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Cammina sghembo e dondola a destra e a sinistra. Più a destra, in verità: ciondola come se il suo baricentro fosse diverso dal normale, alterato da un DNA atipico o dalla vita, e cadesse sul pavimento da qualche parte oltre il piede. Oltre lui, in effetti. Lo guardo dalla panchina bollente dove ho tentato di riposarmi, obbligandomi a interrompere le quattro ore e mezza di esercizio fisico aerobico che mi servono quando non ne posso più. Qui a Firenze quattro ore e mezza ci stanno tutte: se vuoi, cammini. E se non vuoi, non vedi. A Firenze vivere è muoversi, sospirare, conoscere. E fidarsi di nessuno perché nessuno si fida di te. Comunque. I muscoli delle mie gambe sono tesi e sorridono, la noia asettica e pronta di Milano li riveste di grasso flaccido e sonnolenza, per fortuna riesco a togliermi dall’apatia e trascinarmi qui, sempre più spesso. Sola. Viva. Nel rischio totale di perdere me stessa. Ho trovato una casa per un miracolo che ancora non riesco a spiegarmi, e mi sono lasciata fondere con l’Arno torbido e le rondini che giocano su Ponte Vecchio, e il silenzio di quadri che mi osservano dai muri e poltrone graffiate dai gatti ma ancora capaci di accogliere. Insomma, ho camminato le mie quasi quattro ore e mezza, poi mi sono seduta senza il sollievo di una bibita (le bibite non mi piacciono, che sollievo dovrei avere? Parliamo di acqua fresca, è meglio) e ho lanciato gli occhi in giro per controllare. La gente, il tempo, l’inutile foga di sbrigarsi. L’ho visto quasi subito, vestito con un jeans macchiato e stinto, sfrangiato senza intento fashion, il cavallo basso quasi oltre l’inguine e la sigaretta che pende dalla bocca, spenta. La maglia arancio aderisce al torace scarso, probabilmente glabro, troppo magro per essere eccitante e forse odoroso di fumo vecchio e sporcizia. Non mi piacciono gli uomini con i capelli lunghi: niente beat o spiriti liberi per me, piuttosto una bella pelata sexy ma pulita. Lui ha capelli grigi e biondi, a boccoli poco lavati scendono sotto le spalle e stringono il volto rugoso e concentrato su pensieri che non riesco a immaginare, e una bandana rossa di traverso che deterge il sudore dall’attaccatura della fronte e gira dietro, in un incavo del collo che preferisco solo immaginare. La chitarra batte sulla schiena, fa tlac tlac tlac sulle cuciture dei jeans, dietro, dove il sedere non esiste e la schiena continua direttamente con il retro coscia magro e flesso in avanti. Come nei fumetti, ricordo quel personaggio dinoccolato e floscio che cammina con le gambe a V, stilizzato abbastanza da rendere l’idea del vuoto e della mancanza di senso. Qualcuno ride per quel fumetto, forse, a me ricorda quest’ombra che mi passa davanti nel caldo impossibile della città d’adozione. Ha una chitarra, addosso, insieme alla maglia arancio che scolpisce la magrezza brutta. Chissà cosa suona, con quella chitarra, e chissà per chi suona. Ho amato un musicista, una volta, uno che aveva fatto musica in gioventù poi è diventato altro. Molto altro, intendendo quel “molto” con le accezioni che preferite: molto di più, molto di meno, molto diverso. Molto diverso senza dubbio, perché le note della sua chitarra sono diventate banconote. Banco-note. Note, in ogni caso. Peccato che la trasformazione abbia tolto la poesia, e anche l’amore, e il rispetto. Ma dai, basta. Il passato è polvere schiacciata sotto i piedi di chi attraversa la piazza, di quel tizio sporco con i capelli lunghi fuori moda e fuori senso e con una maglia che disegna il torace. Lo guardo e non posso staccare gli occhi, nonostante sia lontano dall’uomo che di solito riesce a colpirmi. I piedi muovono polvere e fanno rumore, non si sollevano del tutto e rischiano di inciampare nell’asfalto, il respiro è corto e pesante, immagino l’alito di fumo e vino e notti buttate sull’argine non lontano dalle mie finestre. Oppure no. Oppure è tutto diverso, ed è il grasso flaccido di Milano che copre la mia capacità di vedere; è il grasso fumoso della metropoli altera a modificare in sogno la camminata lenta di questa chitarra attaccata a un uomo, e a una maglia arancio che simula un torace. Forse è l’uomo il centro di tutto, e non io. Ha ragione lui, io sono la nota storta di questa panchina, della piazza assolata ormai svenduta ai turisti e alla gente come me che vorrebbe essere diversa, ma non può evitare di essere uguale. Artisti e artistoidi, e semplici comparse, ballano insieme al traverso di Ponte Vecchio. E non fanno la storia. Come il mio chitarrista che ha trasformato le note in banco-note, e le usa per cantare serenate a donne che tanto avrebbe ugualmente. Insomma. Il sole mi ha fermata nel cammino aerobico, abbattendomi su una panchina. Il sole batte sui suoi capelli grigi biondi bianchi e sporchi, e sulla chitarra che picchia sui jeans facendo tlac tlac tlac. A Firenze, adesso. Senza un motivo.
©
Mariagiovanna Luini
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