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Il mito del Nord-Est tra storia e letteratura
di Lara Scifoni
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Il mito del Nord-Est tra storia e letteratura

Il Friuli è ricco di dimore patrizie che hanno attraversato secoli, guerre, terremoti e, benché sovente destinate a usi diversi rispetto a quelli per i quali furono erette, danneggiate e razziate, hanno resistito. Tali residenze, soprattutto in tempi recenti, sono state oggetto di minuziosi restauri, e oltre ad essere interessanti sotto il profilo artistico, custodiscono come scrigni preziosi storie di gente comune, che spesso s'intrecciano alla Grande Storia di potenti, nobili e letterati di fama. E' possibile seguire un itinerario immaginario che si snoda attraverso la campagna friulana, cosicché la descrizione delle ville può diventare pretesto per raccontare episodi di storia locale, non di rado legata, come si diceva, a quella internazionale. D'altro canto è noto che nel Nord-Est italiano possedere una casa è di vitale importanza a tutti i livelli sociali perché significa avere solide radici ed essere in grado di tramandare qualcosa di tangibile ai discendenti. Nel caso specifico è interessante soffermarsi sulle dimore gentilizie di campagna dell'illustre famiglia Florio: a Udine il loro nome è legato al sontuoso e centralissimo Palazzo Florio, la residenza urbana della famiglia, fatta erigere nel 1705 da Sebastiano Florio; all'epoca della pace di Campoformido il palazzo divenne quartier generale di Napoleone Bonaparte e nel 1917 quello del generale Montuori, comandante dell'Armata che aveva assunto la difesa della città dopo la rotta di Caporetto. La contessa Giuliana Canciani Florio cedette il palazzo all'Università di Udine nel 1980 e attualmente, restaurato all'uopo, è prestigiosa sede del Rettorato. Notevole interesse rivestono anche le residenze fuori città della famiglia, come Villa Caimo-Dragoni-Florio-Danieli a Buttrio, località a una decina di chilometri da Udine. L'edificio fu costruito a partire dal 1636 su progetto del capomastro sacilese Antonio Navarra ed è costituito da un'ampia casa padronale e da un cortile rustico. Il corpo centrale della villa è di ispirazione palladiana, mentre le ali laterali del palazzo sono caratterizzate da un doppio loggiato su pilastri che termina con due torri, un tempo probabilmente abitate. L'ampliamento della costruzione dev'essere avvenuta intorno alla metà del Settecento, periodo in cui vi fu una riscoperta dell'opera di Andrea Palladio. All'interno, il pianoterra oggi ospita la cantina e alcuni servizi, mentre il piano nobile conserva una serie di pregevoli affreschi risalenti alla fine del Settecento, eseguiti dal cividalese Francesco Chiarottini e dal veneziano Giambattista Canal, entrambi artisti all'epoca molto rinomati. Gli affreschi furono seriamente danneggiati nel corso della Prima Guerra Mondiale e addirittura coperti durante la Seconda, quando la villa venne requisita prima dai Tedeschi e poi dalle truppe angloamericane. Di recente sono stati accuratamente restaurati ed ora sono visibili al pubblico grazie agli attuali proprietari. I Florio, nobili di origine dalmata, avevano ereditato la villa, all'inizio di proprietà della famiglia Bartolini (che nel Settecento vi produceva un vino pregiato, il Picolit), dai Caimo-Dragoni, con i quali erano imparentati. D'altro canto, i Florio si erano concentrati proprio sulla campagna di Buttrio per l'ottima produzione vitivinicola, e qui possedevano anche la villa di Toppo-Florio, costruita dalla famiglia di Toppo nella prima metà del XVIII secolo e inserita in un vasto parco che ancora oggi digrada scenograficamente dalle pendici del monte di Buttrio. La famiglia Florio conservò questa residenza fino al 1947, quando, danneggiata dalle truppe tedesche, fu acquistata dallo Stato per accogliere i fanciulli mutilati dalla guerra. In seguito essa entrò a far parte del patrimonio della Regione Friuli-Venezia Giulia e oggi è di proprietà del Comune di Buttrio, che la utilizza per importanti eventi e manifestazioni, tra i quali spicca la Fiera regionale dei Vini. Del complesso fa parte anche il parco botanico, che conta circa una sessantina di specie tra alberi e piante di provenienza autoctona ed esotica. Il parco è arricchito dalla presenza di circa trecento reperti archeologici catalogati provenienti dagli scavi effettuati dai di Toppo nei possedimenti di Aquileia, in particolare dal conte Francesco. Nell'elegante salone delle feste della villa Caimo-Dragoni-Florio, decorato dal Chiarottini con episodi di storia romana, ebbe luogo il fastoso banchetto per il matrimonio tra Italo Balbo e la contessina Emanuella Florio nel settembre del 1924. Italo Balbo era nato nel 1896 in un sobborgo di Ferrara, da padre piemontese e madre romagnola. Durante la prima guerra mondiale prestò servizio come volontario nel corpo degli Alpini e nel 1918, al comando del reparto d'assalto del Battaglione Pieve di Cadore, partecipò all'offensiva sul Monte Grappa, liberando la città di Feltre. Per alti meriti militari si guadagnò una medaglia di bronzo e due d'argento, raggiungendo il grado di capitano. Congedato, nel 1920 incontrò a Udine la contessina Emanuella Florio (1902-1984) e se ne innamorò; nel 1924 i due giovani, malgrado la differenza di carattere - esuberante e spavaldo lui, timida e riservata lei - e la diversa estrazione sociale, si sposarono. La coppia ebbe tre figli, due femmine e un maschio. Balbo, dopo la guerra, riprese gli studi a Firenze e si laureò in scienze sociali, aderì al fascismo e ben presto divenne segretario della federazione fascista ferrarese. Nell'ottobre del 1922 fu uno dei quadrumviri della Marcia su Roma, assieme a Emilio De Bono, Cesare Maria De Vecchi e Michele Bianchi. Quella di Balbo fu una carriera rapidissima: nel 1924 divenne comandante generale della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e nel 1925 sottosegretario all'economia. L'anno successivo fu nominato segretario di Stato all'Aviazione e si apprestò ad organizzare la neocostituita Regia Aeronautica. Nel 1929, a soli trentatré anni, venne nominato Ministro dell'Aviazione (all'epoca era il più giovane ministro europeo). Egli guidò due voli transatlantici: il primo, con 12 idrovolanti partiti da Orbetello alla volta di Rio de Janeiro in Brasile, si svolse dal 17 dicembre 1930 al 15 gennaio 1931, mentre il secondo volo venne organizzato per celebrare il decennale della Regia Aeronautica nel 1933. Balbo guidò la traversata di 25 idrovolanti da Orbetello con destinazione finale gli Stati Uniti. Il governatore dell' Illinois, il sindaco e la città di Chicago riservarono ai trasvolatori un'accoglienza trionfale, e a Balbo venne addirittura intitolata una strada in prossimità del lago Michigan, la Balbo Avenue. A quell'epoca i rapporti fra Italia e USA erano ottimi e un'impresa di questo tipo era considerata straordinaria. Il volo di ritorno proseguì per New York, dove venne organizzata una grande parata in onore degli equipaggi e si intitolò a Balbo uno dei suoi viali. Il presidente Roosevelt lo volle come ospite alla Casa Bianca: la trasvolata del Decennale fu uno degli eventi mediatici di maggiore risonanza degli anni Trenta. Di ritorno in Italia, l'ardito aviatore fu accolto a Roma con tutti gli onori da Mussolini e ottenne la nomina di Maresciallo dell'Aria, un titolo creato ad hoc per lui. Balbo, l'eroe carismatico del regime fascista, profuse grande energia nell'imporre rigore alla Regia Aeronautica, accantonando gli aspetti romantici ed individualistici dell'aviazione pionieristica per organizzare una Forza Armata coesa e disciplinata, di cui le trasvolate costituivano un mirabile esempio. Tuttavia, i trionfi e la spiccata personalità di Balbo mettevano in ombra Mussolini, che decise di allontanarlo togliendo al Maresciallo dell'Aria l'incarico di ministro dell'Aeronautica, estromettendolo dal governo e "promuovendolo" governatore della Libia. Balbo comprese immediatamente che la nomina a governatore della colonia di fatto era un esilio. Tuttavia, in Libia avviò progetti di opere pubbliche e costruzione della rete stradale, in particolare la litoranea che segue il Mediterraneo per centinaia di chilometri e che in suo onore venne chiamata "via Balbia". Cercò inoltre di attirare coloni italiani e seguì una politica di integrazione e pacificazione con le popolazioni musulmane ed ebraiche presenti in quei territori. Dopo l'invasione tedesca della Polonia nel settembre del 1939, Balbo, in visita a Roma, espresse ripetutamente malcontento e preoccupazione per l'alleanza militare con la Germania e per la politica seguita da Mussolini sia sul piano interno che su quello internazionale. Del resto il suo dissenso nei confronti del Duce si era acuito a partire dal 1938, quando, in più occasioni, manifestò a Mussolini la sua contrarietà alla promulgazione delle leggi razziali, mai applicate in Libia mentre era governatore. Il 28 giugno 1940, a soli diciotto giorni dall'entrata in guerra dell'Italia, Balbo morì insieme ad altre otto persone, durante un volo di ricognizione sopra i cieli di Tobruk, abbattuto dalla contraerea italiana. Facevano parte dell'equipaggio del trimotore S.79, fra gli altri, Nello Quilici, giornalista, storico e padre di Folco, e Francesco (Cino) Florio, ufficiale dell'Aeronautica, cognato di Balbo e marito di Giuliana Canciani Florio, donna volitiva e divenuta famosa con l'appellativo di "imperatrice del mais" , coniato per lei dallo scrittore e giornalista Sergio Maldini. Ufficialmente "l'incidente" di Tobruk venne archiviato come uno sfortunato caso di fuoco amico, ma la vedova di Balbo, Emanuella Florio, rimase sempre dell'opinione che si fosse trattato di un complotto architettato da Mussolini per eliminare un potenziale avversario politico, inviso anche ai tedeschi. Recentemente è stato appurato che Balbo con il suo equipaggio fu abbattuto dalla contraerea italiana per un fatale errore di valutazione. Folco Quilici, nel suo volume Tobruk 1940, sostiene che l'aereo sia stato abbattuto da una raffica sparata dalla torretta del sommergibile posamine italiano Bragadin, proveniente da Napoli; nella confusione seguita all'abbattimento, il sommergibile ripartì dal porto libico la sera stessa per Taranto, ragione per la quale le relazioni ufficiali non ne parlano . Secondo la tesi di Quilici, dunque, si sarebbe trattato di un tragico errore. Le salme di Balbo e degli altri otto membri dell'equipaggio furono tumulate nel cimitero degli Aviatori Atlantici a Orbetello, e il 5 luglio al Tempio Ossario di Udine venne officiata una funzione solenne dall'arcivescovo in memoria di Italo Balbo e Cino Florio in presenza delle più alte gerarchie della provincia. La vedova di Cino, la contessa Giuliana Canciani Florio, all'epoca aveva solo ventotto anni e una bambina di due, Francesca, ma non si perse d'animo, come narra Liliana Cargnelutti:
Giuliana, dopo il primo momento di stordimento, vuole immediatamente reagire, con coraggio e dignità, per se stessa e per gli altri, cercando dentro di sé un nuovo slancio.[ ...] E trova la risposta in un atto di volontà: riprendere gli studi interrotti al ginnasio, iscriversi all'università, laurearsi in Agraria per acquisire abilità basilari e necessarie a una possidenza che voglia essere attiva.
La contessa, infatti, tre mesi dopo la morte del marito Francesco, incurante dei cliché che la volevano giovane vedova e madre possidente, si presentò come privatista alla seconda sessione degli esami di maturità al liceo classico "Jacopo Stellini" di Udine, che aveva frequentato fino alla quinta ginnasio; promossa, nello stesso anno s'iscrisse alla Facoltà di agraria dell'Università di Bologna e si stabilì in un albergo del capoluogo emiliano con la figlioletta, la madre Giulia Clerici e la governante. Studiò fino al conseguimento della laurea nel 1945 e poi si dedicò al controllo delle aziende agricole che aveva in Friuli, essendo l'erede di due ingenti patrimoni: uno lasciatole dal padre Giacomo a Varmo e a Santa Marizza, e l'altro dal marito a Buttrio e Persereano. Villa Canciani-Florio a Varmo, dove Giuliana nacque nel 1912 e visse prima di sposare Francesco Florio, è una dimora essenziale nelle linee architettoniche e con una serie di edifici di servizio annessi, insomma una tipica casa padronale friulana a tre piani, allungata, immersa nel parco. Sulla semplice facciata, liscia e intonacata, si può ancora notare lo stemma in pietra dei Conti di Varmo di Sotto, i primi residenti della dimora, che la fecero edificare dopo che i castelli in cui abitavano furono distrutti da una straordinaria piena del Tagliamento nel 1596. Fu proprio a villa Canciani-Florio che si celebrò il fastoso banchetto di nozze tra Giuliana Canciani e Francesco Florio nel 1936; il testimone dello sposo era Italo Balbo, molto affezionato al cognato. Come altre residenze di campagna friulane, anche questo edificio fu requisito durante le guerre, dalle truppe britanniche nella Prima Guerra Mondiale e dalle truppe tedesche durante la Seconda. Il generale Eisenhower, nel 1951, prima di diventare presidente degli Stati Uniti, e il principe Carlo d'Inghilterra nel 1984, furono ospitati in un'altra elegante dimora costruita dai Florio agli inizi del Settecento e situata a Persereano, nel comune di Pavia di Udine e tuttora di proprietà della famiglia. E' una villa ricca di memorie storiche e di una preziosissima biblioteca iniziata con Daniele Florio nel Settecento e che nel corso dei secoli si è accresciuta, tanto che oggi consta di circa dodicimila volumi fra cinquecentine, secentine, codici, incunaboli, tutti di grande pregio: include perfino una lettera autografa di Pietro Metastasio a Daniele Florio. Tra gli illustri ospiti che vi soggiornarono figura anche Carlo Goldoni, giunto a Udine nel 1735 al seguito della compagnia teatrale diretta da Giuseppe Imer. In origine la biblioteca si trovava a Palazzo Florio, ma quando la contessa lo vendette all'Università di Udine, decise di sistemare i preziosi volumi a Persereano. Tuttavia non era facile trovare la giusta collocazione all'interno della villa. L'architetto Maria Antonietta Cester Toso ebbe l'idea di ristrutturare l'antico foladôr, cioè uno stanzone per la pigiatura dell'uva e la conservazione dei tini, e adibirlo a biblioteca, e così fu fatto. La contessa incaricò l'architetto di stendere il progetto e ne seguì la realizzazione. Giuliana Canciani Florio era una donna pratica, dinamica, dalla formidabile capacità comunicativa; avvezza al jet set internazionale, era affabile e disponibile con tutti, affezionata ai domestici, ai fattori, agli artigiani. I possedimenti di Santa Marizza erano suoi, ereditati dal padre Giacomo, il quale era morto a soli quarantanove anni nel 1930, lasciandole il sior Quinto, cioè Quinto Saccomano, come tutore e curatore dei beni dell'azienda fino al compimento della maggiore età. In seguito al Saccomano subentrò Oreste Castellani, padre di Valentino Castellani, il quale è nato a Varmo nel 1940 ed è stato eletto sindaco di Torino dal 1993 al 2001. Giacomo Canciani era stato uomo di spicco nella piccola comunità: esperto di zootecnia, si era laureato a Milano alla Scuola Superiore di Agricoltura a pieni voti e in paese si diceva che non andasse mai in villeggiatura per costruire i suoi casali; fu anche sindaco di Varmo dal 1922 al 1926. Negli anni Trenta, ancora ragazza, Giuliana iniziò a viaggiare, come desiderava sin da bambina: soggiornò in Francia e Svizzera, poi a Londra, dove conobbe il Cancelliere del Ministero delle finanze e futuro primo ministro Neville Chamberlain, che pare la corteggiasse, e in Scozia. In seguito prese a viaggiare con il marito: a Roma, in Libia, dove si recava a far visita all'amato cognato, a Cortina d'Ampezzo, dov'era solita svernare; nella maturità visitò con amici Brasile, Venezuela, Sud Africa, Australia, isole Figi, sempre affascinata dalle diverse realtà che incontrava. Fu lei a vendere a Sergio Maldini quella che sarebbe diventata famosa come "la casa a Nord-Est" nel tranquillo borgo di Santa Marizza, confinante con il "Palassat", una villa veneta acquistata e restaurata da Elio Bertolini, noto romanziere, poeta e sceneggiatore, il quale aveva scoperto la villa nei suoi giri in bicicletta alla fine degli anni Sessanta e l'aveva trovata diroccata, un po' malinconica ma piena di fascino. Sia il giornalista e scrittore fiorentino Maldini che Elio Bartolini (nato a Conegliano, ma trasferitosi a Codroipo in giovane età) stanchi della vita caotica e soffocante di Roma, erano rimasti folgorati dalla quiete e dalla bellezza di questi luoghi di campi a acque sorgive, all'ombra della sontuosa villa dogale di Passariano, Villa Manin, a cui si poteva arrivare agevolmente in bicicletta per vie interpoderali. Era stato proprio Bartolini, in gioventù compagno di liceo di Maldini, a suggerire a quest'ultimo il rustico adiacente al suo, sapendo che l'amico e sua moglie desideravano acquistare una casa nella campagna friulana. Ai coniugi Maldini il luogo era piaciuto subito, per Sergio si era trattato di "un colpo di fulmine", ma aveva dovuto trattare a lungo con la contessa, poiché la Cansiane, com'era chiamata in paese, a malincuore cedeva ciò che il padre Giacomo aveva accumulato con il suo indefesso lavoro, e come narra in modo circostanziato Federica Ravizza nel suo libro, intitolato pasoliniamente Il sogno di una casa, dopo anni di cene a Persereano e a Roma, nella casa ai Parioli dello scrittore - perché Giuliana Canciani Florio soppesava accuratamente i potenziali acquirenti e ne valutava il buon gusto - la contessa accettò. L'atto di compravendita della "casa a Nord-est" venne rogitato nei primi giorni di gennaio del 1981. Tra l'altro, la nobildonna aveva frequentato l'università a Bologna, proprio come Sergio Maldini, il quale, nato per caso a Firenze, si era laureato in giurisprudenza nel capoluogo emiliano ed aveva cominciato a lavorare in qualità di giornalista inizialmente come cronista sportivo per "Stadio" e poi al "Resto del Carlino" fino a divenire caporedattore, prima di passare alla sede di Roma. Lo scrittore e la nobildonna quindi avevano in comune gli anni di formazione a Bologna, come ebbero modo di appurare nel corso delle loro conversazioni. Maldini conobbe e frequentò anche Pier Paolo Pasolini nei suoi anni giovanili in Friuli; i due, peraltro, erano quasi coetanei, essendo nati il primo nel 1923 e il secondo nel 1922; entrambi avevano il padre romagnolo e Pasolini, molto legato al Friuli rurale, negli anni dell'università frequentò assiduamente Bologna, dove era nato e dove nel 1945 si laureò in Lettere. E' lo stesso Maldini a rievocare la figura del giovane Pasolini, destinato a diventare uno dei suoi più importanti mèntori:
‹‹Comparve, anche in una di quelle estati piene di speranza, Pier Paolo Pasolini. Veniva da Casarsa in bicicletta. Fu un piccolo trauma per la nostra cultura. Pier Paolo mi suggerì letture fondamentali, la sua pazienza e la sua intelligenza erano infinite.››
Fu dunque un'amicizia immediata e basata sulla reciproca stima:
[... ] Pier Paolo possedeva un istinto rabdomantico per cosa valesse la pena di leggere. Mi fece scoprire il Wilhelm Meister di Goethe, e Choderlos de Laclos, appunto. Diceva che L'educazione sentimentale era meglio di Madame Bovary, e che il più valido Radiguet non era quello del Diavolo in corpo ma del Conte d'Orgel. Vivevamo in una provincia appartata, povera di strumenti culturali, ma lui sapeva; aveva qualcosa del rabbi, del maestro, nulla gli sfuggiva. Conosceva già de Saussure, e allorché ci fu l'avvento dello strutturalismo negli anni Sessanta, era perfettamente preparato a riceverlo›› .
Simoncelli osserva che Pasolini determinò un salto di qualità letteraria in Maldini, tanto che sovente era quest'ultimo a recarsi a Casarsa, sempre in bicicletta, per fermarsi a dormire sui pagliericci di foglie e discutere per ore di letteratura e di film. Pasolini, a differenza dell'amico, non amava Udine, non la amò mai, la trovava una città deprimente e preferiva di gran lunga la campagna friulana. Entrambi invece erano affascinati dal Tagliamento, di cui Maldini traccia un'intensa descrizione ne La casa a Nord-Est:

‹‹Un fiume pietroso, su cui stagnava un'aria celeste e leggera, con rivoli indipendenti e pozzanghere verde smeraldo [... ]. Il Tagliamento separava il Friuli antico, geloso della sua patriarcalità, dal Friuli più impaziente ed estroverso che si collegava a Venezia e all'Italia e aveva in Pordenone la sua piccola capitale.››

In seguito i due intellettuali presero strade diverse: lo scandalo di Ramuscello portò Pasolini a fuggire nel 1950 a Roma con la madre presso uno zio materno e a tornare solo sporadicamente in Friuli. Maldini nello stesso anno si stabilì a Bologna per svolgere la professione di giornalista. Rimane un'accorata lettera che Pasolini scrisse a Maldini il 20 febbraio 1950 dalla capitale:
‹‹Tu sei un po' contrito per non avermi scritto mai durante lo scandalo: io lo sono per non averti mai parlato prima della mia omosessualità, cosa, che essendo noi due amici, avrei anche potuto fare: ma mettiti una mano sul cuore e chiediti se il tuo contegno era il più adatto a una simile confidenza. Ora a Bologna, coi miei amici, cerca di essere, per me, un avvocato discreto, cosa di cui del resto ti credo capace››.
Nei primi anni Ottanta Maldini tornò spesso in Friuli per assicurarsi che i lavori di ristrutturazione della casa procedessero come desiderava e si avvalse della preziosa collaborazione dell'architetto, nonché ex compagna di liceo, Maria Antonietta Cester Toso; fu così che la dimora, piuttosto malandata all'atto dell'acquisto, a poco a poco prese la forma attuale e da sogno divenne realtà. Per lo scrittore-giornalista la casa era un rifugio dell'anima in cui trascorrere gli ultimi anni circondato dagli amici più cari, lontano dai giochi di potere capitolini. Della ristrutturazione del rustico Maldini parla diffusamente ne La casa a Nord-Est, il romanzo che gli è valso il premio Campiello nel 1992. Ma cosa rappresenta per Maldini il Nord-Est?
‹‹Il Nord-est [... ] non è soltanto una condizione geografica. E' una cultura a sé stante. Neve, nordismo, contiguità con il mondo slavo, e, sì, anche la grande tradizione mitteleuropea, di cui non se ne può più...si sono impadroniti della Mitteleuropa tutti i letteratini di Roma e di Milano...››
Maldini dunque difendeva il mito del Nord-est, che per lui rappresentava l'ordine, la laboriosità silenziosa, la moralità ed era indispettito dal fatto che altri potessero appropriarsene indebitamente. Una sera d'autunno del 1983, come racconta ancora Federica Ravizza che ha reso pubblico l'affettuoso carteggio tra lo scrittore-giornalista e l'amica architetto Cester Toso, (carteggio a cui Maldini ha attinto a piene mani, riportandone interi passi nel romanzo), suona l'orchestra, apre le danze con la consueta naturale eleganza la contessa Giuliana Canciani Florio nel canevon; è la sera dell'inaugurazione, il licôf in friulano, al termine del restauro del rustico di Santa Marizza. A festeggiare, intorno ai novelli padroni di casa, gli amici più cari, ma anche ristoratori, artigiani e maestranze, ospiti in un composito affresco che accoglie tutte le classi sociali attorno a Sergio e Franca Maldini.
La contessa perse la vita in un incidente stradale a pochi chilometri da casa sua nel 1985, mentre la figlia Francesca sposò il noto ricercatore nel campo della cardiologia Attilio Maseri.
Per tornare alle vicende della villa Caimo-Dragoni- Danieli, da dove il racconto è iniziato, essa, come già accennato, nel 1946 fu occupata dagli Alleati, i quali non usarono troppi riguardi nei confronti di un edificio storico così prezioso: i soldati trascorrevano il tempo a giocare a freccette sulle porte! Nel pianoterra, tra le altre stanze, vi è una sala affrescata dal Chiarottini, con un'evidente impostazione scenografica; ma in questa stanza vi sono altri dettagli alquanto curiosi degni di essere menzionati; infatti, sugli affreschi restaurati l'attuale proprietaria, la signora Marina Danieli, ha voluto che rimanessero visibili dei graffiti risalenti a quel periodo. Uno è la firma di un soldato americano inciso su entrambe le pareti laterali: si firma, in bella grafia, Chuck; ancora più interessante è un altro graffito del 1942: l'alpino Alfio Rieppi lascia inciso un messaggio e scrive di essere stato bene a Buttrio, saluta con affetto la gente del posto che lo ha ospitato, ma annuncia che la Patria lo chiama ed egli deve partire per il fronte russo. Questa testimonianza racchiude, nella sua commovente semplicità, il senso del dovere e la missione di cui si sentiva investito il giovane alpino, probabilmente un soldato che si accingeva a partire verso una terra ignota. E chissà se Alfio fu tra coloro che riuscirono a ritornare nella propria casa, verosimilmente a Nord-Est:
[... ] Una ‹‹villa›› richiama sempre un che di leggiadro e superfluo, un soggiorno precario, il sospetto di un'ostentazione; la ‹‹casa›› invece è il luogo dell'amore, delle malattie, dell'amicizia e della morte: infinitamente più seria insomma.

A cura di Lara Scifoni



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