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Circostanze fuori dal comune
di Giovanni Manea
Pubblicato su SE2


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“Bene, allora prendo una stanza per questa notte. Le serve un
documento?”
Il proprietario dell’albergo si decise a guardarmi in faccia.
“No, nessun documento. Qui è una procedura inusuale richiederlo. È la
parola data, e solo quella, che conta veramente in questo paese.”
Dissi:
“Davvero una prassi insolita signor Augusto. Davvero insolita. Io ho
girato l’Italia in lungo e in largo, e le garantisco che nessuno si
accontenta semplicemente della parola.”
L’uomo puntò il moncone del suo braccio sinistro verso l’uscita e
disse:
“Quel bel tipo che sta arrivando è mio fratello. Il suo nome è Germano
e da questo momento si metterà al suo servizio.”
Mi girai lentamente preparandomi a tendere la mano. Rimasi
esterrefatto. A Germano mancava il braccio destro.
“Buonasera Augusto. Scusa per il ritardo.”
Il fratello in tutta risposta levò gli occhi al cielo sbuffando.
Guardai uno e poi l’altro. Fisicamente si assomigliavano molto. Erano sulla
cinquantina. Facce lunghe e bianche e con mascelle cadenti. L’ultimo
arrivato raccolse la mia valigia. Augusto mi appoggiò sul banco la chiave
della stanza. Germano allungò il collo verso il fratello. Disse:
“Dove hai intenzione di sistemarlo?”
“Portalo nella stanza del generale.”
“È una faticaccia arrivare là in cima. Perché non lo mettiamo al primo
piano? Tanto l’albergo è completamente libero. Come sempre del resto.”
“Sono l’unico cliente?” Dissi come riemergendo da un’apnea.
Germano agitò il suo moncherino.
“Certo. Cosa crede? Che la gente faccia a botte per venire nel nostro
piccolo paese?”
Augusto a sua volta dimenò il suo di moncherino come se bruciasse, e
redarguì il fratello.
“Stai perdendo del tempo prezioso! Forza! Il signore è impaziente di
prendere possesso della stanza! Non ha nessuna voglia di essere
infastidito dalle tue lamentele!”
Mi sentii in dovere di dire qualcosa.
“Non c’è fretta signor Augusto. Sono appena le nove di sera. E poi non
sono affatto infastidito da…”
Augusto mi guardò in faccia per la seconda volta. Il suo accento
divenne cupo.
“Questo, come avrà di certo notato, è un piccolo paese. Piccolo e
tranquillo. I forestieri qui sono ben tollerati a patto che si mantengano
entro un certo limite di discrezione. Ebbene, considerando tutto, il suo
intervento difensivo a favore di Germano e da considerarsi certamente
lodevole. Ma…C’è un ma. Faccia attenzione alle mie parole: io la invito
vivamente a non immischiarsi nelle nostre faccende, proprio per non
valicare quel limite di discrezione a cui ho appena accennato. Lei
comprende quanto ho detto?”
Mi limitai ad annuire. Poi abbassai lo sguardo sul pavimento,
chiedendomi se non fosse il caso di andarmene. Purtroppo la stanchezza, che
avevo accumulato durante la faticosa giornata di viaggio, mi impedì di
prendere una decisione così estrema. Germano mi fece cenno di seguirlo.
Infilammo un corridoio a fianco della saletta di accoglienza. L’albergo
doveva essere molto antico. I muri erano rivestiti di legno, e i
pavimenti scricchiolavano ad ogni nostro passo. L’illuminazione era davvero
scarsa e vi era una situazione di penombra costante. Affrontammo le
scale. Le più ripide che avessi mai visto. Solo dopo pochi scalini fui
costretto a fare i conti con il fiatone. C’erano molti dipinti
posizionati a intervalli regolari lungo quel Calvario. Scene di caccia
raccapriccianti e ritratti di uomini illustri. L’aria sapeva di vecchio, e
forse a causa dello sforzo, fui colto da un leggero senso di nausea. Posi
una mano sulla spalla di Germano che mi precedeva di qualche passo.
“Fermiamoci un istante per favore.”
Rimase fermo senza voltarsi. L’incredibile silenzio che avvolgeva
quella vecchia struttura mi trasmise un forte senso di disagio. Provai a
porvi rimedio cercando il dialogo.
“È una mia impressione, o suo fratello è un tipo…Come dire? Alquanto
scontroso?”
Speravo che si voltasse. Ma lui preferì continuare a mostrarmi la
schiena. Disse:
“Vorrei evitare questo argomento, signore. Se giungesse anche solo
qualche parola all’orecchio di Augusto, lo scontro sarebbe inevitabile. E
questa volta non ci limiteremo di certo a strapparci un braccio l’un
con l’altro. Nossignore. Questa volta sono sicuro che finirebbe davvero
molto male.”
Trasalii. Rimasi qualche attimo con la mente confusa. Poi esclamai:
“Strapparvi un braccio?! Ma sta scherzando?!”
“La prego di non insistere signore. Se solo dovesse sfuggirle qualche
indiscrezione, che io stesso molto incautamente potrei confidarle, le
assicuro…”
Lo interruppi alzando la voce.
“Ma per chi mi ha preso? Pensa davvero che mi permetterei di riferire a
suo fratello quanto mi ha detto?! O quanto sta per dirmi?”
La sua schiena si irrigidì.
“Io non la conosco signore. Per quanto ne so la sua valigia potrebbe
essere carica di alcolici. E lei, una volta giunto nella sua stanza,
potrebbe benissimo ubriacarsi come un maiale. Con rispetto parlando.”
“Con rispetto parlando?” Ripetei mentalmente.
“A quel punto per lei sarebbe davvero facile e comodo andar giù dritto
sparato da Augusto, e riferirgli la nostra conversazione. Magari
infarcendola pure con particolari molto coloriti, suggeriti dall’alcool da
lei ingordamente ingerito. Io non ho proprio idea di che effetto abbia su
di lei l’alcool. E non intendo correre rischi.”
Gli posi una mano sulla spalla scotendolo. Ero incredulo e molto
irritato. Dissi:
“Si volti!”
Germano mantenne la sua posizione.
“Mi ascolti bene! Ringrazi il fatto di avere un braccio solo,
altrimenti l’avrei picchiata!”
“Sta tentando di impressionarmi, signore?” Rispose con voce
tranquilla.
Sferrai un pugno sul corrimano. Quindi mi imposi con tutte le mie
forze di mantenere la calma. Dissi:
“A questo punto sono proprio tentato di andarmene. La sa una cosa? Io
sono un rappresentante di tessuti e sono sempre in viaggio. Ho
soggiornato in tutti gli alberghi, in tutti i motel e in tutte le bettole
della penisola, ma non sono mai stato accolto con tanta insolenza! E ora mi
dica. C’è qualche altro posto dove si può dormire nei paraggi?”
“No signore. Il paese più vicino si trova a due ore di automobile.”
“Maledizione! Cosa ho fatto per meritarmi tutto questo?” Conclusi
sconsolato.
Fissai ancora per qualche istante la schiena di Germano. Poi in malo
modo dissi:
“Avanti! Muovi il culo e portami a destinazione.”
Ci rimettemmo in marcia.
Ero giunto nella minuscola piazza deserta del paese mezz’ora prima.
Ero così stanco che quasi non l’avevo visto l’albergo. Visto da fuori
sembrava poco più che una modesta casa stretta e alta, e solo una
minuscola insegna ne indicava l’esistenza. Essa recitava pomposamente: “Hotel
Internazionale.” Avevo sorriso leggendola. E mi augurai di cuore che ci
fosse almeno lo spazio per un letto in quella che sembrava essere una
topaia. Ora che vi stavo camminando all’interno, fui costretto a
ricredermi. Mi chiesi infatti di come fosse possibile che vi fossero così
tante rampe, così tanti pianerottoli, e così tanti corridoi e camere. Era
un fatto davvero inspiegabile.
Finalmente arrivammo sudati e ansanti di fronte ad una porta. Vi era
un cartello sulla medesima. Leggendolo dissi:
“Stanza del generale? Che significa?”
Germano appoggiò la mia valigia e si deterse il sudore dalla fronte.
Disse:
“Qui soggiornò un famoso generale, signore.”
Entrammo. Era un caldo infernale. Anche il vecchio mobilio massacrato
dalle termiti pareva sudare. Vidi una sciabola appesa in bella mostra
sopra alla testiera del letto.
“Che generale?” Chiesi incuriosito.
“Il generale Custer, signore.”
“Vuoi dire quello della cavalleria degli Stati Uniti?”
“Precisamente signore.”
“Smettila di darmi del lei! Perché dopo quanto è successo non ha più
alcun senso. E ora dimmi Germano: mi hai preso per un imbecille?”
“No signore. Non l’ho presa per un imbecille.”
“Vuoi farmi credere che il generale Custer è venuto a caccia di
indiani in Italia? E come non bastasse vuoi farmi anche credere che è venuto
in questa catapecchia?”
I suoi occhi divennero due fessure.
“Mi sta dando del bugiardo, signore?”
Spalancò gli occhi di colpo. Scattai istintivamente all’indietro.
Disse:
“Quanto le ho detto è vero! È vero come il fatto che io e mio fratello
ci siamo tagliati le braccia proprio con quella sciabola! E posso
garantirle che ci siamo battuti bene! E con onore! È stato un duello leale!
Anche se come arma avevamo a disposizione solo quella sciabola!”
Mi aveva veramente spaventato con quello scoppio di esaltazione.
Dissi:
“D’accordo, d’accordo. Questi sono fatti vostri e del generale. E io
non voglio assolutamente metterci becco.”
Germano abbozzò un sorriso che irradiava soddisfazione.
“Questo albergo appartiene alla nostra famiglia da innumerevoli
generazioni. Il generale è stato solo uno degli innumerevoli ospiti di fama
internazionale, che ha avuto l’onore di soggiornare tra queste mura.”
“Sì, capisco.” Risposi tentando di rabbonirlo.
I suoi occhi furono attraversati da una luce strana e intensa. Era la
stessa luminosità che avevo visto da ragazzino negli occhi di mia
nonna, quella volta che implorò i miei genitori di essere ibernata nel
congelatore di casa. Germano era decisamente surriscaldato. Decisi di
assecondarlo.
“Prima di mettermi a letto vorrei cenare. È possibile avere un pasto
caldo?”
Avanzò di alcuni passi verso di me. Io indietreggiai. E lui avanzò
nuovamente fino a che mi trovai con le spalle a ridosso di un grande
armadio che odorava di muffa.
“Ci sono state anche molte donne famose in questo albergo!”
Parlava con vero trasporto.
“Donne bellissime! Donne eleganti e raffinate! E io ne ho amate
tantissime di queste!”
“Certo.” Dissi seriamente.
“Ma è possibile cenare?”
Fu come chiedere qualcosa al vento. Egli continuò con vera enfasi.
“Non è mia abitudine vantarmi, ma se il mio uccello potesse parlare le
confermerebbe quanto le ho detto, e aggiungerebbe di sicuro molto altro
ancora! Ho avuto delle incredibili storie d’amore con quelle donne!”
Rimasi immobile.
“Quella volta che io e Augusto ci demmo battaglia con la sciabola del
generale, è stato proprio a causa di una di quelle donne bellissime.”
Lui rimase con gli occhi fissi su di me e, e sapendo bene di avermi
terrorizzato, allungò la mano verso il mio viso con il palmo rivolto
verso il soffitto. Considerai il fatto che non era proprio il caso di
rifiutargli la mancia. Era meglio non intraprendere un azzardo simile.
Intascò agilmente il denaro. Varcò la soglia. Riacquistò la sua aria mite e
frustrata. Disse:
“L’aspettiamo in sala da pranzo tra un’ora. Sia puntuale.”
“Lo sarò.” Risposi tremando nella voce e nel corpo. Finalmente la
porta si chiuse. Mi stesi sul letto. Era molle e a dir poco sudicio. In
circostanze normali non mi sarei assolutamente coricato su di una
pattumiera simile. Ma in quel momento le mie gambe tremavano troppo e non ero
proprio in grado di reggermi in piedi.
“Domani farò un’antitetanica. E anche un’antitifica.” Pensai per farmi
coraggio.
Tentai di capire quando e come la situazione si fosse ribaltata a mio
sfavore. Non riuscivo a capacitarmene. Di gente strana, con il mio
lavoro, me ne era capitata tra i piedi veramente molta. Ero convinto di
essermi temprato nel corso degli anni: infatti avevo superato
brillantemente situazioni ben peggiori. Ma quel diabolico monco era riuscito a
mettermi al tappeto in un solo round, facendomi perdere quella sicurezza da
venditore che riuscivo ad ostentare sempre con estrema facilità. Il
caldo era opprimente. Mi decisi ad aprire la finestra. Scoprii così con
sorpresa che era murata. Trascorsi sessanta interminabili minuti,
osservando le travi del soffitto immerso in un silenzio insopportabile.
“Forza, coraggio. Andiamo giù a mangiare.” Dissi a bassa voce.
Iniziai a ridiscendere le scale ripide e scricchiolanti. Il percorso,
nonostante fosse in discesa, pareva molto più lungo e addirittura più
faticoso di quello che avevo affrontato solo un’ora prima.
“Forse è la stanchezza.” Dissi tra di me.
Poi mi arrestai di colpo. Qualcosa non quadrava. Fui addirittura colto
dal sospetto che fosse un’altra scala.
“Maledizione! I quadri! Non ci sono più i quadri!” Mormorai inquieto.
Udii il rumore dei passi di qualcuno più in basso.
“C’è qualcuno?” Chiesi timidamente.
“Sono Augusto, signore.” Giunse in risposta dal basso.
“Mancano i quadri.” Dissi con voce strozzata.
Poi mi sporsi oltre il corrimano per tentare di individuarlo. Ma la
luce era troppo modesta per poter distinguere qualcosa.
“Probabilmente sono stati rubati, signore.”
“Rubati? Sta scherzando?”
“No, signore. Anzi, questo è un fatto che accade molto spesso.”
Rimasi alcuni istanti come sospeso.
“Cosa faccio? Scendo?” Dissi scrutando l’oscurità sottostante.
“Sì, scenda. Io credo che oramai non ci sia più alcun pericolo.”
“Pericolo? Che genere di pericolo?” Chiesi allarmato.
“I ladri, signore. Oramai hanno fatto man bassa e di sicuro se ne
saranno andati. Scenda. L’aspetto in sala da pranzo.”
“Mi aspetti signor Augusto. Sto scendendo.”
Non mi giunse alcuna risposta. Scesi di corsa. Una corsa lunghissima,
alla fine della quale non trovai alcuna traccia dell’albergatore.
“Almeno sono al piano terra tutto intero.” Pensai infilando la porta
a fianco della sala di accettazione.
Mi ritrovai in sala da pranzo. Tre enormi lampadari emanavano una luce
accecante. Il locale era rettangolare e basso. Potevo toccare il
soffitto alzando semplicemente un braccio. Vi erano almeno venti tavoli
accuratamente apparecchiati e grandi macchie scure di muffa sulle pareti.
“Signor Augusto?”
Augusto entrò da una porta laterale che non avevo visto.
“Ero in cucina. Si sieda in quel tavolo.”
“Aspettate altri ospiti per questa sera?”
“No. Ordino sempre a mio fratello di apparecchiare molti tavoli. È un
buon modo per tenerlo occupato. Ora comunque ha staccato il suo turno
di servizio.”
Presi posizione nel posto assegnatomi.
“Vuole dire che suo fratello è andato via?” Dissi con sollievo.
“Sì, era molto, molto stanco. Mi occuperò io di lei.”
Mi sentii molto più rilassato. Dissi:
“Mi perdoni la domanda, anche se le sembrerà un po’ stupida. Davvero
sono stati i ladri a portar via i quadri?”
“Le porto un antipasto signore?”
Osservai i bottoni dorati della sua giacca di un bianco impeccabile.
“Ma io le avevo chiesto…Sì, vada per l’antipasto.”
Girò i tacchi e si avviò in cucina. Pensai:
“Che manicomio questo posto!”
Augusto mi servì delle fette di pane lunghe e sottili accompagnate da
prosciutto. Si distanziò di un paio di metri dal tavolo, e si mise
ritto come una sentinella di fronte a me. Guardai le pietanze. Dissi:
“Questo pane è raffermo. E il prosciutto è rancido.”
“Non è di suo gradimento, signore?”
Sbuffai.
“No per Dio! Come potrebbe esserlo?”
Augusto raccolse i piatti. Disse:
“Passiamo al primo?”
Non attese una mia risposta.
“Abbiamo dell’ottimo riso questa sera.”
Scossi la testa.
“Voglio essere sincero. Io odio il riso.”
Augusto divenne molto serio.
“Lo supponevo, signore.”
“Davvero? Perché lo supponeva?”
“M’intendo di psicanalisi, signore. Mio padre mi ha iniziato a quella
nobile arte.”
“Suo padre era uno psicologo?”
“No, lui gestiva questo albergo. Mio padre è stato iniziato da mio
nonno.”
“Allora suo nonno era uno psicologo?”
“No, anche lui gestiva questo albergo. Ma qui, tanti anni fa, veniva a
soggiornare abitualmente un famosissimo psicanalista. Ebbene, quel
genio di fama mondiale non pagava il conto con il vile denaro, ma bensì con
delle interessantissime lezioni di psicoanalisi. E il mio caro nonno
fece tesoro di tutti quegli insegnamenti.”
Ridacchiai nervosamente. Dissi:
“Ora mi verrà a dire che quel famoso ospite era Freud. Vero signor
Augusto?”
“Certo. Glielo ha detto forse mio fratello?”
Distolsi lo sguardo da quell’uomo, e lo appoggiai sulle mie mani.
“Oltre al riso, c’è dell’altro?”
“No, signore. Solo riso.”
“Cosa c’è di secondo?”
“Braciola di porco. E patate.”
Valutai la parola porco.
“Va bene. La braciola va bene.”
“Devo andarmene al più presto.” Pensai sorridendo.
Comunque Augusto non mi aveva messo in soggezione come Germano, e mi
sentivo decisamente più a mio agio. La braciola e il contorno erano di
fronte a me, assieme a un litro di vino rosso. Augusto si ricollocò di
fronte al tavolo. La braciola era bruciacchiata. Non reclamai. Dissi a
me stesso che evidentemente non si poteva pretendere di meglio in un
posto del genere. Era decisamente imbarazzante mangiare con gli occhi di
Augusto incollati addosso. Pareva un morto in piedi. Pensai di fare un
po’ di conversazione tra un boccone e l’altro. Almeno così, pensai,
ascoltando la sua voce mi sarei sentito meno a disagio.
“Senta. Se dopo mangiato mi venisse voglia di fare quattro passi,
dove potrei andare?”
“Il paese è tutto raccolto intorno alla piazza, signore. Ci sono solo
due posti dove può recarsi: al bar da Ignazio, oppure in chiesa. Ma
tenga presente che Ignazio non tiene mai aperto fino a tardi.”
Deglutii un grosso boccone di carne. Dissi:
“Perché la chiesa rimane aperta fino a tardi?”
“Sì, il nostro don la tiene aperta tutta la notte.”
“Interessante.” Risposi fingendo interesse.
Guardai l’orologio. Erano le undici e mi pareva, tutto sommato, di
controllare la situazione magnificamente.
“Senta, devo aver sbagliato qualche incrocio quando ero sulla statale
alcune ore fa. E sono ancora piuttosto confuso. Non ho capito in che
paese sono arrivato…Consultando la cartina geografica non risulta esserci
nessun centro abitato da queste parti. E inoltre, fuori da questo paese
non ho visto nessun cartello stradale che indichi il nome di questo
posto. Come si spiega?”
Augusto roteò il suo moncherino. Disse:
“È semplice. Non ha visto nessun cartello con su scritto il nome del
paese, perché non c’è nessun cartello con su scritto il nome del paese.”
“Ha voglia di scherzare? Deve esserci un cartello con il nome del
paese.”
Augusto mosse un passo verso di me.
“E io le dico che non c’è nessun cartello.”
Diedi un leggero pugno sul tavolo. Dissi:
“Ma non è possibile. Tutti i paesi grandi o piccoli che siano, devono
avere un cartello che ne indichi il nome.”
Mosse un altro passo verso di me.
“E io le ripeto che qui non c’è nessun cartello del cazzo in cui sia
indicato il nome di questo paese!”
Aveva cambiato tono. Somigliava quello di suo fratello Germano.
“Oh no! Deve essere un vizio di famiglia!” Pensai atterrito.
Quindi tentai di riaggiustare la situazione.
“D’accordo. Qui non c’è alcun cartello. Ma può almeno dirmi come si
chiama questo paese?”
“No, signore. Non posso.”
“Perché?” Mi feci sfuggire dalla bocca.
“Perché quando lei tornerà a casa sua lo potrebbe dire ai suoi amici, e
in men che non si dica qui ci ritroveremo invasi dagli stranieri. Ecco
perché non posso dirglielo!”
“Giusto.” Dissi osservando il suo unico braccio.
Anche i suoi occhi stavano cambiando luce, proprio come era accaduto a
Germano. Decisi di distoglierlo da quella questione che pareva averlo
infastidito oltre misura. Dissi:
“È stato…È stato un incidente? Al suo braccio voglio dire. Sono
indiscreto a chiederglielo?”
La sua faccia divenne ancor più lunga di quello che già era. Mi resi
conto che non avrei potuto scegliere argomento peggiore. Soprattutto se
considerato che era stato proprio uno dei motivi che aveva fatto andar
fuori di testa suo fratello.
“Sì, lei è molto indiscreto.”
“Mi scusi.” Mi affrettai ad aggiungere.
“Volevo solo scambiare qualche parola.”
“Già, lo supponevo infatti.” Disse Augusto.
Stavo nuovamente scivolando verso una posizione d’inferiorità. Si
guardò il moncherino. Disse:
“É stato in guerra. Ho ricevuto un’importante onorificenza militare
per questo.”
“Dannato cacciaballe!” Pensai innervosito.
Non riuscii a resistere alla tentazione.
“Ma come? Abbia pazienza. Lei durante la seconda guerra era sì e no un
bambino in fasce esattamente come lo ero io.”
I suoi occhi brillarono. Brillavano più dei suoi bottoni dorati, che
facevano bella mostra su quel petto che si stava gonfiando di rabbia.
“E chi ha parlato della seconda guerra?!”
Lasciai cadere la forchetta sul piatto. Dissi:
“Ma allora a quale guerra si riferisce?”
Lui di rimando:
“Lei è sempre così maledettamente curioso?!”
Era evidente che dovevo rallentare. Dissi:
“No, non sono curioso. Glielo avevo detto che volevo solo scambiare
qualche parola.”
Oramai era a ridosso del tavolo. Capivo chiaramente che tratteneva la
collera a stento. Disse:
“E io glielo avevo detto che gli stranieri sono pregati di mantenersi
entro i limiti della discrezione! O no?!”
Risposi:
“Sì, lei me lo aveva detto. Era stato chiaro.”
Piantò le nocche della sua grande mano sul tavolo.
“E perché allora continua a oltrepassare quel limite?”
Dissi:
“Io…Io non lo so.”
Lui continuò la sua carica.
“Glielo dico io il perché! Per una mancanza cronica di disciplina! Ecco
perché!”
“Sì, deve essere per quel motivo.” Risposi fissando i suoi bottoni
dorati.
Mi allungai incredulo verso il centro della tavola: i bottoni
riportavano le insegne del settimo cavalleggeri.
“E adesso?” Dissi con un filo di voce.
“E adesso, se vuole farmi ritornare di buon umore, mi chieda perdono
per la sua insolenza. Subito!”
La mia paura cresceva unitamente alla rabbia. Una combinazione di
sentimenti che non avevo mai provato prima. E che non avevo idea di dove
potesse condurmi. Mi alzai in piedi. E feci alzare in piedi anche tutto
il mio coraggio. Per qualche istante prevalse la rabbia. In quel
frangente feci una scelta precisa: decisi che non mi sarei fatto mettere i
piedi in testa un’altra volta. Mi avvicinai all’uomo senza braccio. Usai
un tono umile. Non volevo insospettirlo.
“Mi dica Augusto: c’è qualche formula particolare con la quale
desidera che le presenti le mie scuse?”
Si comportò esattamente come mi aspettavo: ghignò felice dondolandosi
sui piedi, per la vittoria ottenuta. Disse:
“Mi piacerebbe vederla in ginocchio.”
Gli mollai una sberla così forte che lo scaraventai a terra.
“Bastardo di un monco!”
Era steso su un fianco. Singhiozzava dicendo:
“Vigliacco, vigliacco. Prendersela con un disabile è da codardi. Ti
senti un grand’uomo ora che mi hai picchiato?”
“Non farla tanto lunga! Ti ho dato quello che meritavi!” Dissi con
voce ferma.
Però in realtà, scaricata la rabbia, non mi sentivo molto fiero di ciò
che avevo fatto. Mi diressi verso la sala di accettazione. Mi voltai
un’ultima volta a guardarlo. Lui era là sul pavimento e continuava a
piagnucolare. Varcai la porta con l’intenzione di andare a prendere la mia
valigia e andarmene. Presi il corridoio che conduceva ai piani
superiori. Nella penombra vidi un bambino che stava venendo nella mia
direzione. Era di spalle e trascinava una grossa valigia dalla forma
inequivocabile: era la mia valigia.
“Ehi! Ragazzino! Metti giù quella valigia.”
Quello si voltò. Lo osservai bene e mi corressi.
“Dannato nano! Metti giù quella valigia!”
Lui rimase ancorato al mio bagaglio. Disse:
“Io eseguo solo degli ordini.”
Lo afferrai per le braccia.
“Gli ordini di chi?”
“Gli ordini del signor Germano. Mi lasci! Mi sta facendo male!”
Strinsi le mie mani ancora più forte.
“Dov’è quel monco maledetto?!”
Il nano soffriva. La sua faccia non lasciava dubbi in proposito.
“Il signor Germano è fuori che mi aspetta sul furgone.”
“Mollala!” Dissi rabbiosamente.
“No! Il signor Germano mi punirà severamente se non esco con la
refurtiva!”
Strinsi le sue braccia così forte che mi fecero male le mani.
“La refurtiva?! Razza di bastardi!”
Ero inferocito. Sollevai nano e valigia insieme e mi avviai verso
l’uscita. Il furgone era posteggiato ad una ventina di metri dall’albergo.
La piazza, tanto per cambiare, era vuota. Il nano si mise a strillare.
“Signor Germano! Signor Germano! Mi aiuti la prego! Lo straniero vuole
farmi del male!”
Germano scese dall’abitacolo. Pareva tranquillo. Disse:
“Alvaro, lascia pure la valigia del signore. Finisci di caricare i
quadri piuttosto.”
Finalmente il nano mollò la presa e si mise in disparte. Gridai con
tutto il fiato:
“Ma che diavolo state combinando!? Voglio delle spiegazioni!”
Germano mi venne incontro. Si fermò a un paio di metri e disse:
“Non credo di dovergliene, signore.”
“Io penso proprio di sì invece!” Replicai rabbiosamente.
“Visto che questo schifoso nano stava per fregarmi la valigia!”
Alvaro fu percorso da un fremito. Molto coraggiosamente si posizionò
di fronte a me. Mi arrivava appena alla cintola. Disse:
“Ritira quello che hai detto!”
Lo guardai in faccia. Caricai la mia voce con tutto il disprezzo
possibile.
“Stammi a sentire nano di merda! Ho appena finito di picchiare quel
monco del cazzo là dentro! Levati di torno o ti do una ginocchiata in
faccia che ti faccio uscire il naso dal culo!”
Alvaro mi afferrò per le natiche, e mi sferrò con la testa un colpo
tremendo ai genitali. Caddi piegato in due dal dolore. E dalla
vergogna. Era stato piuttosto umiliante farsi prendere a testate nelle palle da
un nano. Il piccoletto mi saltellava attorno fintando di sinistro e di
destro, con scarti improvvisi del busto e incitandomi a rialzarmi.
“Fermo Alvaro! Basta così! Ti ho detto di caricare i quadri sul
furgone!” Disse perentorio Germano.
“Vuoi forse farmi arrabbiare?! Vuoi costringermi a riportarti al circo
dal quale sei fuggito? Eh?!”
“No signor Germano. Farò quanto mi ha ordinato. Ma non si arrabbi, la
prego.”
Il monco portò i piedi vicino alla mia faccia. Disse:
“Si alzi, e si comporti da uomo una buona volta.”
Provavo ancora molto dolore, là steso sull’asfalto. Dissi:
“Che vuol dire? Che significa?”
“Cosa significa? Glielo spiego subito. Lei stesso ha detto di aver
picchiato mio fratello. E non ancora soddisfatto voleva picchiare anche
Alvaro. Non si vergogna? Perché non se la prende con quelli della sua
taglia?”
Risposi:
“Augusto si stava comportando veramente male. E quel tipo, Alvaro,
voleva fregarmi la valigia. Avevano entrambi bisogno di una bella lezione.
E anche tu ne meriteresti una.”
Mi tese il braccio. Lo afferrai e mi rialzai in piedi. Il monco mi
guardò negli occhi. Disse:
“Prenda la sua auto e se ne vada. Non c’è alcun motivo per il quale
deva rimanere.”
“Sì, sì me ne andrò immediatamente. Però, prima, mi devi delle
spiegazioni su quella storia dei quadri. Credo di averne diritto.”
Mosse un paio di passi.
“Lei è un osso duro, eh? D’accordo. E per via dell’assicurazione. Lei
è un uomo d’affari. Capisce di cosa parlo, vero?”
“Vuoi dire che frodate le assicurazioni? Inscenate dei furti a questo
scopo?”
“Frodare è una brutta parola.” Fece lui di rimando. “Io preferisco
dire che usiamo qualche piccolo trucco per mandare avanti l’albergo.”
“Bel modo di tirare avanti!” Ribattei. “Fregando le assicurazioni e
derubando i malcapitati che hanno la sfortuna di passare di qui. Davvero
molto elegante. Complimenti!”
I suoi occhi divennero due feritoie. Sapevo per esperienza che si
sarebbero spalancati all’improvviso.
“Maledizione! Un’altra volta!” Pensai. “Eccolo che rincomincia!”
“Una volta non eravamo costretti a questi sotterfugi! Una volta questo
hotel pullulava di clienti facoltosi pronti a spendere a piene mani i
loro denari! Uomini e donne straordinari!”
Mi affrettai a gettare acqua sul fuoco.
“Lo so. Lo so. Prima mi aveva già accennato questo discorso.”
“Lei non mi crede, vero?”
“Sì, le credo. Ora voglio solamente andarmene.” Risposi
rispettosamente.
Udii Alvaro ridacchiare. Mi voltai e lo vidi sull’ingresso assieme ad
Augusto. Parlottavano tra di loro. Nonostante la scarsa luce notai che
il piccoletto era tutto sporco. Germano mi richiamò.
“Sarà meglio che vada.”
Pareva più tranquillo. Dissi:
“E così è tutto sistemato. Non è vero? Ti senti con la coscienza a
posto. Non è così?”
“No, ora non mi sento affatto la coscienza a posto. Ma tra un paio
d’ore andrò là. La vede? Quella è la nostra chiesa. Mi confesserò e il don
mi darà l’assoluzione. Allora, e solo allora, la mia coscienza sarà a
posto.”
Dissi:
“Ora si spiega perché la chiesa è aperta tutta la notte. Il vostro
prete è costretto a fare gli straordinari.” Conclusi mestamente.
“La pensi come meglio crede.” Concluse Germano.
Augusto nel frattempo aveva sprangato la porta dell’albergo ed era
salito sul furgone assieme al nano. Anche Germano li raggiunse. Rimasi lì
a guardarli pensando:
“Cazzo! E adesso chi guida tra quei tre disgraziati?”
Germano si portò al posto di guida. Alvaro si sedette sulle sue
ginocchia. Lui teneva il volante e il cambio, mentre il monco usava i pedali.
Partirono. La mia auto fino a quel momento era rimasta nascosta dalla
sagoma del furgone. Ora la vedevo bene, e capii per quale motivo alcuni
minuti prima il nano era divenuto tutto sporco e ridacchiava assieme al
monco che avevo schiaffeggiato. Il tappo, infatti, era stato
lestissimo: gli erano bastati solo pochi istanti per fregarmi le ruote.

© Giovanni Manea





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