La complessità e la varietà delle argomentazioni che Linguaglossa affronta nel suo ultimo lavoro, sebbene annunciate in precedenti relazioni, interviste e articoli, pongono in sé la prima questione: capirlo fino in fondo, nella finezza dell’analisi concettuale, sempre -efficacemente- allargata dal puro discorso sulla poïesis all’ambito della filosofia e dell’accadere.
Per Linguaglossa, come per Heidegger, l’individuo, e quindi l’artista, non può essere inteso al di fuori della propria storicità e allora la sua proposizione è una continua intersezione tra la linea della temporalità, che definisce il clima culturale in senso lato, e quella dei linguaggi poetici, esemplificati attraverso gli autori proposti, spigolati nei tratti salienti con una concisione, come suo costume, illuminante.
Il vespaio di reazioni, come da tempo non si vedeva in Italia, indica senza equivoci che si tratta di un libro che merita attenzione.
Detto questo, a un lettore più sprovveduto, come la sottoscritta, tocca esprimersi in punta di penna: più che di un giudizio, si tratta di una verifica.
Credo di poter partire dallo scetticismo che l’autore nutre nei riguardi dei codici poetici del secolo scorso, sulle formule stereotipate adottate dagli epigoni, compresa l’insofferenza verso alcuni aspetti del modernismo, non ancora in grado di innovare i canoni del ‘900, che senza alcun dubbio può essere definito secolo di crisi tout court.
Di recente ho ascoltato Linguaglossa affermare, se ho ben inteso anche in quel caso il suo pensiero, che alcune epoche non meritano la poesia, ossia non riescono ad esprimerla ed egli portava ad esempio il Medio Evo, dalla caduta dell’impero romano alla nascita della poesia del ‘200, periodo che non ha lasciato traccia di autori meritevoli.
Forse attraversiamo, allo stesso modo, un tempo non congeniale alla poesia, nel quale il discorso poetico procede per approssimazioni al suo oggetto, deviando verso forme retrograde, minimali o sperimentali, accerchiandolo e sfiorandolo, senza tuttavia riuscire a raggiungerlo. Accade anche di peggio quando la scrittura viene sottomessa alla convenienza o addirittura si svende a forze spurie del tutto aliene dall’autenticità della rappresentazione poetica.
A questo proposito, se pure la vis polemica sia palesata con una misura che occorre riconoscergli, Linguaglossa non lesina strali a quella che considera una sorta di prostituzione della coeva poïesis.
Col concetto di autenticità, invece, Linguaglossa indica la raffigurazione convergente tra il contenuto e la parola poetica, alla luce della libertà della propria arte. E per libertà intende lo svincolo da ogni tipo di condizionamento, soprattutto da quelli meno pronunciabili.
Un fine nobile che indica senza equivoci la modalità dell’espressione che dovrebbe arridere al poeta.
In ogni modo, la crisi della poesia è fatto tanto evidente che oramai non occorrerebbe neppure nominarla. Basti considerare un solo aspetto. Si è rotto il patto comunicativo col pubblico, come non è accaduto con le altre forme artistiche e pensiamo alla pittura. I lettori sono quasi inesistenti e non credo valga la spiegazione che si tratti di arte nobile, di fatto elitaria. Gli antichi Romani, per tornare al passato, riuscivano a cogliere la scansione dell’esametro e Boccaccio leggeva Dante in chiesa, s’immagina ad un pubblico folto.
La crisi di un’intera cultura, che si è protratta per tutto il ‘900, ha provocato una frantumazione dei linguaggi, diventati sempre più settoriali e specialistici e quindi anche la frantumazione del linguaggio poetico ed evidente involuzione.
Sembrerebbe che sia mancato un filo conduttore che potesse tenere insieme le coscienze e, di conseguenza, l’espressione poetica ha preso rivoli che non le hanno permesso di ambire le vette.
Il secolo trascorso si è aperto con una guerra, ha vissuto in parte, almeno in Italia, la crisi economica del ’29, l’affermarsi delle dittature, una seconda guerra mondiale, ha assistito alla critica del positivismo ottimistico col nascere di posizioni di pensiero e di concezioni artistiche legate al soggetto, così che la filosofia ha indagato il dramma esistenziale dell’uomo, con risvolti angoscianti ( l’essere e il nulla di Sarte; l’essere per la morte di Heidegger; il nichilismo di Nietzsche, l’assurdo della condizione umana analizzata da Camus…).
In poche parole, il tutto ha provocato una sorta di straniamento, una specie di deragliamento dell’io che ha avuto in poesia, come conseguenza, una specie di babele espressiva molto simile al mutismo.
Se il linguaggio è la casa dell’essere, la dispersione dell’essere ha comportato l’impossibilità di esprimerlo.
Neanche l’assestarsi degli stati democratici, ha creato le condizioni per la ripresa di valori di autenticità nel discorso poetico, per la nascita di una borghesia che ha imposto canoni suoi e ha privilegiato i poeti conformi.
Ciò ha dato modo ad una certa area geografica, più ricca e quindi capace di concepire quel contesto, di proporre un proprio punto di vista con l’emarginazione di altre aree geografiche in relazione all’espressione poetica.
Sembrerebbero affermazioni marxiste, in realtà Heidegger -e con lui Linguaglossa-, in queste posizioni è vicinissimo a Marx, sebbene non ne condivida affatto il destino finale rivoluzionario.
E, dunque, Linguaglossa ribadisce il discorso già presente in altro suo saggio, ossia che il secolo si è chiuso in una specie di afasia che ha avuto il suo culmine nel minimalismo diventato presto maniera: minimalismo che ritiene abbia a sua volta attuato un tentato omicidio della poesia, proponendo un’arte poetica senza carne né sangue, sterilizzata.
Nel saggio cui mi riferisco, Linguaglossa chiarisce bene il suo punto di vista: la poesia (e la critica che dovrebbe accompagnarla, illuminarla, sostenerla, in certa misura anche orientarne il cammino e la ricerca) deve avere il coraggio di riscoprire il sublime, il classico, l’altezza e la profondità del pensiero e della parola.
Su questo ruolo didattico della critica suppongo che non molti siano d’accordo e sembra più interessante il prosieguo dell’argomentazione e cioè che nel nuovo millennio la poesia stia riprendendo vigore, soprattutto col contributo di una schiera di poeti giovani, che si sono lasciati dietro le spalle l’ossessione della Parola e la sua assolutizzazione, come contenitore al minimo o anche al massimo dell’emozione. Con le nuove generazioni il lessico si presenta legato indissolubilmente all’esperienza intima di ciascuno e ogni termine evoca per le nuove leve esattamente quello che rappresenta, pur nella forma dell’allusione e della metafora.
A questa generazione manca l’accanimento espressivo, che finisce per farsi maniera.
Il nuovo atteggiamento ha garantito un’ondata di svecchiamento e di originalità significativa, con dei giovani valenti che seguono il proprio estro, senza alcuna pretesa di resuscitare moduli tematici e stilistici del passato, impegnandosi col dialogo con se stessi a recuperare la poesia come atto che viene fuori non dalla mente e dalla costruzione a posteriori, ma dal nucleo arcaico dell’emotività.
Suppongo che, dopo la pars destruens, questo sia il messaggio che, al di là della dichiarata sfiducia ad oltranza, si dovrebbe cogliere, sebbene trapeli nell’opera di Linguaglossa ancora qualche incertezza sui futuri sviluppi della società virtuale che dopo aver abbattuto i vincoli spazio-temporali, non sa con certezza dove si dirigerà.
Ci troviamo nel mezzo di una trasformazione epocale, simile all’avvento della stampa, che potrebbe condurci in un altrove non ancora misurabile.
Che sia una macchina pensante l’ultimo risolutivo assassino della poesia?