi chiusi. Sembra che stia ancora dormendo. “Cosa c’è di tanto interessante in quella stanza? .” la voce è piccata, sgradevolmente ironica. La cameriera indietreggia di un passo e sussurra .” Nulla, Signorina.” “Nulla, appunto.” E’ la secca risposta di lei .” Nulla che ti riguardi. Vai, ora “ .” Certo Signorina, come dice lei .” sibila la cameriera tra i denti. La porta si apre completamente e qualcuno entra nella stanza, ma l’uomo continua a tenere gli occhi chiusi. Si è riaddormentato, oppure sta fingendo. Un profumo fresco, femminile, si diffonde per la stanza. L’uomo ha un sussulto, vorrebbe riaprire gli occhi, ma si trattiene. Da dove, da quale angolo del suo passato sono riemersi quel profumo, quella voce? Ora lo scuote un fremito, come se fosse sul punto di ricordare, vorrebbe riaprire gli occhi, però… con passo pesante e deciso, un’altra persona entra nella stanza. “Dunque La cameriera non scherzava. Da quando in qua trascorri le tue nottate raccogliendo… spazzatura?” E’ la voce di un uomo, decisa, sicura, ironica, sgradevole. Ma la ragazza non risponde, immobile poco oltre la soglia, impedisce all’uomo di avvicinarsi oltre al letto, gli cinge la vita con un braccio e lo conduce fuori dalla stanza, accostando la porta alle sue spalle. “Ma chi diavolo è quello? .” chiede Paul aggrottando la fronte. “Oh, un vecchio amico, credo….” sussurra la ragazza guardandolo negli occhi con espressione neutra. “Non si direbbe proprio che sia…uno del nostro ambiente”. L’uomo scuote la testa seccato e lancia un’altra occhiata alla porta socchiusa. “Geloso?.” sussurra lei con voce quasi atona, gli occhi fissano il vuoto. “Di quello?.” la risata di Paul echeggia per un momento nella stanza, poi si perde nel silenzio di lei. “Hai ben altri gusti E poi, a guardarlo, non mi pare abbastanza in forma per essere un gran rivale, che ne dici?.” La ragazza sembra ignorare il sorriso malizioso dell’uomo che si avvicina e le passa un braccio sulle spalle lasciate scoperte dall’elegante vestito nero. Giulia scivola via dal suo abbraccio Paul si gira verso la finestra, voltando le spalle alla ragazza. Il giardino, fuori, è un meraviglioso affresco di luci e di ombre sotto il cielo terso di un mattino di tarda primavera. “Ho due biglietti per il concerto di domani sera. Non possiamo mancare, lo sai, ci saranno tutti. Anche il signor ... l’avvocato. Ricordi che si era discusso già di una fusione fra i nostri studi? E’ sicuramente una buona occasione di riallacciare i contatti.” “Bene.” è il laconico commento della ragazza. L’uomo si volta e le afferra le spalle magre e sottili, è rude e gentile allo stesso tempo, la sua bocca accenna a un bacio che la ragazza rifiuta spostando la testa di lato. “Chiunque sia, ti stancherai presto di giocare all’esercito della salvezza ….La generosità non è parte del tuo carattere. Non lo è mai stata.” il sorriso dell’uomo non sembra contagiare la ragazza che lo guarda negli occhi con espressione distratta. Infine, appoggia lentamente il capo sul torace di lui. Mentre Paul la stringe al petto, la ragazza guarda la parete bianca con gli occhi persi nel vuoto, il capo reclinato, i bei capelli corvini le ricadono sulle spalle. L’uomo le bacia i capelli chinando appena la testa, accenna un ti amo appena sussurrato che si perde nel silenzio del mattino, poi, quasi dolcemente la allontana da sé. “Mi attendono per una partita a tennis. Passerò stasera a prenderti, sai che i nostri vicini danno una festa, ci hanno invitato e proprio…” “…Non possiamo mancare.” conclude lei in un sospiro sempre fissando la parete bianca. “Esatto.” ride l’uomo allontanandosi a passi veloci “Esatto, amore.”. L’uomo scende le scale fischiettando, la ragazza resta immobile qualche istante poi apre la porta della camera. L’uomo steso sul letto ha la fronte sudata, si è sforzato a lungo di dare un significato alle voci indistinte che filtravano dalla porta socchiusa. Percepisce appena i passi della ragazza nella stanza, poi un conato di nausea lo assale violentemente, i muscoli si rilassano e ripiomba nuovamente in un sonno popolato da demoni e ricordi.
III Lo specchio, incastonato in un tripudio di marmi rosa, riflette l’immagine di un uomo intento a radersi. Indossa un accappatoio bianco con ricami in oro, troppo largo per lui. Alle sue spalle, un cameriere in livrea sostiene un vassoio d’argento. Sul vassoio, saponette profumate, creme, colonie e dopobarba in variopinti barattoli. Nell’aria profumo di sali da bagno, vapore. L’uomo si rade in silenzio, l’unico rumore è il raspare della lametta sulla barba lunga e dura, bianca a tratti. La mano è incerta, trema. Sembra ricordare a fatica la ritualità dei gesti più comuni. Ora si guarda nello specchio. Pulito e sbarbato quasi non lo si riconoscerebbe, non fosse per gli occhi infossati e il pallore. Si è tagliato, sulla guancia destra e più su, verso lo zigomo, dove la pelle sottile si tende sulle ossa sporgenti. I pochi capelli bagnati sono tirati all’indietro. Non pare neppure accorgersi della presenza del cameriere, si sciacqua lentamente il viso, prende l’asciugamano che l’altro gli porge, si stende la colonia sul volto emaciato, schiaffeggiandosi lentamente. In un angolo, vicino alla grande vasca ancora ricolma di schiuma, sono ammucchiati gli abiti cenciosi che indossava soltanto poche ore prima. Ora il cameriere gli porge abiti nuovi, eleganti. Per la prima volta i loro occhi si incrociano, se ambedue sono sorpresi o curiosi per la presenza dell’altro, di certo non lo danno a vedere in alcun modo. Le loro vite si sfiorano senza toccarsi. Quando esce dal bagno la ragazza lo attende seduta al pianoforte che s’appoggia alla balconata. Più in basso si scorge un salone arredato con cura, grandi cornici dorate alle pareti e tappeti bordeaux sui pavimenti, un lucernario liberty inonda la stanza di luce vellutata. “Bella casa.” La voce di lui è bassa, sembra provenire da molto lontano. “Grazie.” è la sola risposta di lei. IV Lei siede al pianoforte, batte sui tasti trascinandosi dietro una melodia sussurrata senza anima. Indossa un abito grigio, giacca, pantaloni larghi, è molto elegante. Sotto la giacca una camicia di seta, bianca. Lui siede poco lontano, si guardano negli occhi. Ciascuno attendendo una parola, una spiegazione. “Non abitavi certo in una casa come questa una volta…” “No.” sorride lei. “E’ passato molto tempo…” “Ricordi ancora quando scappavo da scuola per venirti a trovare? C’era parecchia strada, e la facevo tutta di corsa attraverso i campi. Poi arrivavo a casa tua che… non avevo neppure la voce per salutarti”. Le dita battono sui tasti d’avorio un crescendo doloroso e privo di pietà. “Ricordo.” sospira la ragazza “Ero molto giovane, allora”. “Lo sei ancora.” l’uomo sorride, un sorriso quasi fuori posto su quel volto tirato. Come se se ne accorgesse rilassa subito i muscoli del viso e ritorna all’usuale, impenetrabile, espressione. “No, non lo sono, ma sono molto più saggia”. Ancora una serie di note violente, che si rimbalzano contro le vetrate e le scale. “Ne sono certo.” è la risposta quasi sussurrata. “Come… come mi hai trovato?.” domanda l’uomo passandosi le mani sul vestito e guardando la ragazza negli occhi. ”Ti ho visto, per caso, dall’auto.” risponde Giulia, smettendo per un istante di suonare. “Per caso? E mi hai riconosciuto… Questo è strano. credevo di essere un poco … cambiato.” L’uomo spalanca gli occhi per la meraviglia, poi aggrotta la fronte e aggiunge .” Ma certo, non potevo pensare che tu mi stessi cercando…” ” Cercarti?” la ragazza si alza dallo sgabello ”Perché avrei dovuto? Da quel che sapevo io, avresti dovuto essere ancora al paese.” “Stavo scherzando….” E di nuovo sorride, malamente, portando le mani in avanti come per invocare una tregua inutile. Ancora passi pesanti lungo le scale. L’uomo che sale indossa un completo bianco da tennis, scarpe firmate. Aggredisce i gradini a tre alla volta aggrappandosi ai pomi d’ottone della ringhiera. E’ abbronzato, biondo. I capelli sono lunghi, ben pettinati, l’espressione decisa. Ora è in cima alle scale, gli sguardi si incrociano, lui ha l’espressione sorpresa, guarda lei, guarda l’altro e gli si disegna sul viso abbronzato un sorriso di sfida. “Mio caro amico, quel vestito le sta largo, non vede come le cade male sui fianchi? Sembra quasi che non sia stato tagliato su misura per lei, strano, perché, ora che ci penso, ne ho uno esattamente identico che, a me, sta a pennello….” La voce è cantilenante e irritante, ma l’uomo seduto non sembra rendersene conto, guarda l’interlocutore con uno sguardo appena leggermente astioso. “Lascialo in pace, Paul, gli ho dato io quel vestito, tu non lo porti mai.” La voce di Giulia è un soffio gelido. “Certo, certo che non lo tocco il tuo amico. Non ne ho mica bisogno, di quel vestito, e comunque adesso mi farebbe anche … schifo. Se lo può tenere.” Una risata può ferire quanto un insulto, l’uomo seduto stringe i pugni e lancia un’occhiata a Giulia, ma sul viso di lei non c’è alcuna espressione. Paul continua a snocciolare amenità che l’uomo non ascolta, i suoi occhi sono fissi su quelli incomprensibili di Giulia, immobili, vuoti. Qualcosa lo spinge all’indietro, è la mano pesante di Paul. “Ehi, coso, guarda che sei ospite in casa mia, potresti almeno ascoltare quando parlo con te“. “Questa non è casa tua, Paul.” L’uomo si gira per guardare negli occhi la ragazza alle sue spalle. “Beh, tecnicamente no...“ sorride ”...ma quando ci sposeremo…” “Se ci sposeremo.” Il pensiero è rapido, e molti sono i pensieri possono inseguirsi nella mente di tre uomini durante un solo instante di silenzio. Gli occhi di Giulia si fanno freddi e spietati, mentre quelli dell’uomo seduto dietro al tavolo si velano di gioia maligna e di malinconia infinita e il sorriso di Paul si deforma in una smorfia. Ma basta un istante perché l’avvocato in pantaloni bianchi riacquisti il ghigno di sempre e, avvicinatosi al pianoforte, chiuda il copritastiera con un sorriso sprezzante. ”Ma certo che ci sposeremo, piccola mia. Perché tu mi ami, vero? E perché lo studio legale non può permettersi divisioni proprio ora. Che cosa credi che penserebbero i nostri amati finanziatori di una decisione del genere? “ Per un istante gli occhi indecifrabili della ragazza si incontrano con quelli del fidanzato, poi, nuovamente, ritornano fissi e inespressivi. Paul le passa un braccio sulle spalle e si volta verso l’uomo seduto. “Ma proprio non capisco che bisogno c’era di portarsi a casa quel tipo. Se si è ridotto così, beh, non doveva poi essere così in gamba come lo ricordavi tu…Non vedi che non ha neppure abbastanza spirito per stare allo scherzo?.” “Non lo so neppure io.” Sussurra la ragazza rialzando il coperchio del pianoforte. L’uomo col vestito grigio si alza in piedi, è alto quasi come il suo rivale, ma molto più magro. Ha grandi mani nervose, tendini solidi sulle braccia scarne. L’altro gioisce, l’idea dello scontro lo alletta. Troppo facile, magari. “Avanti, coso, via, stringiamoci la mano e facciamola finita. Se sei amico di Giulia, per me sta bene.” L’uomo magro allunga la destra con espressione dubbiosa, la stretta è forte. Troppo. Non è un gesto di tregua, è una prova di forza. I due uomini sudano nello sforzo di rimanere impassibili. Improvvisamente Paul allunga una gamba e ritrae bruscamente la mano, l’altro rotola a terra senza una parola. “L’ho sempre detto! Questi tappeti sono pericolosi, scivolano… Hey, ti sei fatto male?.” Il tono è di scherno, neppure velato da una qualche traccia di ironia. L’uomo magro si rialza molto lentamente e fissa l’altro negli occhi. “Hey, ubriacone, cos'è quella faccia ?.” sghignazza ancora Paul, “Cosa vorresti fare, minacciarmi nella m… nella casa della mia fidanzata? Ah… ma dico, ti sei visto allo specchio ultimamente? “ L’uomo batte le mani rumorosamente, sullo sfondo un’aria di Mozart, forse. Accennata. “…Avanti ….” Adesso saltella sulle gambe muscolose. Ottanta chili di muscoli da abbronzati, muscoli da palestra, sauna e massaggi all’angolo sinistro. Sessanta chili o poco più di lotta per la sopravvivenza, di strada percorsa, di ossa rotte muscoli da rissa all'altro angolo. E la ragazza suona. Un paio di colpi ravvicinati alla bocca dello stomaco, come tonfi sordi, le mani di Paul sono pesanti, i suoi colpi precisi, l’uomo in grigio si piega su se stesso, l’altro ride rumorosamente. E fa male. Lo schianto secco di un uppercut improvviso lo manda ad abbracciarsi alle colonne della balaustra. La musica di sottofondo ha un improvviso stacco. Strada contro palestra, uno a zero. Poi l’uomo vestito di grigio barcolla e si affloscia su se stesso senza un gemito. “Basta, Paul, non vedi che non sta in piedi, ma cosa pensi di fare?.” La voce adirata di lei, come una musica sottile, è l’ultima cosa che sente prima di svenire. Poi, il silenzio.
IV L’atmosfera nel salone è di altri tempi. Musica di sottofondo, candele, profumo di legno nell’aria. Quattro camerieri in livrea servono le portate ai due commensali seduti agli estremi del lungo tavolo. “Dunque, sei riuscita ad aprire un tuo studio, infine. A diventare un grande avvocato.” ”Con l’aiuto di Paul e di suo padre, certo. “ “Ed ogni cosa ha un prezzo.” La voce dell’uomo è più triste che ironica, sembra parlare a se stesso, forse per questo la ragazza si limita a rispondere con un filo di voce ”Certo, ogni cosa.” I due mangiano in silenzio, lei solleva il calice che un cameriere si affretta a riempire di vino. Lui guarda controluce quel rosso rubino. “Mi ricordo quando ti sei laureata, io c’ero” “Davvero?” la voce di lei non sembra stupita. “Certo, e mi hai visto, ma non rientravo già più nei tuoi progetti, non è vero?” “Non sapevo che tu ci fossi, ecco tutto, sei arrabbiato con me?.” E’ strano, ma la domanda è sincera. “No, Giulia.” sorride l’uomo “Non potrei mai, lo sai”. Anche la ragazza sorride, infine, e lo guarda negli occhi. “Ricordi, quel giorno… quando sei venuto a dirmi che eri innamorato di me, che volevi sposarmi? Eri così buffo quel giorno, ti fossi visto. Tutto rosso e impacciato, con quei fiori in mano. Sei sempre stato un po’ fuori dal tempo.” “Uh, e che avrei dovuto fare, prenderti per i fianchi e baciarti?” “Certo che sì!” E ride. Ma è un riso da ragazzina, ricordo di un tempo lontano. Un riso cristallino e scintillante che lascia stupito persino l’impassibile maggiordomo in livrea. ”Beh, hai ragione. E’ che… non sono mai stato molto bravo con le donne, ecco tutto.” Ora ride anche l’uomo, danzano le rughe sul suo viso tirato “Sono troppo romantico”. ”Scrivevi, ricordo, delle belle poesie, hai poi continuato?” ”Oh, sciocchezze, nient’altro che quello.“ “Non è vero…” “Oh, si, lo è.” L’uomo ora guarda il bicchiere di vino, si direbbe che stia lottando contro il desiderio di svuotarlo d’un fiato. Lo sguardo di lei è di nuovo perso nel vuoto ma la bocca sorride e muovendosi dolcemente da voce ai ricordi. ”Ricordi quale sera che mi convincesti a uscire su quella tua vecchia decappottabile bianca?” ”Ricordo” ”Che freddo, quella sera… e tutti quei discorsi strani che facevi, solo perché non riuscivi a dirmi che eri innamorato di me.” ” Hey, non ero innamorato di te.” ”Si che lo eri, accidenti se lo eri.” “Uh, forse, ma solo un poco.” ”Un poco, eh?” E di nuovo ride, ed ha negli occhi una luce nuova. Ride di un riso dolce come quella casa non ha sentito mai. Lui si alza e le si avvicina, ora è in piedi dietro alla sedia di lei, si china e la sua bocca è vicina ai suoi capelli profumati. “Ricordi quella volta che sono venuto a cercarti all’università? Che non sapevo né se ci fossi né dove fossi ma mi sei capitata davanti proprio come se avessimo un appuntamento?” “Si...” ”E ricordi che freddo che faceva? Era Natale…” Lei lo guarda socchiudendo gli occhi come allora. “Sì, era Natale, ricordo. Abbiamo passeggiato per ore per le vie del centro, attaccati l’uno all’altra perché faceva troppo freddo. E abbiamo guardato tutte le vetrine solo che non avevamo un soldo per comprare nulla…” Lei si alza di scatto, come per scacciare un pensiero improvviso e si avvicina alla finestra, oltre il vetro il medesimo giardino, inondato dal sole di mezzogiorno. Lui la segue alla finestra, allunga le mani come per toccarla, farla voltare, poi si arresta e lascia scivolare le braccia sui fianchi, le mani nelle tasche. “Non era il denaro la cosa più importante, allora.” sussurra l’uomo. “Eri talmente imbranato, ricordi? .” la ragazza guarda fuori, ma quel che vede non sono gli alberi e le fontane di oggi, sono portici e nebbie, come allora. ”Ricordi“ continua ”quando cercasti di ripararmi quel videoregistratore….Ho dovuto risparmiare sei mesi per poterne compare un altro.” Ma lo dice con grande dolcezza. “Ricordo.” sorride lui. “Lo sposerai?” La domanda appena sussurrata precipita nella stanza con un tonfo pesante. ”Certo.” la risposta è secca, la ragazza accosta le tende e si allontana dalla finestra. ” Ma non lo ami.” ”Che discorsi stupidi che fai. Non sei mai cresciuto, tu. E’ un uomo in gamba, e abbiamo moltissime cose in comune.“ ”Molti affari, immagino“ Lei si volta e lo fissa con occhi di ghiaccio. Anche gli occhi di lui sono splendidi, sono forse tutto ciò che resta dell’uomo che era. “Bel giardino.” Adesso è lui alla finestra, a voltarle le spalle. “Ho faticato parecchio, per aprire lo studio, e Paul era là, sempre. E’ stato lui a convincere suo padre a prestarci il denaro per iniziare.” “Interessante, ne parli come di un accessorio, un utile strumento di lavoro… è questo il romanzo d’amore che racconterai a i tuoi figli?.” Sogghigna. “Figli? Non posso certo permettermi…” “Di rovinare anche la loro vita. Ti è stato sufficiente di rovinare la tua e…” Silenzio. “E cosa?.” lei stringe i pugni e lo fissa. “Niente, cos’altro ci dovrebbe essere?.” La voce di lui è un sibilo. L’uomo si volta, è di fronte alla ragazza e la fissa negli occhi. Lei sostiene lo sguardo inarcando le sopracciglia. “Perché mi hai portato qui, Giulia? Ancora silenzio. “Non lo so, davvero.” è la risposta. “Henry, il signore è mio ospite, io devo andare in ufficio, qualunque cosa ti chieda, fai in modo che possa averla.“ Il maggiordomo annuisce gravemente. “Vorrei trovarti ancora qui, stasera, ci sono ancora alcune cose che vorrei sapere. Posso contarci?” L’uomo la guarda in silenzio. “E’ un sequestro, questo?” “Henry, se il signore desidera andarsene, di all’autista di portarlo dovunque voglia.” L’uomo sorride e vuota il bicchiere che tiene tra le mani . ”A stasera.” conclude. ”Sta bene .” continua la ragazza . ”A Stasera” Giulia esce dalla stanza a passi veloci. L’uomo è immobile appoggiato alla finestra, le gambe incrociate, il bicchiere in una mano, l’altra mano nella tasca del vestito troppo largo. La guarda allontanarsi.
V Fuori il giardino è tutto un inseguirsi di ombre sotto la luce morbida e disattenta della Luna. La ragazza parcheggia la piccola automobile sportiva. La campana dell’ingresso fa risuonare le cristallerie alle pareti, la cameriera grassa corre ad aprire la porta Si sente lo scalpiccio di passi affrettai e corti sui pavimenti di marmo. Giulia entra senza una parola, senza un cenno di saluto. Splendida in un completo a giacca antracite che si stringe sui fianchi evidenziandone la figura sottile. Ma gli occhi sono stanchi e l’espressione dura. Evidentemente sta cercando qualcuno, attraversa la biblioteca con uno sguardo distratto ai volumi rilegati in marocchino allineati sugli scaffali, entra nella grande sala da pranzo semibuia e si ferma guardandosi attorno. Una lama di luce da sotto la porta dello studio la attira in quella direzione. Esita un istante poi apre. Nella stanza sembra non esserci nessuno, ma ristagna tutt’intorno un pesante odore di alcool. Sulla tavola c’è una bottiglia di whisky, una macchia scura bagna il tappeto, è visibile solo in parte, per chi osservi dalla porta, in quanto il pesante divano in pelle impedisce di capire di cosa si tratti. La ragazza si avvicina al divano appoggiandosi alla spalliera con entrambe le mani. Lui è sul divano, raccolto su se stesso, immobile. Respira molto, molto lentamente, in modo insolitamente silenzioso. A terra, sul prezioso tappeto arabo, un bicchiere capovolto da cui parte la macchia scura intravista dalla porta. Nell’aria il puzzo dell’alcool. “Ubriaco…” mormora la ragazza a denti stretti. Immediatamente afferra il cordone di raso che pende dal soffitto e lo tira violentemente due volte. All’altro angolo della casa il maggiordomo si scuote dal proprio torpore e si avvia verso la biblioteca. Si volta per afferrare la bottiglia sul tavolo. La osserva attentamente e aggrotta la fronte, come presa da un dubbio. Basta un’occhiata per rendersi conto che la bottiglia è piena. L’uomo sul divano è pallidissimo e respira davvero a fatica. Un’ambulanza nelle notte, a sirene spigate, la caotica folla di un pronto soccorso, le pareti bianche, sterili di un laboratorio di radiologia. La mattina dopo, una sala d’attesa. Lui esce e stringe la mano al dottore. Barcolla leggermente, cammina lento, si nota che sta sforzandosi per assumere il massimo autocontrollo. Senza una parola escono dall’ospedale e si lasciano alle spalle l’odore del lisoformio. “Piove.” “Che cosa ti hanno detto.” “Mi stavo chiedendo... perché piove sempre nei momenti drammatici della vita? Ma forse, capita solo a me.” Dal cielo lattiginoso scende una pioggia fine e insistente, la ragazza rabbrividisce, ma forse non è per il freddo. ”Che cosa ti ha detto il dottore?” ”Parecchie cose, ad esempio che stasera ci sarà un concerto di cui lui ha due biglietti da vendere. Peccato che io non abbia un soldo, potresti andarci tu, che ne dici, magari con quel tuo amico, come si chiama, George” ”Paul. Si chiama Paul. E’ così grave?” ”Cosa? Ah, parli di questa cosa che ho dentro lo stomaco, vero? No, non è poi così grave, al massimo un mese, forse meno. Non può essere una cosa grave se si risolve tanto in fretta, ti pare? “ ”Ma...” ”Cancro, per farla breve, allo stadio terminale, inoperabile, doloroso, e cose così. Ma lo sapevo già.“ L’uomo fa una smorfia, impallidisce e rallenta il passo, la ragazza lo guarda. ”E dai, bimba, che vuoi che sia? Capita a tutti, prima o poi. Perlomeno a tutti quelli che non sono così fortunati da andarsene prima. E’ la malattia di fine millennio, a quel che dicono.” ”Ci deve essere qualche cosa che si può fare...” ” Uh, mi spiace. Niente che il tuo denaro possa comprare. Tutto quello che la medicina moderna può offrirmi è una morte asettica e dolorosa. Giorni, mesi inutili rubati alla morte. No, grazie. Ne hanno abbastanza, là dentro, di cavie con le quali giocare ad imitare Dio. E poi, che idea, rinchiudermi nel primo posto in cui la morte penserà di cercarmi, che fatichi almeno un poco a trovarmi. ” ”Stai dicendo delle sciocchezze!” ”No, grazie, non lascerò che si divertano con me, che mi attacchino alle loro macchine o che mi infilino tubi luccicanti nelle vene. Quante volte sei entrata in un ospedale ? Quante volte hai visto passare… uno di quelli! Sai come li chiamano, vero? Malati terminali. Politically correct. Che idiozia. Ma certo, quando chiami le cose con il loro vero nome, poi è difficile continuare ad ignorarle… Li vedi, mentre con una mano si tengono su i pantaloni di un pigiama ormai troppo largo, camminare lenti, misurando i passi e il poco respiro, con lo sguardo fisso nel vuoto. Ti sei mai chiesta che cosa facciano ancora lì, come mai non capiscano che è finita? Tutti gli animali lo sanno quando è ora di lasciarsi andare. Loro invece sembrano non capire... Io ne ho visti tanti, ed è sempre la stessa storia. Entrano che sono uomini, salutano la famiglia, la moglie, dicono “Ce la farò, vedrete!”, poi si trasformano, lentamente. Diventano quei “cosi.” stralunati, i giocattoli dei medici, che fanno a gara a vedere quale veleno riuscirà a trascinarli fino al giorno seguente. Non è che non capiscano quel che gli sta accadendo, è solo la “sindrome del topo”. Hai mai visto un topo tra le zampe di un gatto? Aspetta, non chiede né di vivere né di morire, aspetta di vedere che cosa farà il gatto con lui, ed ha grandi occhi umidi fissi nel vuoto.” La ragazza tace, guarda l’uomo e tace. Lui ha un sorriso tirato sul volto magro, si accende un sigaro sottile. Click, chiude con uno schiocco secco l’accendino a benzina e lo ripone nella tasca. ”Ehi, bimba, ma ci hai creduto davvero? Non ho niente, magari bevo un po’ troppo, ma è tutto. Dai non fare quella faccia. Ti pago un gelato, vuoi?“ Lei spalanca la bocca e si ferma, ormai sono fuori dal grande ospedale, il cielo è ancora lattiginoso ma la giornata non è male, c’è molta luce e non fa poi così freddo. Lui ha la barba lunga, la guarda e stringe gli occhi, rughe pesanti si formano sui suoi zigomi e pieghe profonde segnano le sue guance mentre sorride ancora. Aspira una boccata di fumo e lo soffia in direzione della ragazza che aggrotta la fronte. “Non ci credo...” ”E fai male!” “Comunque non hai neppure i soldi per comprare un gelato” “Ah Ah, ecco che ti sbagli di nuovo. Ecco un dollaro, nascosto per un’evenienza speciale, che te ne pare?” Lei lo segue, poco lontano c’è un chiosco. Un chiosco che vende gelati, una macchia bianca sul grigio nero dell’asfalto bagnato. Una macchia bianca al centro del grande parcheggio deserto. Un fantasma? Un altro fantasma dal passato? .” Crema e caffè, giusto? “ .” Crema e cioccolato. Ma non ti preoccupare, hai sempre sbagliato” .” Volevo vedere se eri attenta, che ti credi? “, sorride ancora, sorride troppo, .” Ma hai ragione, ho sbagliato spesso. “
VI “Mi sono sempre piaciuti i camini” ”Lo so.” Lui si siede sul divano, la stanza è illuminata solo dalle fiamme che ardono brillanti, nell’aria il crepitio della legna. Lei è bellissima. “Sai, Giulia, un tempo, quando credevo che le cose sarebbero andate diversamente, pensavo spesso che avrei avuto una casa con un bel camino, un camino, un tappeto e un divano.” ”E io, pensavi che ci sarei stata anch’io in quella casa?” ”No, preferisco le bionde. Accidenti, ma che domande fai? Lo sai quello che provavo di te. Non sono bravo in queste cose, non lo sono mai stato, ma credevo di essermi spiegato bene, allora.” ”Eravamo due ragazzi, cosa ne sapevamo, allora?” ”Ma l’amore è cosa da ragazzi, ci vuole un ragazzo per amare. Dopo non si tratta che di calcolo. Dopo resta il desiderio, questo te lo concedo, ma l’amore... l’amore è un’altra cosa. E’ fantasia, soprattutto, è per questo che è cosa da ragazzi.” ”Non sono d’accordo” ”Lo so. Mi ci voleva questo bagno, sapessi da quanto tempo non mi capitava.” L’uomo si massaggia la testa con un asciugamano, è più rilassato ma il sorriso è sempre quello, tirato, faticoso. Stringe la cintura dell’accappatoio e allunga le gambe sul morbido tappeto. Lei si è seduta di fronte a lui, sul tappeto, incrocia le gambe e lo guarda. Difficile, molto difficile dire che cosa stia pensando. ”Dove sei stato in tutti questi anni?” ”Ho viaggiato parecchio. Ho consumato molte scarpe, ho conosciuto molta gente ed ho visitato molti, molti, bar. Non ricordo bene, però, strano no?” ”Hai mai finito gli studi?” ”Diciamo che ho fatto altri studi, che ho lasciato l’università per una scuola un po’ più dura. L’unica che valga la pena di frequentare, come ha detto qualcuno. Comunque l’ingegneria non faceva per me. Avevo altre inclinazioni ma quando me ne sono accorto era troppo tardi per cambiare. Qualche volta ho l’impressione che la vita funzioni come una trappola per scarafaggi.” ”Che razza di paragone!” ”Sicuro, una di quelle trappole di plastica con una stanza centrale e tante porte che si aprono solo dall’esterno verso l’interno. Tu entri liberamente, e altrettanto liberamente credi di poterne uscire, poi ti accorgi che ti è concesso di seguire una sola direzione.” Sul tavolo una bottiglia di vino e due calici, lunghi, sottili. ”Apri la bottiglia, se voi.” ”Credevo non volessi vedermi bere.” ”Ma questa è un’altra cosa. Chissà con quante donne hai bevuto!” ”Credi?” ”Certo.” ”C’è stata una sola donna nella mia vita. E non amo parlarne.” I due alzano i calici. ”E con lei, con lei hai mai bevuto un vino come questo?” ”Con lei non ho mai bevuto, eravamo troppo giovani per bere.” Le loro sagome sono dipinte in cangianti toni di rosso sullo sfondo fiammeggiante del camino, i calici si intrecciano e i loro visi si sfiorano. Le labbra di lei si schiudono e sono morbide e calde, come le sabbie del deserto su cui lui ha camminato, tanti anni prima. I suoi occhi lo fissano, e sono grandi e luminosi e vicini, finalmente vicini, così vicini che a lui sembra di annegare nel verde di quei laghi. Le labbra di lui sono secche e si contorcono in un ghigno farsesco, si allontana e sfiora quelle della ragazza con un dito. “Ehi, piccola, ma che vuoi fare?” Lei appoggia il bicchiere sul bordo del caminetto e lo guarda. ”Lascia stare, bimba, lascia stare. Forse non mi hai visto bene. Per te sembra che il tempo non sia passato ma io... “ Si è alzato ed ha vuotato il bicchiere di colpo, guarda la bottiglia, vorrebbe vuotarsene un altro, è una vecchia abitudine. Si trattiene. La ragazza si è alzata anche lei, fa un passo ma lui si ritrae. E’ un effetto dell’ombra che balla sul suo viso o un rigo di lacrime gli scivola sul viso? ”I miei vestiti, dove li avrà messi quel pinguino del tuo maggiordomo...” Lei fa un cenno indicando la porta della camera, lui entra e comincia a vestirsi, lei lo segue con lo sguardo. La porta si chiude. Dopo qualche minuto lui esce, si è rimesso i suoi vecchi abiti. Troppo larghi, troppo rammendati, anche se ora sono puliti. Il tutto è molto triste. ”Okay, bimba grazie di tutto, ovviamente non ho modo di pagarti, lo sai. Diciamo che hai fatto tutto quanto in nome della nostra vecchia amicizia. Se avrai bisogno di qualcosa potrai venirmi a cercare. Farò in modo che tu non riesca a trovarmi e comunque sarebbe lo stesso perché non potrei esserti utile in nessun modo.” Si avvicina alla porta a grandi passi, le gli sbarra la strada. ”Cosa stai facendo?” ”Mi sembra abbastanza chiaro... tolgo il disturbo, avrei dovuto andarmene subito, ma...” “Ma...” ”Ero un giovane sciocco, ed ora sono un vecchio sciocco, per parafrasare Yeats, che ci vuoi fare? Per un attimo ho pensato che...” La voce gli si ammorbidisce. Esita ma poi si riprende. .” Quel che voglio dire è che, qualunque cosa io abbia pensato, ormai casa mia è quella strada la fuori. Mi hai incontrato in un brutto momento, ma credimi, starò benone. Il tuo vecchio amico ha un mucchio di risorse, ha sempre un asso nella manica. .” Le strizza l’occhio ed è patetico, barcolla. ”Non ti lascerò andare via.” ”Ah, ma questo è un rapimento, tu che sei avvocato dovresti sapere che è piuttosto grave. ”Tenta di ridere, ma all’improvviso si blocca e si porta una mano allo stomaco. La bocca gli si piega in una smorfia. ”Cos’hai?” Lei vorrebbe dirgli molte cose, ma non saprebbe dire quali, poi lo guarda e indietreggia di un passo. Un rigo di sangue gli bagna le labbra e l’uomo si piega su se stesso senza un gemito. Ancora un’ambulanza che corre nella notte, ancora la sala d’attesa di un grande ospedale, bianca, impersonale, ancora il fetore del disinfettante che prende la gola. La ragazza siede su una panca, accende una sigaretta poi esita, sente il peso di uno sguardo sul collo. Si volta all’improvviso e da dietro una colonna spunta un ometto calvo e malridotto, infagottato in un pigiama troppo largo che regge con la mano destra, la fissa con grandi occhi umidi e vuoti. Arriva un’infermiera grassa che lo afferra per un braccio. ”Signor Smith, ma cosa fa? Non dovrebbe andare in giro da solo! Venga con me, è quasi ora della sua terapia.” Alla parola terapia l’uomo sembra avere un sussulto, un lampo di vita passa nei suoi occhi spenti, poi segue docile la donna grassa che lo tiene per mano. Come farebbe un topo col gatto che lo sta per sbranare, finalmente. L’ufficio del medico è angusto e spoglio, si capisce che il famoso chirurgo non vi passa che una piccola parte del proprio tempo, che neppure lui lo sente suo. A guardarlo sembra che il camice lo infastidisca, passa il tempo a slacciare e allacciare il bottone del colletto. Forse lo porta per fare una buona impressione sui clienti. E’ il tipo d’uomo che viene più facile immaginare intento a giocare a golf che in una sala operatoria. Comunque, dicono, è il migliore che si possa comprare. ”Ora dorme, ha perso molto sangue. L’abbiamo narcotizzato per evitargli altri traumi.” “Come sta” “Le condizioni sono stazionarie. Ma non le nascondo....” ”C’è qualcosa che si può fare?” ”Bisogna operare immediatamente, certo, e asportare, togliere la parte irrecuperabile. Poi ci sono terapie molto efficaci, chemioterapia, radiazioni, prodotti sperimentali, certo...” ”Ma può guarire? .” la voce di lei ha un tremito. ”Guarire? Ah, beh, certo, bisogna vedere cosa intende per guarire. E’ ancora giovane, anche se, come dire, un po’ malridotto ecco. Potrebbe andare avanti parecchi anni, certo… “ ”E se…” “Se non si fa qualcosa subito? In questo caso morirà senz’altro, nel giro di pochi giorni, qualche settimana al massimo.” ”Capisco…” ”C’è un altro piccolo problema….” “Di che si tratta?” ”Fare il medico è un dovere, certo, certo, però… queste sono, come dire? Cure costose, ecco, ora, io non so in che rapporti siate, ma non mi pare che il suo amico sia…. benestante, diciamo. Mi sono spiegato.” Le belle labbra di lei si inarcano a formare una piega dura che mette in risalto gli zigomi alti, da zingara. ”Di questo non si deve preoccupare, dottore, ho abbastanza denaro io per tutti e due. Diciamo. “ La mattina dopo è una bella mattina d’inverno, il cielo è di un limpido azzurro e il sole e l’aria fredda e secca risvegliano nella pelle ricordi di altri tempi, suggeriscono immagini di spazi sconfinati, di pianure coperte di sabbia rossa. ”Fuggito? “ ”Fuggito… signorina, non è esatto, diciamo che se n’è andato senza che nessuno se ne sia accorto, questo non è un carcere.” L’uomo non ha il coraggio di guardarla in faccia, lei è infuriata e i begli occhi fremono, serra i denti e grida che li denuncerà tutti. Arriva il medico che era di guardia la notte, ha lo sguardo assonnato, qualcuno deve essere andato a chiamarlo, probabilmente lo ha svegliato da un bel sogno. E’ un giovane di colore, atletico ed elegante. La ragazza si calma. Lui parla con voce tranquilla. ”Vedrà che non può essere andato molto lontano…” Non lo conosci, pensa la ragazza, tu non sai quanta forza di volontà possiede, neppure lui se n’è mai reso conto. “... aveva perso molto sangue e inoltre gli avevamo somministrato un potente sedativo. Gli agenti di sorveglianza lo ritroveranno tra qualche minuto, svenuto nel parco. Ora, se vuole scusarmi.” La ragazza non lo ascolta, è come svuotata, lontano si sente un gemito, un a vecchia signora accanto a lei ha un sussulto, un’infermiera dallo sguardo annoiato controlla le luci lampeggianti su di un pannello e fa un segno a una giovane ausiliaria dallo sguardo spaventato. Giulia rimane immobile nel mezzo della sala. Nessuno bada a lei. Quando ritorna a casa non sa quanto tempo sia passato. C’è un messaggio nella segreteria, la mano le trema mentre preme il tasto di gomma. E’ Paul, che si scusa. Poi qualcuno bussa alla porta. Giulia apre, è un piccolo fattorino con un grosso pacco e dei fiori. Un regalo di Paul, e in una busta i biglietti per quel concerto d’archi così alla moda. Ci sarà certamente tanta gente elegante. La ragazza ha un brivido. Si siede sul divano e chiude gli occhi. Doloroso, inatteso, lo squillare del telefono lacera il silenzio. ”Buongiorno, qui risponde il 453253, non sono in casa, al momento, lasciate un messaggio e vi contatterò al più presto “ Il segnale acustico, il solito arido “beep”. Sarà certamente ancora Paul, vorrà sapere se ha ricevuto i biglietti e il resto. Deve alzarsi per andare a rispondere? “Adieux, bimba. Dall'altra parte del filo, soltanto un sorriso stanco.
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Marco R. Capelli
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Dodici racconti orfani di Marco R. Capelli
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Agitare con prudenza.
Altre informazioni / L'autore
In questo libro, troverete molte finestre aperte su stagioni e paesaggi diversi di un mondo immaginario eppure, in un certo modo, coerente. Un teatrino di personaggi sperduti, testardi, a volte brutali, mossi dalla consapevolezza di una mancanza, di un vuoto al quale non sanno dare un nome preciso ma che sognano confusamente di colmare. E questa necessità li spinge a viaggiare, a cercare, a rovesciare il tavolo, a cambiare tutte le carte della mano, contro ogni logica, perché o si trova una scala reale o non ha senso giocare. E tanti saluti a chi si contenta di vincere con una doppia coppia.
Siano essi geniali (e molto distratti) ingegneri, brutali e giganteschi barbari imprigionati in un mondo a metà fra Howard e Lord Dunsany, ombre nel deserto, impiegati non del tutto disposti a piegarsi, vecchi e bellicosi contadini toscani o fantasmi, a loro modo piuttosto concreti.
Completano il tutto un paio di divagazioni giovanili, che ho incluso più che altro per nostalgia, come fossero quei pezzi che si trovano a volte nei musei, quelli che nessuno sa davvero cosa fossero o a cosa servissero ma sembra brutto lasciarli in una cassa sul retro. Così li si espone con una avvertenza in caratteri piccoli: ritrovamento non catalogato, uso incerto. Agitare con prudenza.
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