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Ipocondria ambientale
di Alberto Volpi
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Ipocondria ambientale

La domanda

L’innalzamento della temperatura globale del pianeta da impressione quasi soggettiva e allarme isolato è ormai un dato su cui l’intera comunità scientifica concorda. Così corollari dello scioglimento dei ghiacciai, dell’innalzamento delle acque e della desertificazione con relativi mutamenti di habitat e di abitudini animali e umane già abbondantemente in corso. Anche le cause sono individuate, si dibatte semmai sui metodi più efficaci per invertire la tendenza e sui tempi che la rendono ancora possibile. I grandi del mondo, con facce comprese e parole talvolta altisonanti, dicono di aver recepito il problema; la lentezza della risposta, dovuta a calcoli economici e geopolitici, resta tuttavia impressionante. L’opinione pubblica, che pure ormai può dirsi informata, non sembra dare altresì dal basso la spinta decisiva a fronte dell’enormità della questione: come il coyote dei cartoni animati continua a sgommare con i medesimi mezzi nel vuoto del canyon rifiutando, nella propria autoipnosi, di prendere davvero coscienza del contemporaneo precipitare.

Tale contraddizione tra le conoscenze drammatiche e la loro mancata penetrazione sottopelle per farne cosa decisiva e centrale dei propri pensieri, comportamenti individuali e prassi politica deve dunque avere profondi vincoli culturali che vanno indagati. Metterli in evidenza per poterli recidere liberandosi ad una risposta rapida sarà allora lo scopo di questa nostra ricognizione.

Fuga e ritorno degli dei

Padre Zeus, c’è qualche mortale sopra la terra infinita
Ch’apra ancora la mente e il pensiero agli eterni?

Così il sorpreso e indignato Poseidone chiedeva conto della costruzione  di un muro che gli Achei avevano edificato per difendere le proprie navi, senza dar seguito alla dovuta ecatombe. Il pensiero mitico aveva messo a capo dei principali elementi e fenomeni naturali un dio da ingraziarsi e da temere. Il cosiddetto rispetto dell’ambiente derivava quindi dalla sua sacralità; tra la spuma delle onde s’intravedeva appunto la barba candida di Poseidone. L’umanizzazione delle divinità, nel mito greco da cui l’occidente proviene, nonché il loro porre residenza sul monte Olimpo, cioè spesso lontane dai loro luoghi di manifestazione, pare tuttavia il primo passo per renderle innocue, inutili. La raffigurazione, l’intrattenersi tra sé e con gli uomini secondo vizi e virtù tipiche dei mortali, il raffinamento civile lungi dagli elementi naturali che rappresentano sono tre gradi di separazione che preludono alla dolorosa domanda dello smagato Poseidone. 

Oggi c’è chi, come Calasso o Hilmann, va ricercando la presenza degli dei nella letteratura moderna, nel quotidiano o nei comportamenti collettivi. E più chi cerca di risacralizzare la natura per porre freno alla sua utilizzazione meramente utilitaria, al suo saccheggio e distruzione:

Ho traccia di golfi, dita
di promontori, le unghie ora traversano
il mare sino all'orizzonte, ho ginocchia
magre, di grotte, per mille alluci di
onde

Non sembra tuttavia dei molti ascoltare la voce del sacro in un bosco evitando di insozzarlo o di farne legna, pascolo o area fabbricabile come ha già mostrato a suo tempo, con un misto d’epica ed elegia, Faulkner ne La grande foresta. Gli dei fuggiti non possono più tornare se non come simboli vuoti e del tutto depotenziati in una risacralizzazione meramente letteraria. Anche chi sarebbe disposto forse ad intravedere il nume celato nel fogliame o nei respiri dell’oceano credo sia portato a diffidare della precondizione che sta nelle opere di Conte o di Zecchi ovvero la risacralizzazione della letteratura. Si tratta di un doppio salto carpiato davvero troppo arduo per cuori e menti dei contemporanei.

Del resto Savinio, maggiormente dotato di ironia e di malinconia rispetto a molti ripescatori di oggi, nel momento stesso che rintracciava un’apparizione mitica nel presente – Chirone al Derby Reale! – ne denunciava subito la scomparsa per forza di compresa impossibilità:

Chirone guardò l’ammiraglio, guardò il Principe, guardò il Re: il sentimento della propria inutilità gli velò la faccia di mestizia.
“Chirone!” chiamai, mentre il centauro indietreggiava verso la staccionata.
“Chirone!” urlò la folla che intanto si era ricostituita e ammirava con stupore la favolosa creatura.
Avvolta in una nube di polvere, la groppa dell’anfibio pedagogo era sparita dietro i colli brillanti di margherite.

La seconda parte dell’episodio omerico pare più pertinente all’oggi. Zeus infatti, accogliendo le proteste di Poseidone, “tutta la notte meditò mali per loro, tuonando paurosamente” (VII, vv.478-9) e infine distruggendo, cinque canti più tardi (XII, 17-27), la fortificazione in precedenza edificata dagli Achei. Quanto ad essi “verde terrore li prese, il vino dalle tazze versarono in terra” (vv.479-80). Ciò che resta insomma, a fronte di una valanga di fango che travolge un paese, della moria d’anziani per il caldo eccezionale o della cancellazione dei quartieri poveri di New Orleans pare un terrore scervellato che affonda in profondità ancestrali. Del pensiero mitico la modernità può accogliere soltanto un residuo degradato di ritorno che enfatizza irrazionali fatalità, colpe indistinte. Nessuna purezza inoltre in questo sentire, perché si mescola all’immaginario catastrofista del cinema hollywoodiano e all’epidermico terrorismo mediatico, sempre pronto ad infliggere scosse elettriche allo spettatore, superficialmente risvegliandolo dal suo teso torpore, nel quale subito ripiomba per essere di nuovo sollecitato su diversa emergenza.

Il dio unico

Una più potente e duratura cultura della colpa e del terrore – quella cristiana – ha però sostituito in occidente quella mitica. Il racconto della Genesi enfatizza la separazione tra dio e mondo. Rispetto al pur conviviale plurimorfismo delle divinità greche il monoteismo cristiano sottolinea la distanza del creatore. Non solo il dio biblico è separato dalla natura ma creando separa: il cielo dalla terra, la luce dalle tenebre iniziali, le acque sopra e sotto il firmamento, le acque dalla terra. E quando, dal terzo la sesto giorno, si occupa degli esseri viventi, costantemente per piante e animali viene ripetuto l’ordinamento di separazione “secondo la loro specie”. 

Su questo regno ben discriminato, e non nel regno, viene posto l’uomo, non a caso creato ad immagine e somiglianza di dio. La nuova creatura viene benedetta dal decreto che ne ingiunge la proliferazione autorizzando la signoria e lo sfruttamento della natura: “Siate fecondi e moltiplicatevi/ riempite la Terra/ soggiogatela e dominate/ […] su ogni essere vivente” (Gen. I, 28).

L’uomo nasce già dunque in partenza separato dalla natura, ma più viene esiliato per sua colpa dall’armonia del paradiso terrestre e la terra diviene sua nemica spalancandogli la morte quale unica forma d’unione (“con il sudore del tuo volto mangerai il pane/ finché tornerai alla terra” 3. 19, 20). Lo stesso dio cristiano crea la natura, che quindi non lo precede né lo completa. Dio è già se stesso, un tutto conchiuso, superiore e quindi separato, che non partecipa alla molteplicità transeunte del mondo come invece era proprio agli dei antichi. Ecco che in passato il cristianesimo – sia esso quello dei conquistadores o quello dei puritani – ha considerato il nuovo continente come un nuovo paradiso terrestre di cui disporre con piena signoria. E i suoi abitanti, che ancora vivevano un rapporto simbiotico e sacrale con la natura, pagani da sterminare o, nel migliore dei casi, umanità bambina ancora da educare e guidare. Ed ecco che oggi l’interventismo esercitato dalla chiesa cattolica a tutto campo sulla morale e sul corpo degli uomini e delle donne non ha speso una parola sui loro rapporti vitali con l’ambiente.

Metafisica, scienza, panteismo

Gran parte del pensiero occidentale ha considerato la natura l’esteriorità da contrapporre binariamente allo scrigno coscienziale umano. Una manifestazione meccanica o casuale del libero gioco dello spirito, un pallido riflesso dell’intelletto. Essa rimane in buona parte il luogo dell’estraneo o del separato, al massimo il muro di rimbalzo per il ritorno ed il completamento del sé, “l’idea nella forma dell’essere altro” secondo Hegel. Per la scienza invece la natura diventa il luogo, sempre separato, dove si esercita la capacità di osservazione dell’uomo. Sia lo sguardo freddo, analitico e calcolatore, sia quello pieno di entusiasmo per le meraviglie che si squadernano ad ogni passo, l’indagine porta a smontare il giocattolo in tavole, catene, combinazioni. Il gran corpo scrutato e sezionato rivela alfine le sue leggi cosicché l’uomo  le possa padroneggiare. La tecnica si incaricherà in un secondo tempo dell’utilizzazione più pratica e conveniente.

Una tradizione ben radicata, ma evidentemente perdente sia sul piano filosofico che religioso, considera invece il mondo quale parte integrante e necessaria della divinità. Sono molte le metafore che hanno alluso a tale rapporto: il prolungamento, la compenetrazione, l’essudazione. Piacciono in particolare le idee di Hobbes e Plotino che il mondo sia il corpo di dio, che il molteplice naturale sia profumo del corpo odoroso. Di qui la via minoritaria del misticismo o quella di Bruno, stroncata come è noto, per cui dio s’intride nelle cose naturali costituendone l’essere stesso. Procediamo qui lungo la ricucitura della separazione tra dio, uomo e natura teorizzata dal romanticismo: Schelling che considera la natura parte integrante della vita divina, inscindibile dallo spirito per continuità sostanziale, Leopardi che, pur ipostatizzando la figura gigantesca della Natura, vi sprofonda tuttavia ne L’infinito, Holderlin nel momento in cui scrive “nulla di più beato so e desidero, fin quando/ me pure, come il salice, il flutto non porti via,/ perché ben custodito, dormendo dovrò/ andare nelle onde” (Cantata ai piedi delle Alpi, vv. 21-25). La sintassi stessa della poesia, così sintetica e ricca di corrispondenze attraverso la metafora, la sineddoche, la sinestesia, sembra lo strumento più duttile per la sutura; più ancora nelle mani di autori animati da spirito religioso. Così, per esempio continuando nel Novecento, Rebora (Frammenti lirici, LXIII) e Ungaretti (Annientamento da L’allegria):

O combattenti dell’usato giorno
Che materiate l’arte e il pensiero
Inconsapevoli e schietti
Nel sangue del vostro destino:
Poeti voi soli,
Sapienti voi soli,
L’ininterrotta multiformità è a voi:
L’immensa concretezza s’innatura
Con la fatica vostra,
O ignoti eroi!
mi sono smaltato
di margherite
mi sono radicato
nella terra marcita
sono cresciuto
come un crespo
sullo stelo torto
mi sono colto
nel tuffo
di spinalba

Oggi
come l’Isonzo
di asfalto azzurro
mi fisso
nella cenere del greto
scoperto dal sole
e mi trasmuto
in volo di nubi

Gli inganni della fantascienza

I pochi campioni riportati battono la strada fondamentale della ricomposizione ma sotto il segno – spesso annichilente e mortuario – dell’uomo che si perde nella natura. Questa potenza della natura, ancora tradizionalmente più grande dell’uomo, viveva i suoi ultimi sussulti in una parte del Novecento non del tutto tecnologizzato e ormai alle nostre spalle; ora l’immagine che ci si propone per il mondo naturale è di inedita fragilità da difendere e conservare. Inutile dunque, per certi versi, guardare ad autori del passato, perché la prospettiva dello sconvolgimento ambientale per mano umana con le estreme implicazioni odierne è assolutamente nuova. Si può ricorrere allora agli scrittori dotati di particolare sensibilità nell’intercettare i corpuscoli aerei del presente per comporli in una visione anticipatrice del futuro. Compito che in primo luogo si assegna alla fantascienza. Per il nostro scopo si escluderà però tutta quella produzione che, combinando la separazione dello scientismo tecnologico con quella della religione puritana, consegna la wilderness spaziale a prossimi pionieri dell’ultima frontiera con relativi massacri di nativi alieni.

Fra breve il caldo sarebbe diventato insopportabile. Affacciato al balcone dell’albergo, poco dopo le otto, Kerans guardò il sole levarsi fra i fitti cespugli di gimnosperme giganti che crescevano sui tetti dei grandi magazzini abbandonati, quattrocento metri più in là, sulla sponda orientale della laguna.

Tale l’attacco di Deserto d’acqua di James Ballard, che delinea appunto una città sommersa dall’acqua e soffocata dall’aggressiva natura tropicale nata a causa degli sconvolgimenti climatici. Leggendo via via l’affascinante romanzo, più che la vicenda dei personaggi e il valore allarmante del contenuto, ci si accorge proprio del prevalere sul piano letterario della descrizione ambientale. Ciò dovrebbe essere funzionale alla nostra idea di shock risvegliante, eppure questa parola “laguna” ci proietta con sorpresa all’indietro, verso la Venezia imputridita e malsana di Thomas Mann, in uno dei primi esempi di romanzi latamente ecologici. Allo stesso modo di Aschenbach anche Kerans alla fine si rifiuterà di abbandonare la città impaludandosi sempre più, attraverso una regressione vegetale, fino ad una totale assimilazione nella giungla. E’ soprattutto l’estetismo decadente – rovine e verde, rettili e marmo senza soluzione di continuità – a sottolineare il singolare connubio. Nella più debole riuscita che è La foresta di cristallo il movente della mutazione ambientale è con maggiore evidenza piegato ad un catastrofismo estetizzante e quasi barocco:

Nella luce del sole brillava una enorme orchidea cristallizzata, ricavata da un minerale simile al quarzo. La struttura del fiore era stata riprodotta nei minimi particolari e poi come introdotta in un cristallo, come se un fiore vivo fosse stato infilato con un gioco di prestigio nell’interno di un enorme ciondolo di vetro. Le facce interne del quarzo erano state tagliate con notevole perizia, così che l’orchidea veniva riflessa in una dozzina di immagini, l’una sovrapposta all’altra, come in un labirinto prismatico. Dal gioiello scaturiva una luce permanente, come acqua che sgorgasse da una fonte.

Ipocondria ambientale

Scartata la risacralizzazione mitica, quella religiosa-creazionista o anche panteista, il catastrofismo cinematografico, mediale e quello estetizzante, resta da chiarire, in prospettiva di una letteratura del risveglio, l’approccio ipocondriaco che fa della natura una parte dell’uomo. Si nega cioè la separazione, ma invertendo la direzione e puntando al contrario rispetto al secolare e univoco legame uomo-natura. Qualcosa di questo genere si trova nei romanzi di Don DeLillo, in particolare Rumore bianco, che è una reiterata, profonda, sfaccettata e istrionica riflessione sulla paura della morte nel mondo contemporaneo. La paura è un’indispensabile base di partenza se la si intende non solo come emozione negativa da evitarsi, secondo la definizione dei filosofi, ma anche come “una specializzata modalità del nostro organismo di rielaborare le informazioni e di affrontare la realtà.” Ogni volta che ci si trova in una situazione di pericolo, reale o presunto, per l’integrità fisica e psicologica della persona, la paura rappresenta il segnale che permette all’uomo di allertarsi e di preservare la propria incolumità. Essa manda un segnale primario rispetto a qualsiasi altra contemporanea funzione corporale come è facile osservare anche in situazioni quotidiane o di laboratorio. L’evoluzione è venuta costituendo attraverso questa antichissima emozione il sistema nervoso e, parallelamente, quest’esperienza è stata fonte, a sua volta, di evoluzione.

Sono molte le paure che attanagliano i personaggi di Rumore bianco, ricordiamo però che il protagonista Jack Gladney si espone per pochi minuti, durante un’evacuazione in automobile con la famiglia, ad una nube tossica. La natura stravolta dall’intervento umano viene trascelta quindi quale pericolo principale che catalizza la diffusa ipocondria del romanzo.

-Dio, Tuck, come stavamo bene insieme!
-In che senso, bene?
-O scemo, dovresti guardarmi con aria piena di affetto e nostalgia, sorridendo mestamente.
-Portavi i guanti a letto.
-Lo faccio ancora.
-Guanti, mascherina per gli occhi e calze.
-Li conosci i miei difetti. Li hai sempre conosciuti. Sono ultrasensibile a molte cose.
-Sole, aria, cibo, acqua, sesso.
-Cancerogeni, tutti.
[…]

-Senti un vago presentimento? – chiesi.
-Sento che stanno agendo sulla parte superstiziosa della mia natura. Ogni passo in avanti è peggiore del precedente perché mi fa ancora più paura.
-Paura di che cosa?
-Del cielo, della terra, non so.

Il corpo dell’uomo assorbe dalla natura i veleni che egli stesso le ha trasmesso; tale la presente comunione. La natura resta così oggi, sotto altre forme che in passato, una minaccia per la sicurezza umana, ma è altrettanto chiaro che la minaccia odierna viene creata dall’uomo e soltanto passa attraverso la natura. Si tratta di un primo passo di consapevolezza. La paura per la nostra incolumità fisica diviene cioè tutt’uno con l’incolumità della natura. L’ultima proposta, suggerita dal romanzo di DeLillo, sarà allora di invertire il vettore contenendo la natura nell’uomo e non viceversa. Ciò attraverso la mediazione della carne viva e non di vaghi e remoti riflessi di un teleschermo. Un taglio di bosco sui fianchi del monte s’inciderà quindi sulla pelle come una profonda ferita, l’inquinamento delle acque sarà avvertito al pari di un giro di tossine nel sangue, un certo colore di cielo fa mancare il respiro, le immondizie si accumulano direttamente tra le dita, otturano i pori, ci si stratificano addosso… Ogni volta che viene sfregiato il corpo della natura scatta la stessa paura scioccante con cui improvvisamente Jack Gladney, ogni uomo, un giorno si scontra scoprendo la propria nuda mortalità evidenziata dalla malattia, e corre allora a prendersi cura di sé. “Più grande è il progresso scientifico più primitiva la paura”: risveglio nel cuore della notte, violenta presa di coscienza, mani che frugano il comodino alla ricerca dei medicinali, la ragione e la cura che insorgono poi nel giorno seguente.

NOTE:
La bibliografia è naturalmente sterminata; qualche segnalazione sulla base delle letture personali: G. Monbiot, Calore! Il riscaldamento del globo: una catastrofe annunciata, le cure possibili, Longanesi, 2007, M.Sbordani, Cambiamenti climatici, Sei, 2006. Per una ricostruzione storica A. Bevilacqua, La terra è finita, Laterza, 2006; teoria e consigli pratici in G. Moriani, Manuale di ecocompatibilità, Marsilio 2001, M. Correggia, La rivoluzione dei dettagli, Feltrinelli 2007.

*Omero, Iliade, Einaudi, 1990, VII, vv.446-7
*Il testo intitolato Nanauatzin, dio che divenne sole nella mitologia azteca, è in G. Conte, L’Oceano e il ragazzo, Rizzoli, 1983, vv.18-22, dello stesso autore, quanto alla irrazionale rivincita degli dei nell’oggi, l’invocazione ad Artemide – “dea in esilio” – di cui si dice “sia cruento il tuo sogno di/ ritornare, sia cruento,/ indomabile” (Tre odi egee, vv.17-21). Di G. Calasso, secondo cui “il mondo non ha alcuna intenzione di disincantarsi fino in fondo” ci si riferisce soprattutto a La letteratura e gli dei, Adelphi, 2001, p.29, dove si scandagliano appunto pagine moderne ospitanti divinità; J.Hillman invece, nell’interpretazione dei conflitti contemporanei, si chiede: “in quale altra esperienza umana, se non negli spazi dell’ardore (quella strana unione di amore e di guerra) ci ritroviamo trasportati in una condizione mitica, con gli dei ben vivi e reali?” (Un terribile amore per la guerra, Adelphi, 2005, p.22). Infine, per la centralità sacrale della bellezza nel gruppo dei Mitomodernisti unitisi nel gennaio 1995 a Milano, un accenno da S. Zecchi, L’artista armato, A. Mondadori, 1998, p.12: “Afrodite […] si espande, potente e meravigliosa, e si ritrae, silenziosa e oscura: come un respiro”.
*W. Faulkner, La grande foresta, Adelphi, 2002, profetizza nell’ultima pagina dell’ultimo racconto: “Questa terra, disse il vecchio cacciatore. Non mi stupisce che la foresta devastata che io conosco non gridi vendetta. Perché sarà proprio la gente che l’ha distrutta che porterà a compimento la sua vendetta.”
*A. Savinio, Casa “la Vita” e altri racconti, Adelphi, 1999, pp. 67-68.
*J. G. Ballard, Deserto d’acqua, A. Mondadori, 1986.
*J. G. Ballard, Foresta di cristallo, Feltrinelli, 2005, p. 32.
*M. R. Ciceri, La paura, Il Mulino, 2001, p. 10.
*D. DeLillo, Rumore bianco, Einaudi, 1999, pp. 110; 195.

 

 

A cura di Alberto Volpi



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