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Se ne stavano in cerca d’autore intorno alla tavola tra il formaggio, il pane e il vino. Sul lato lungo, l’infedele che esige fedeltà e abnegazione. Sbriciolava il pane sulla tovaglia bianca con noncuranza. Di fianco, il carnefice che ha la necessità di qualificarsi vittima. Tamburellava con le dita ossute sulla tavola. Di fronte stava il qualunquista che, gambe accavallate, sorrideva con sufficienza al muro. Accanto, colui che amò streghe ingannatrici e non cessa di erigere roghi. Tentava di sciogliere i muscoli rigidi del collo eseguendo piccole circonferenze con la testa. A una delle estremità, l’affamato lettore di saggi molto saggi che ritiene conoscere a menadito la psiche altrui e pare sconoscere la geografia delle proprie mani. Teneva gli occhi dentro al bicchiere vuoto e si grattava il mento con la stanghetta degli occhiali. All’altra estremità sedeva il richiedente che mira con grazia a caricare il peso della propria vita sulle spalle altrui, e minaccia le spalle che si sottraggono. Masticava il formaggio con la bocca aperta. Tutti stavano in maniche di camicia bianca e avevano le tasche - dei pantaloni scuri - rigonfie di appunti, scrupolosamente conservati, nel caso in cui fossero stati chiamati in giudizio come testi a confutazione. L’autore tardava ad arrivare, e la luce impallidiva un po’ sopra i mezzi monologhi trasudanti saggezza venduta per poche lire al negozio di roba usata giù all’angolo della strada. Si disquisiva se fosse più nobile servire la distonia neurovegetativa con gli spinaci al burro o con le patate lesse. Gli spinaci di Braccio di Ferro il marinaio sembravano stare in vantaggio di una spanna. Gli sguardi spigolosi puntavano la porta vuota; rimaneva ancora tempo per determinare se fosse più agevole calpestare le passate tormentose canzoni con il piede destro o con quello sinistro; si faceva largo tra le briciole l’ipotesi di saltarci sopra a pie’ pari. Da dentro un sorso di vino rosato, si obiettava con pacatezza che anche strappare le note una a una era congettura da tenere nella giusta considerazione. Si sarebbe potuto anche rivendere a pezzi le note, e cavarci fuori dal buco quel ragno che non arriva al mattino. Fuori dalla finestra mezza luna accompagnava le risate argentine di un gruppo di bimbi che giocavano agli indiani. Un remoto odore di gelsomino non riusciva ad attraversare la finestra. I bimbi urlavano battendosi il palmo della mano sulla bocca. – Posso giocare anch’io? Il mio urlo è imperfetto, si arrampica in gola, e rimane tra i denti. Il mio nome di battaglia è Tempia Pulsante. Ho in tasca solo due piume senza zuccheri aggiunti. Il piccolo capotribù aveva uno sbaffo di farina sulla guancia. Mi girava intorno puntandomi addosso una freccia orfana di arco. Avrei voluto trattenerlo un istante per raccontargli che c’è una rettitudine persino nel peccato. Ma non volevo privarlo del piacere di forarmi il petto. L’autore non arrivava. Veniva ormai dato per disperso dentro l’armadio delle maschere dell’ultimo Carnevale, forse soffocato dai coriandoli. Ma era ipotesi da verificare. Il vino era finito. Era rimasto in tavola solo un minuscolo pezzo di formaggio, noto come quello della vergogna. Nessuno osava toccarlo, ma tutti lo puntavano. Il pubblico si scomponeva infastidito sulle poltrone. Un brusio di disappunto attraversava la sala. La maschera avvertì il bisogno di alleggerire lo scontento, e girò fra le poltrone offrendo le foglie cadute dall’albero autunnale di Ungaretti. Borbottava, nella penombra, che i rimpianti sono da preferire ai rimorsi. Il sipario si chiuse con un robusto abbraccio circolare a tutte le ombre. Dentro quell’abbraccio c’era la carezza silenziosa di chi ha sempre richiuso piano la porta andando via in punta di piedi.
©
Cettina Caliò
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