La piscina era vuota e le ampie vetrate restituivano un cielo insolitamente plumbeo.
L’atleta poggiò l’accappatoio su una sedia e indossò la cuffia. Estrasse dalla piccola custodia gli occhialini e li sistemò cercando di farli aderire perfettamente alle cavità oculari.
Per un momento si soffermò a fissare il mondo fuori, gli alberi, quei cumuli neri ed immobili, come spettatori che silenziosi attendono il coup de theatre e notò il silenzio. Palpabile eppure irreale.
Fece alcuni piegamenti sulle gambe, poi cercò di sciogliere le braccia ed il collo. E sempre di più notò quel silenzio, la totale mancanza di rumori.
Entrò rapidamente in acqua e lo sciabordio spezzò quella sensazione di isolamento da cui iniziava a sentirsi imprigionato.
Si girò verso la fine della piscina, poi si aggrappo saldamente alla maniglia della piattaforma e puntò i piedi
Per qualche secondo si dondolo in quella posizione, poi lo slancio e le ampie bracciate a dorso.
Nuotava, ma un macigno inamovibile sembrava ora schiacciarlo.
Nuotava, pensava agli insegnamenti dei suoi istruttori che lo avevano seguito per anni, ma erano fugaci meteore nella sua mente. E quella sensazione aumentava.
Aumentò il ritmo. Le gambe si muovevano frenetiche, le braccia squassavano l’acqua.
Sentiva i muscoli contrarsi per poi distendersi, ritmicamente, come stantuffi meccanici, incapaci di percepire fatica e dolori.
Nuotava.
E la sponda, l’arrivo, dove erano?
Il cielo sempre scuro, immobile e quell’ansia che ora lo schiacciava, sembrava avere preso forma e consistenza.
Sentimenti, emozioni, sensazioni si fusero tra loro come i colori di una girandola presa dal vento che restituisce allo sguardo solo un bianco abbacinante.
Non si fermò, non guardò dietro di se, continuò a nuotare.
Qualcosa era li ad attenderlo, questo lo sentiva, ma finchè avesse avuto fiato avrebbe resistito.
Poi si sarebbe voltato.
Dopo.