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Hannah
di Beppe Calabretta
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La statua dell'arcangelo San Michele vittorioso sul drago si stagliava netta in cima alla facciata. Pallida di una luce ancora tenue in quell'alba fredda di un dicembre di tanti anni fa mi parve un oltraggio. Ai lati i due angeli col loro perenne suonare gli olifanti senza mai morire come Orlando a Roncisvalle, erano una sfida. Una sfida al tempo. Più in basso i volti pietrificati di Garibaldi, Vittorio Emanuele II, Cavour, Napoleone III, Pio IX, mi parvero messi lì da una mente ironica e bizzarra. E il vero e proprio bestiario scolpito sulle logge e sulle colonne intarsiate di marmo bianco e nero sembrava un'orgia. Un'orgia di vita e di passione.

Ma tutto in fondo era irreale, sentimenti e magnifica facciata.

Hannah se ne era andata.

Io ero lì, fermo sullo sbocco di Via di Poggio, gli occhi velati da un dolore stanco.

Hannah se ne era andata.

Mi viene in mente quando l'ho conosciuta. Bassa, più o meno quanto me, il corpo snello, quasi uno scricciolo, mi parve una bambina lì per lì. Ma poi notai il suo petto sotto il maglione di ciniglia blu. Le guardai il viso e vidi i tratti compiuti di una ragazza della mia stessa età. Non era bella. Efelidi le screziavano il viso ed i capelli, di un biondo rossiccio naturale, le scendevano lisci ed uniformi. Eppure mi colpì. Aveva negli occhi, di un color nocciola paglierino, un'espressione dolce e insieme ferma che non lasciava scampo.

Sei di Lucca, mi chiese. No, ma è come se lo fossi. Cerco un posto una stanza, qualcosa per dormire. Per una notte? No, mi piace la città, vorrei fermarmi un po'. Una pensione? Non ho soldi abbastanza. Allora non so. Grazie lo stesso, troverò qualcosa, ciao. Girò la testa, le braccia abbandonate lungo i fianchi, il sacco rigonfio sulle spalle ossute, fece appena un passo. Aspetta, le dissi con qualche esitazione. Lei si fermò, rigirò la testa e mi fissò negli occhi. Sì!? Puoi venire da me, se vuoi. Non so cosa pensò, ma certo non si offese. Però disse, no, troverò qualcosa. La rividi dopo qualche giorno dietro il banco di un bar. Camicia bianca a mezza manica, una camicia da uomo, gonna nera e liscia di poco sopra il ginocchio, capelli tirati legati a ciuffo con un elastichino, un velo di trucco a mitigare le efelidi, sembrava più giovane di quel che m'era parso. Anche se gli occhi seguivano attenti le tante ordinazioni di caffè, cappucci e aperitivi, mantenevano quell'espressione dolce e forte che mi aveva colpito. Mi riconobbe e mi lanciò un sorriso ma era indaffarata ed io ero di corsa, passato lì per caso a prendere un caffè.

Vivevo in quel periodo un po' da vagabondo, senza orari,senza regolamenti senza legami fissi. Non ero un fannullone. Avevo il mio lavoro e tante altre cose. Non ero sbalestrato, senza dimora fissa. Avevo la mia casa. Una soffitta in affitto, magnifica e spaziosa. Ma ero senza orari,senza regolamenti. Mangiavo quando a casa quando in trattoria. Da Giulio in Pelleria, da Leo alla Pupporona, qualche volta al Tripoli che era un po' più caro ma

più tranquillo e quieto. Facevo il bucato quando ne avevo voglia e quando no in lavanderia. Vivevo alla giornata e mi piaceva. Me l'ero scelta io quella vita un po' randagia ed un po' normale. Ma ero senza legami.

Anche la città me l'ero scelta io. Ma non mi era piaciuta a prima vista. Vi ero giunto un paio d'anni prima in una fredda, umida e piovosa giornata di gennaio. Nel breve tratto dalla stazione a Piazza Santa Maria Bianca mi si era strinto il cuore. Da dietro i vetri appannati della cinquecento dei miei amici intravidi appena la struttura possente delle mura. Mi colpirono invece le strade strette e grigie e le facciate smunte e vecchie. Son capitato male, mi dissi, ed emanai un sospiro. Ma forse fu la pioggia o forse la stanchezza di quindici ore in treno ché poi la città mi piacque e...

Un giorno ch'ero in festa e quindi senza fretta la vidi in piazza San Frediano mentre col capo alzato ammirava il mosaico con l'Ascensione. La stetti ad osservare per qualche lungo istante. Poi mi avvicinai e mi misi alle sue spalle. È la basilica di San Frediano, il vescovo irlandese, le dissi a voce piana. Lo so, rispose lei senza girare il capo. Si narra, continuai con lo stesso tono di voce, che un giorno in cui il fiume in piena minacciava di inondare la città, il vescovo Frediano si recò due miglia a nord e dopo aver pregato prese un rastrello e cominciò a camminare trascinandoselo dietro e poi col braccio alzato ordinò al fiume di seguirlo e il fiume obbedì e fu così che Lucca

fu salva. Questo non lo sapevo, rispose ancora assorta. Poi si girò e vidi nei suoi occhi qualcosa di irreale. L'oro e l'azzurro del mosaico come fotografati in mezzo alle pupille. Restai così sorpreso che smisi di parlare. Lei percepì qualcosa ma fece finta di niente e si avviò decisa verso il portone aperto. La seguii e giunti sul portale la udii sussurrare un suo pensiero. Le leggende rendono umana la storia. Non la capii perché per me le leggende rendono miracolosa la storia, ma aprii la bocca per dirle l'altra leggenda su San Frediano e sulla basilica. Quella della pietra. Ma lei mi disse zitto e presomi per mano aggiunse, entriamo.

Visitammo la chiesa in un silenzio laico, col rispetto dovuto al luogo e all'arte, ma senza inginocchiamenti, senza segni di croce. E fu in quel quarto d'ora, sotto le tre navate, che sentii tra di noi essere nato un legame.

Dopo, ognuno coi suoi pensieri nella mente, ci trasferimmo al caffè Caselli. Il caffè era pieno. Il tempo di dare un'occhiata circolare e si liberò un tavolo. Fui lesto ad occuparlo. Lei mi seguì. Restammo seduti per un bel po' di tempo senza dirci niente. Lei si guardava attorno e ogni tanto il suo sguardo si incrociava con il mio. Ci godemmo, credo, in quei momenti, ognuno il mistero dell'altro. O forse covavamo le domande che ci volevamo fare. Ruppi il silenzio io, alla fine. Cos'è quella dolcezza che hai dentro ai tuoi occhi, le chiesi. E quella fermezza, cos'è?

Lei alzò solo le spalle e le riabbassò. Poi, dopo un battito di ciglia, mi domandò chi ero, da dove venivo, cosa facevo. Domande più prosaiche e meno impegnative all'apparenza. Rimasi un po' deluso sul momento. Ma c'era nel tono in cui mi pose le domande, un interrogativo più di fondo, quasi un'ansia di scoprire chissà che cosa.

Io, che non avevo molto da dire, le raccontai quel poco che dovevo. Mi chiamo Andrea, vengo dalla Calabria, faccio l'insegnante nelle scuole medie, sono militante comunista, vivo da solo.

AI suono della parola comunista lei trasalì, ma si sforzò di non darlo a vedere.

Ero abituato a ben altro, sorvolai e per darle il tempo di riprendersi continuai, studio la storia di Lucca in biblioteca e leggo tanti libri alla rinfusa. Lei poggiò la mano sulla mia e con gli occhi appannati disse scusami sono ebrea, mi chiamo Hannah, sono nata in America a Philadelphia, cresciuta in collegio qui in Italia, me ne hanno dette tante sui negri, sui tedeschi, sui comunisti, scusami e mi strinse la mano forte forte, mentre con l'altra si asciugava gli occhi.

Nessuno dei due aveva però voglia di immalinconirsi e bastò un niente per superare quell'attimo di commozione. Successe che nel tentativo di allungare la mano per darle un buffetto sotto mento urtai la sua tazza di caffè ch'era rimasta quasi piena e, alla macchia enorme che si disegnò sulla tovaglia azzurra, lei scoppiò a ridere e io la seguii a ruota. Sempre ridendo chiamammo la

cameriera e ci scusammo. Lei disse, non c'è di che. Un altro caffè? Hannah rispose, no grazie, ci porti il conto e poi rivolta a me aggiunse stavolta pago io e al mio diniego insisté dicendo sono donna, voglio il privilegio. Così pagò lei per quella volta. L'allegria ci accompagnò per un bel pezzo e non toccammo più discorsi seri. Poi, quando si fece quasi scuro, lei si fermò di botto in Canto d'arco e disse devo andare, fra poco chiudono il portone. Ma dove stai, ti posso accompagnare. Non te lo dico, ma se vuoi domani mi trovi a lavorare e se ne andò svoltando in via Cenami.

Quella notte ascoltai tutti i rintocchi dell'orologio della Torre delle Ore. Dalla mia soffitta la Torre non si vedeva ma i rintocchi si sentivano chiari e precisi. Entravano da un lucernario che potevo raggiungere solo quando i vicini mi prestavano la scala.

Non fu una notte di insonnia agitata. Placido nel letto mi crogiolai intorno a quel legame che ancora non riuscivo a definire. Non era amore nel senso classico del termine, Forse era un feeling di tipo sensitivo. Qualcosa che preludeva a un rapporto saldo e duraturo, di quelli che una volta si chiamavano amicizia e che oggi non si sa più come chiamare.

Il giorno dopo successe quello che ogni tanto ti capita nella vita e che a raccontarlo nessuno ci crede. Una serie di fatti indipendenti che però formano una catena e che fanno saltare ogni preventivo intendimento.

Si comincia con la sveglia che di solito non serve ma che proprio quella mattina non suona o non la senti. Insomma mi svegliai alle nove e feci presto a lavarmi e a vestirmi e alle nove e un quarto ero già a scuola. Ma ero in ritardo di tre quarti d'ora. Era la prima volta che mi capitava e a dire il vero il preside non la fece tanto lunga. Però, dà allora, ogni volta che un collega si assentava, la supplenza era mia. Si cominciò da quello stesso giorno alla terza ora. Così saltai la puntata che volevo fare al bar di Hannah. Poi successe che all'ultim'ora, un ragazzino cadendo sulle scale si fece male. Niente di grave ma tra le cure, il rapporto, la visita al pronto soccorso dell'ospedale, si fecero le due prima che fossi pronto. Quando arrivai al bar, Hannah non c'era. Aveva smontato almeno da mezz'ora e per quel giorno non l'avrei più vista.

Il giorno successivo però era al suo posto e tra un cliente e l'altro ci parlammo. Le raccontai del giorno prima e lei noncurante disse non importa però ora non ho tempo, vediamoci stasera. Dove le chiesi. Quando smonto, alle dieci vado in pizzeria, in piazza San Francesco. E il portone? Lei rimase sorpresa, poi con un sorriso disse stasera chiude a mezzanotte.

Così passammo più di un'ora mangiando pizza, bevendo birra e scambiandoci delle impressioni un po' banali. Quando finimmo ce ne andammo lungo i fossi e camminammo svelti perché se lo spettacolo era bello, il puzzo che emanava dal canale rischiava di rovinarci la cena. A porta San Gervaso lei si fermò un momento a rimirarla. Poi imboccammo un po' più lentamente via Santa Croce e alla Colonna Mozza Hannah disse, voglio salire lassù. Non puoi, le dissi, è proibito, e già intuendo che non l'avrei fermata, aggiunsi è pericoloso, puoi cadere. Ma lei era già ai piedi della colonna e agile e svelta come una scimmia si arrampicò fino in cima e vi salì coi piedi. Quando si alzò dritta e slanciata contro la facciata della chiesa tremai dalla paura e per timore di turbare il suo equilibrio non fiatai. Lei prima si guardò attorno a testa alzata e poi si alzò poggiando tutto il peso sulla punta di un piede solo e allargando le braccia come ali sollevò l'altra gamba e chinò il corpo proprio come a voler spiccare il volo. Avrei voluto urlare ma ancora la paura .e il poco raziocinio che ancora mi restava mi imposero il silenzio. Restammo qualche istante in quell'incantamento. Poi lei si ricompose e si mise seduta a gambe penzoloni e io scivolai a terra per le ginocchia molli ma non feci in tempo a riprendermi che mi chiamò.

Andrea, vieni qua sotto, ti devo parlare. La dolcezza che vedi nei miei occhi e la fermezza, io non ce l'ho. Sei tu che le vedi e forse ce l'hai dentro. Io mi sento quando molle e quando dura. A volte mi commuovo per un niente e a volte vedo cose tremende e resto indifferente. Ed ho paura. Tu hai paura? Dopo quello che hai fatto mi dici che hai paura? Non soffro di vertigini se è per questo, posso camminare

anche su una corda tesa. Quella di cui ti parlo è un'altra cosa. Mi viene all'improvviso e non perdona. La voce si era fatta fessa all'improvviso e mi colpì come una staffilata. Però presi coraggio e dissi scendi, vieni giù

che ne parliamo. Va bene, scendo e si appese per le mani. Poi penzolando come una campana mi disse prendimi, arrivò e si lasciò andare. Mi cadde in braccio come una bambina ed era così lieve che neanche traballai. Puntandomi le mani contro il petto poggiò i piedi per terra e mi fissò. Grazie Andrea, ne parleremo, ma un altro giorno ché ora devo scappare. Il portone? Dissi sorridendo. Sì, il portone. E se ne scappò davvero.

Tornai a casa un po' disorientato e con un rigurgito di curiosità sulla differenza tra uomo e donna. Pensavo di aver superato quella fase ma evidentemente avevo tratto conclusioni un po’ affrettate. E sì che era durata a lungo.

Cominciò fin da bambino quando l'unica differenza che vedevo era nel pisellino. lo ce l'avevo e le bambine no. Però ero curioso e ogni volta che potevo cercavo di vedere da vicino. Ricordo bene un giorno in cui una bimba amica mia si chinò e senza abbassare le mutande se le scostò soltanto per fare la pipì. Io mi avvicinai ma lei fu lesta a riaccostarle e a riabbassare la vestina. Così dovetti rimandare a quando fui più grande, a quando avevo ormai capito che la diversità non stava solo in quell'incrocio. Però la curiosità era rimasta intatta e appena con una ragazza ebbi raggiunto la necessaria intimità, le chiesi, fammela guardare, non essere gelosa, sii generosa, fammela osservare da vicino. Lei ridendo volle sapere perché e

io glielo spiegai anche se non fu facile trovare le parole adatte. Infine per semplificare le dissi, vedi il mio è tutto lì nudo e crudo senza segreti e senza misteri e mostra apertamente i suoi umori. Si vede subito quando è sveglio o quando dorme, quando è pigro o quando invece è impaziente. Insomma è lì, completamente esposto. La vostra no, è avvolta nel mistero. Se

non ne scosti í peli, se non apri le labbra, non si vede e non si capisce niente. Quindi fammela vedere da vicino per favore. E lei mi accontentò. Naturalmente non vidi il mistero della diversità però servì a farmi superare la prima ingenuità.

Di fatto rinunciai ad indagare ancora in quella direzione e seguitai a rapportarmi con le donne con abbastanza contraddittorietà, quando pretendendo di comunicare con il silenzio, quando comportandomi come un cereria hancolli, pesce maschio dieci volte più piccolo delle femmine che si abbarbica stabilmente sul loro addome con un morso e da lì si nutre come attraverso un cordone ombelicale.

Ed ora quel rigurgito di curiosità mi faceva un po' vergognare perché nasceva dal cuore di un legame assai particolare. Avrei voluto capire per poterla aiutare ammesso che potessi e che lei me lo lasciasse fare. Però non avevo appigli neanche per cominciare.

La rivedrò domani, pensai, e poi mi addormentai.

Difatti la rividi ma lei non mi aiutò a riprendere il filo di quelle confidenze e, anzi, a un mio timido sondare, tirò diritta lungo un piano di conversazione molto convenzionale. Questa volta però non sorvolai e sia pure col silenzio le manifestai la mia disapprovazione al suo volermi tener fuori. Lei certo se ne accorse quasi subito e smise di parlare. Poi, dopo qualche momento mi disse, Andrea non è che non mi voglio confidare, è che il campo pieno di mine in cui mi trovo non lo conosco neanche io. Però, te lo prometto, se trovo la più grossa ti chiamerò in aiuto. Forse fu in quel momento che il nostro legame divenne così saldo che non si sciolse più. Seguirono giorni allegri e giorni tristi, con incontri quando frequenti, quando radi in un consolidarsi del rapporto che a tutti appariva un po' speciale.

Amici, conoscenti, compagni di partito pensarono al grande amore erotico-sentimentale e fu inutile spiegare. Qualsiasi negazione risultò un rafforzativo e noi smettemmo di spiegare. D'altronde cosa importava? Lo sapevamo noi di che filo era fatta la nostra tela e cabastava.

Insomma, pur nel tumulto cupo di quegli anni, (erano gli anni Settanta) vivemmo una stagione intensa e nell'intimo serena.

Passarono due anni.

Poi, una domenica mattina, suonarono alla porta. Pensai che fosse Marco, un compagno che era di turno con me a diffondere il giornale. Mi affacciai alla finestra per dire aspetta, scendo. Invece era Hannah. Non era mai venuta a casa mia. Superando lo stupore e un po' allarmato le dissi vieni ti apro.

Entrò col viso sbiancato e un po' affannata.

Hannah cosa hai? Cosa è successo?

Papà è morto. Devo partire.

Quando l'hai saputo.

Due ore fa. Mi hanno telefonato.

Potevi chiamare subito.

Volevo farlo. Poi ho deciso di venire. Volevo vedere la tua casa prima di partire.

Pensi di non tornare.

Non lo so.

Dove è successo. Come è successo.

A Genova. In casa. Uno stupido incidente. È scivolato e ha battuto la testa.

Viveva solo?

No. Con una donna. È lei che mi ha telefonato.

Hannah, vengo con te.

Lei annuì e disse però non so se torno.

Fa nulla. Se resti torno da solo.

Ma la sera, finita che fu la cerimonia, mi disse Andrea torno con te, non me la sento di restare qui, però aspettami in macchina, fammi stare un po' con lei.

Tornammo che era mezzanotte passata. Le dissi sali da me per questa notte e lei assentì. Le cedetti il letto e mi sistemai su un antico canapè che i padroni di casa mi avevano lasciato.

Dopo un poco, sai, mi voleva molto bene, era sempre affettuoso e premuroso, ma non mi ha mai voluta con sé. Ti ha mai detto perché. No, però ogni volta che glielo chiedevo mi diceva un giorno lo saprai. E tua madre? E morta tempo fa e io non l'ho mai conosciuta. Ora son morti tutti e due. Il giorno dopo mi chiese se poteva stare da me per qualche tempo. Te l'ho proposto quando ti ho conosciuta. Me lo ricordo, ma allora volevo stare da sola, ora non posso.

Improvvisammo un separè spostando la libreria ch'era accostata al muro. Da una parte il mio letto dall'altra una brandina da campeggiatori.

Nei giorni che seguirono seppi altre cose.

Il padre era italiano, la madre ebrea. Erano scappati in America nel '36. Facile capire perché. Hannah era nata nel ‘43. Lo stesso anno morì la madre. Il padre, che nel frattempo era riuscito ad avere la cittadinanza americana, venne in Italia come soldato in guerra. Alla liberazione decise di ritornare definitivamente e portò con sé la figlia che però affidò ad un collegio di suore. Hannah rimase in collegio fino al diploma magistrale fra i diciotto e i diciannove anni. Per tutto quel tempo il padre l'andava a trovare ogni volta che poteva e comunque almeno la domenica.

Un giorno trovai Hannah raggomitolata sul canapè. Teneva una lettera schiacciata contro il petto e piangeva. Mi andai a sedere accanto a lei e non feci in tempo a parlare. Me la porse dicendomi leggila. Era una lettera postuma del padre. Una lunga lettera che partiva da quando aveva conosciuto sua madre. Non la ricordo tutta ma rammento parola per parola il suo nucleo centrale:

.. e sì, era un giorno benedetto dagli angeli quello in cui tua madre se ne andò. Pasqua di resurrezione per me, di liberazione per lei e tu stavi per nascere. Nonostante la guerra e tutto quello che avevamo patito eravamo in festa, festa grande nei nostri cuori in comunione. Tu nascesti proprio mentre le campane della chiesa suonavano l'annuncio. Ma qualcosa andò storto e tua madre ne morì. Era sotto i miei occhi mentre esalava l'ultimo respiro. Un rantolo leggero, quasi una pausa per riprendere fiato. Invece era l'ultimo..."

Non furono giorni facili quelli che seguirono. Lei sempre triste e tesa, io inquieto e preoccupato. Finalmente un giorno la vidi più serena e capii che qualcosa era cambiato. Infatti mi annunciò appena posso parto, vado a Philadelphia, voglio vedere la tomba di mia madre. È giusto, però prima di partire ti porto a vedere un'altra tomba.

Quando il giorno arrivò, la portai in San Martino. Entrammo e subito l'accompagnai verso il transetto, a sinistra. È bellissima, disse, però l'avevo già vista. Guardala Io stesso, osserva i tratti delicati e gentili, osservali attentamente. Sembra che riposi, l'artista è stato bravissimo. È di Jacopo della Quercia, un maestro, però anche lei era bella. Lei chi? Ilaria, Ilaria del Carretto. Pensavo fosse il nome della scultura. No, era una donna vera, la seconda moglie del Signore di Lucca, Paolo Guinigi. Morì giovanissima, di parto, come tua madre.

A Pisa, alla stazione, alle quattro del mattino quando mi salutò aveva una buona cera e io me ne tornai a Lucca con animo più leggero. Però quando arrivai davanti a San Michele mi prese un dolore stanco che mi appannò la vista.

Hannah se ne era andata.

Mi rinfrancai quindici giorni dopo.

La lettera diceva molte cose ma finiva così:

"La tomba di mia madre è solo una lapide però mentre penso a lei io vedo Ilaria. Ti abbraccio. Hannah".

© Beppe Calabretta





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