Apro gli occhi. La stanza è piccola e buia. Solo una luce puntata su di me. Sono seduto. Sul tavolo davanti a me, una revolver.
È carica.
È un processo.
La voce elenca date, fatti e persone, luoghi conosciuti e istanti dimenticati, azioni passate. Sono sempre io.
È l'accusa. Quelle frasi mi rappresentano; sono ogni loro parola, ogni sillaba pronunciata.
Non provo nulla; il tempo accumulatosi mi allontana da quei fatti e mi rende loro estraneo. Ma sono sempre io. Mi riconosco in ogni lettera.
È un processo e io ne sono l'unico indiziato.
L'avvocato ha una vocina lieve che neppure ascolto.
Le parole dell'accusa sono le più pesanti.
Il processo è finito.
La condanna è la morte.
Prendo la pistola, la stringo nella mano, la porto alle tempie e premo il grilletto.
Nulla. Nessun proiettile.
Sensazione di sollievo.
L'accusa alza nuovamente la voce, ricorre in appello.
Premo una seconda volta il grilletto. Non sento lo sparo.
Giustizia è fatta.