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Altura Richter
di Gianluca Pavone
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Fu nel corso di un'estate completamente guastata dalla pioggia, che mi innamorai perdutamente di Glenn.

Non uscii quasi mai di casa, a pensarci bene, se non per andare a fare le provviste per il fine settimana giù in paese (c'era in programma il compleanno di Clara quel sabato).

Ricordo che scendendo a valle con la Dyane 6 color giallo canarino di mio padre, pensai a come sarebbe stato bello un giorno ritirarsi per sempre sul monte, come un'eremita.

Non farlo solo per il periodo estivo, come succedeva da 13 anni a questa parte, sempre nella stessa casa di campagna nei dintorni di Salisburgo.

Pensai che sarebbe stato bello fare un passo indietro, sentirsi primitivo, tornare alle origini.

Non parlavo molto, non l'ho mai fatto.

Giusto l'indispensabile, quando serviva.

Pensai che sarebbe stato divertente spaventare con qualche bravata i forestieri che arrivavano sin lassù, sul monte.

Il Mönchsberg.

Solo il nome presupponeva un qualcosa di imponente, un qualcosa a cui portare accurato rispetto.

Ricordo la volta che mio nonno Karl mi portò a vedere il panorama da quella che veniva chiamata l'Altura Richter.

Mi disse che da lassù si poteva godere della vista più bella sulla Germania.

Che contraddizione, mi ritrovai a pensare, ricordando che il Monte Mönchsberg lo chiamavano Monte del Suicidio (si narrava che da quel monte ogni settimana si scagliavano nell'abisso almeno tre-quattro persone).

I suicidi salgono fino in cima con l'ascensore scavato nel cuore della montagna, fanno qualche passo e poi si scagliano giù verso il vuoto, verso la città.

Anche mio nonno Karl aveva provato una volta.

Era salito, dopo aver scritto una lunga lettera a mia nonna Gertrude.

Poi aveva rinunciato, dopo aver fatto un bel sonno che gli aveva portato insieme consiglio e ragione.

La vista più bella sulla Germania, levava le vite, oltre al fiato.

Io ero rimasto a bocca aperta, quella volta con mio nonno, per respirare bene l'aria gelida che prendeva  il suo posto nei polmoni.

A respirare.

A respirare l'aria che prendeva al cervello i pazzi.

Avevo sperato di vedere un matto lanciarsi nel vuoto, quella volta.

Sfracellarsi giù in strada, tra le macchine in passaggio.

Rimasi profondamente deluso.

Cercavo tracce di morte dallo strapiombo.

Chessò, un vecchio scarpone, avanzi di cibo in scatola utilizzato come ultimo pasto.

Vecchi orologi nascosti tra le insenature, abbandonati perchè l'ultima ora era ormai irrimediabilmente scoccata.

Il tempo fugge, portandosi dietro alcuni corpi.

Chiesi a mio nonno la ragione che spingeva qualcuno a fare un gesto simile.

Lui mi rispose fischiettando il Requiem di Mozart.

Mio nonno Karl era un grande appassionato di musica.

I dischi riposavano in perfetto ordine sullo scaffale, accanto al grammofono.

Bach, Beethoven, Brahms, Chopin, Debussy e via dicendo erano in bella mostra in salotto, pronti all'ennesimo giro dato dal caso e dall'umore (e dalle braccia rachitiche di mio nonno).

Il sabato, durante le vacanze estive, li sentivo suonare ad un volume esagerato durante l'ora del thè e dei pasticcini, dalla mia stanza del secondo piano che dividevo con Clara.

A mia nonna sembrava non disturbare, tutto quel fracasso.

I pasticcini rimbalzavano feroci nelle scatole di latta, formando uno strano accompagnamento non autorizzato che sembrava non destare interesse nè in mia nonna Gertrude nè in mio nonno Karl (e forse sarebbe stato tollerato dal solo Beethoven - e per ovvie ragioni - se fosse stata una vera sala da concerto).

Ma non vorrei perdermi in questi discorsi ora.

Torniamo a Glenn e al giorno in cui mi ritrovai perduto sulla sua strada.

Scendevo appunto con la macchina giù in paese, per poter acquistare al minimarket l'indispensabile per la festa di Clara che era alle porte.

Avevo parcheggiato nella piazzola alberata del centro ed ero sceso dall'auto, nel mio impermeabile e sotto una pioggia straordinaria per un 27 luglio qualunque.

Chissà perchè, mi ero ritrovato a pensare che se non avesse smesso al più presto, mi sarebbe risultato assai difficile riportare quella vecchia carcassa su quattro ruote sulla strada verso casa.

Già scendendo a valle, un brivido freddo mi aveva attraversato la schiena, quando i freni non avevano risposto correttamente ad un incrocio, quando avevo scansato per miracolo un daino sbucato da una siepe nascosta.

"Merda!" dissi solamente, prima di ripiombare nel mio silenzio autistico scandito solo dall'acqua, che danzava col tergicristalli ad un ritmo da polka.

Il mio ingresso nel minimarket era stato salutato con stupore dalle cassiere grasse (e truccate come quelle bamboline di porcellana della Germania degli anni '30) che nascondevano uno sgabello su per il culo.

Un HIRSCHER qui? avranno pensato, quasi fossimo una razza in via d'estinzione.

Certo, non ci si vede spesso in paese - non ci piace unirci alle persone - ma rimanere con quelle facce da babbei ogni volta che scendiamo per delle commissioni, questo mi pare un pò troppo.

Ho ereditato la mania per l'isolamento, oltre al cognome famigerato.

Ci piace vivere così.

Non è peccato.

Delle volte provavo un'insostenibile imbarazzo, quando mi trovavo di fronte il signor KIRCHGASSER, il titolare del più vicino minimarket ai piedi del Monte.

Mi guarda con quella faccia inquisitoria che proprio non mi piace.

Forse ripensa ancora a quella volta in cui mio nonno Karl gli puntò addosso il suo fucile da caccia per aver sconfinato nella sua terra e si pisciò letteralmente addosso, come un bambino alle prese con un brutto sogno.

Ma di che si lamenta?

Aveva sconfinato, deve ringraziare il suo Signore se è ancora vivo, dopotutto.

Non ti mettere mai contro un HIRSCHER.

 

Avevo preso tutto e alla svelta, quella volta.

Un senso d'ansia si era impadronito del mio petto.

Le persone in fila alla cassa mi avevano fatto passare, quasi fossi un'influenza da evitare accuratamente.

Di quelle violente, fuori stagione, che ti rovinano le giornate d'estate e che ti legano ad un letto quando invece vorresti essere in riva al lago a pescare grossi pesci siluro.

L'odore di piscio di animale incollato sulle gonne di vecchie zitelle rimbambite, mi aveva preso allo stomaco ed era stato in grado di riportare nella mia bocca - in uno straordinario ordine cronologico - il sapore delle portate che io stesso avevo cucinato con pazienza per il pranzo.

Avevo pagato e, una volta fuori, avevo vomitato sotto il portico le salsicce con le patate, il timballo di zucchine ed il sufflè al cioccolato, che vennero spazzati via dall'acqua (che scendeva dal pendio della pensilina) affamata per cercare un posto dove andare a nascondersi ed esaurire il compito.

Poi, esausto ed indebolito dallo sforzo, mi ero caricato la merce in macchina e lentamente ero risalito su per il monte.

Niente daini stavolta.

Impiegai più di un'ora.

Ero entrato in casa e Clara, mia sorella minore, stava ascoltando uno dei dischi di mio nonno.

Non l'avevo mai sentito prima di allora.

Mia nonna Gertrude era addormentata davanti alla tv nel suo vestito preferito color zafferano.

Mio nonno Karl armeggiava nel solaio pieno zeppo di ricordi andati a male.

"Ti piace Glenn Gould, Walter?" mi aveva detto Clara, con ai piedi le sue scarpe ortopediche lucidissime.

Ecco, adesso sapevo il suo nome.

Sapevo il nome di colui che lentamente mi stava incendiando il cuore.

Non sapevo come facesse - con la musica - a provocare quello sconquasso.

Non mi era mai capitato un qualcosa di così potente, istantaneo, paralizzante.

Il pianoforte scioglieva parti di me, giro dopo giro.

Lo stomaco era andato.

La mente anche.

Sapevo di quella sensazione.

L'avevo provata una sola volta nella mia vita, con Catherine.

Ero innamorato.

Carne sulla brace che prende colore e s'infiamma.

Ero innamorato, come un collegiale alle prese con qualcosa di proibito che lo sovrasta e gli spezza ogni volontà.

Mi sentivo come i pazzi sull'Altura Richter che osservano qualcosa di unico (la vista più bella sulla Germania) prima della fine imminente.

Nella voragine di Glenn fui preso, con la sua stessa follia divoratrice.

Sentii il mio pensiero rattrappirsi, le ginocchia sciogliersi come burro.

Mi lanciai, ad occhi aperti, dall'Altura Richter che Glenn aveva creato per me.

La vista più bella sull'arte aveva bisogno di un corpo.

Mi lanciai, senza pensarci.

Non feci dietrofront come mio nonno Karl anni addietro.

Mi lanciai senza indugio.

Senza applausi da sala da concerto.

Mi lanciai e seppi esattamente a cosa mi avrebbe portato il mio gesto.

In quell'istante, sotto gli occhi di Clara, stavo donando a Glenn il mio cuore.

Per sempre.

 

© Gianluca Pavone





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