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Ethan
di Alessandra Ferrari
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Adesso che il suo volto è in prima pagina sui tutti giornali lo sapete anche voi chi è, il piccolo Ethan.

Ma io lo conoscevo da prima, da quando non era tristemente famoso, da quando non aveva ancora perso quel suo sorriso disarmante e usciva ed entrava da casa nostra come uno di famiglia. 

Si era trasferito nel nostro palazzo, nell’appartamento annesso alla guardiola, quando la nostra portinaia storica, una pugliese grossa e logorroica, era andata in pensione. Maria, la mamma di Ethan l’aveva sostituita nelle mansioni e aveva portato con sé oltre al marito, una bimba dall’espressione sempre imbronciata di nome Emily e lui, il piccolo Ethan. 

Frequentava la stessa scuola di mio figlio, di cui era coetaneo. Così se facevo tardi in redazione era Maria che recuperava entrambi dalle lezioni e che faceva da baby sitter a Mattia fino a quanto io o suo padre non tornavamo dal lavoro.

Tra i due bambini era subito nata una simpatia istintiva, che si era evoluta in fretta in un’amicizia complice e affettuosa. Quando rientravo li trovavo in guardiola ad appiccicare figurine di giocatori sull’album Panini o in giardino a giocare a nascondino. Talvolta si nascondevano talmente bene che io e Maria dovevamo cercali fino a tarda sera, fino a quanto Emily, stremata dalla fame, non si decideva a rivelarci il loro rifugio.

Quando iniziai a lavorare da casa, Ethan veniva spesso a fare merenda o i compiti a casa nostra. Era un bambino di un’intelligenza sorprendente. Pur essendo figlio di immigrati, parlava un italiano del tutto privo di accento e scriveva fluentemente, senza incorrere negli errori di grammatica nei quali scivolano tipicamente i bambini bilingue. Ma era la matematica la sua passione. Ricordo che un pomeriggio, avranno avuto 8 o 9 anni, dovevano studiare le divisioni. La settimana prima Ethan era stato malato e aveva perso la spiegazione della maestra. Quando salì a casa nostra però fu lui a spiegarle a Mattia. A casa si annoiava così le aveva imparate da solo e riusciva a svolgere correttamente anche quelle a due cifre.

Ogni tanto si fermava a cena da noi. Maria lo mandava su con una terrina di chevice o un piatto di empanadas. E lui ci faceva ridere facendo l’imitazione del padre, le rare volte che rientrava dal lavoro ubriaco o dell’inquilino del primo piano che rimproverava i bambini perchè giocavano in cortile.

Era figo Ethan, diceva mio figlio. In classe avevano un compagno di nome Pietro che soffriva di gravi disturbi dell’apprendimento. Era spesso al banco con Ethan perchè le maestre si erano accorte che il piccolo sudamericano non solo lo faceva ridere, ma riusciva a coinvolgerlo nei giochi e nelle attività scolastiche. C’erano dei ragazzini di quarta che lo avevano preso di mira. Dapprima lo aspettavano all’intervallo e gli rubavano la merenda, ma poi diventarono sempre più violenti e spesso Pietro tornava a casa con dei lividi scuri sulle braccia e sulle gambe. 

Una sera Maria si presentò a casa nostra raccontando che Ethan era rientrato da scuola pieno di ecchimosi e graffi. Aveva dovuto persino portarlo dal dentista perchè aveva perso uno degli incisivi superiori. Voleva sapere se Mattia fosse a conoscenza di quello che era successo, perchè Ethan si rifiutava di darle spiegazioni, ma i ragazzi erano tanto solidali tra loro quanto omertosi con noi e lei tornò di sotto senza saperne più di prima. Dopo che se ne furono andati Mattia mi disse solo: “vedrai che da oggi nessuno oserà più torcere un capello a Pietro”. E infatti fu così.

Il giorno in cui il padre di Ethan perse la vita lo ricordo bene. Faceva il muratore presso un’impresa di demolizioni. Non indossava l’elmetto protettivo quando il muro che stava abbattendo a colpi di piccone gli cadde addosso, schiacciandolo come uno scarafaggio. Quando Maria ricevette la telefonata dell’ospedale capì subito quello che c’era da capire perchè Enrique non avrebbe permesso ad un medico di chiamare sua moglie, ma l’avrebbe fatto in prima persona, per evitare di spaventarla. A meno che non ne fosse stato in grado.

Maria ci affidò i bambini, mentre il marito di sua sorella l’accompagnava in ospedale. Anche Ethan, svelto com’era, sembrava aver capito tutto. Fu quel pomeriggio a casa nostra che diede l’addio all’infanzia. Perse di colpo quella sua spensieratezza vivace e quel buonumore contagioso che inconsapevolmente distribuiva in giro. Crebbe di colpo e mise su un’espressione selvatica, che mi faceva venire in mente un gatto randagio. Ferito e vendicativo.

Il datore di lavoro di Enrique non era assicurato e non possedeva il denaro per risarcire il danno ai familiari del defunto. Tornò nel suo paese d’origine e nessuno ebbe più notizie di lui.

Maria continuò per un po’ a lavorare in portineria, ma dopo la morte del marito era sempre stanca e dimenticava di pulire le scale o di mettere la posta nelle caselle. Eravamo tutti preoccupati per lei. Poi un giorno, di buonora, sentii di nuovo il rumore dello spazzolone sulle scale. “Finalmente si sta riprendendo!” pensai. Ma quando aprii la porta, di Maria non vi era traccia. Chinato sul pianerottolo con indosso i suoi guanti da portiere e uno strofinaccio in mano, c’era Ethan. Stava pulendo le scale al posto di sua madre.

Non molto tempo dopo furono costretti a lasciare la portineria. I condomini erano diventati sempre più intolleranti alle negligenze di Maria. E l’amministratore, che era già intervenuto più volte con richiami e minacce, si vide costretto a cacciarla.

Ethan faceva la terza media. Mattia provò più volte a chiamarlo, ma lui, credo per pudore, non rispose mai al telefono. Seppi da una condomina che per un periodo si erano trasferiti in periferia, a casa della sorella di Maria, ma poi il cognato era diventato insofferente all’indolenza di Maria e all’esuberanza dei ragazzi e così li aveva mandati via. Nonostante le nostre ricerche furono piuttosto accurate non riuscimmo più ad avere loro notizie.

Fino a venerdì quando, come ogni mattina, do un’occhiata ai quotidiani prima di iniziare a lavorare. C’era il volto di Ethan in prima pagina, l’ho riconosciuto subito, senza esitazioni. I lineamenti avevano perso del tutto le rotondità dell’infanzia e si erano fatti più marcati e dal collo della maglietta faceva capolino un tatuaggio che, con tutta evidenza, proseguiva sul torace, ma per il resto era lui, il bambino che ci faceva ridere e ci portava le empanadas.

Fu il suo volto la sola cosa che riuscii a ricondurre a lui. Tutto ciò che era scritto nell’articolo invece non mi riportava affatto alla mente il piccolo ecuadoregno. Dicevano che una notte si era introdotto in una casa signorile e che era armato, anche se la pistola si era poi rivelata un giocattolo. Che il padrone di casa si era svegliato all’improvviso perchè aveva sentito dei rumori in cucina e se lo era trovato davanti. Ora è indagato per eccesso colposo in legittima difesa. Lui dice che si è spaventato quando si è trovato la pistola puntata addosso, che si è solo difeso. Che non voleva uccidere.

Poi ho letto i commenti in fondo all’articolo. Quelli più clementi dicono che l’aspirante ladro se lo è meritato, che se fosse stato a casa sua non sarebbe successo niente, che se l’è cercata, che questo è il destino di chi vìola la proprietà altrui. E poi ci sono gli altri, quelli crudeli.

L’altro giorno ha chiamato mio figlio. E’ a Londra a studiare. Me lo ha chiesto subito: “mamma quello sul giornale è Ethan? Sul Corriere hanno pubblicato nome, cognome e foto. Ma voleva una conferma ulteriore, non so se fosse attaccato ad un filo di speranza o se volesse sentirselo dire da me. Quando l’ho fatto ha detto solo: “ah!” come risponde quando è deluso. Ma l’ho sentito che gli tremava la voce. 

Ci siamo risentiti qualche giorno dopo: mi ha riferito i risultati dell’esame di economia che è andato particolarmente bene, ma non era sollevato come al solito. Poi di punto in bianco mi ha detto: “mamma, sai la cosa di Ethan? Io lo avevo incontrato in un locale sui Navigli, qualche anno fa. Era felice di vedermi, mi ha offerto una birra e mi ha parlato un po’ di lui. Diceva di avere una società di trasporti e che gli affari giravano per il verso giusto. Ma non era vero. Me ne sono accorto perchè mentre me lo raccontava ha fatto come quando da bambini mi diceva le bugie. Ha smesso di guardarmi negli occhi.”

Penso tanto a Ethan in questi giorni. Al potenziale che aveva, al suo sorriso, alla morte di suo padre. Lo conoscevo bene da bambino.

E adesso che il suo volto è in prima pagina, lo conoscete anche voi. Ma per voi è un criminale incallito che meritava la morte, per me è solo un bambino che, per aiutare la mamma, puliva le scale con addosso i suoi guanti da portiere.

© Alessandra Ferrari





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