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Sembrava vero, ma non lo era, l'uomo che spingeva il carrello della spesa giù lungo Via Mameli, in quel giorno di pioggia.Si trascinava dietro tutta la sua mercanzia, quattro stracci in due maleodoranti sacchetti per la spesa, ma il suo portamento era austero.Lo seguivo, da lontano, per timore di farmi vedere. Ero pavido, quando la gente mi rivolgeva la parola, balbettavo e fuggivo via. Non ero stato sempre così. Il mio comportamento era cambiato, dalla morte di mio padre, avevo paura anche delle ombre, pur sapendo che nessuno poteva farmi del male, non nella mia tranquilla cittadina. Avevo visto quell'uomo andando a scuola,passandogli accanto avevo scorto il suo sorriso, trattenuto solo negli occhi. Sembrava strano, in un panorama dov'era difficile che un barbone resistesse per più di due giorni. Era strano, viste le poche possibilità di raggranellare qualcosa. Il paese era piccolo e la gente si guardava bene dal dare confidenza ad un estraneo che poteva rivelarsi in meno di un minuto un assassino, o un personaggio affetto da qualche malattia contagiosa. Ma i giorni si susseguivano in un mutamento di stagioni, che vedevano sempre il medesimo uomo alla fermata dell'autobus, o a rovistare nei cassonetti dell'immondizia, sempre a caccia di qualcosa che, dubitavo esistesse davvero. La prima volta che vidi quell'uomo più da vicino fu al funerale di mio padre, al cimitero, in disparte, lontano da tutti gli altri. Notai che nessuno si girava dalla sua parte, quasi fosse trasparente. In quell'occasione incontrai il suo sguardo e mi sembrò il più dolce che avessi mai visto, nei suoi occhi mi persi, anche se eravamo lontani. Mi fece dimenticare dove mi trovavo e la tristezza di quel luogo. A quel tempo avevo nove anni, ne avrei avuti dieci giusto a Natale, quando la mancanza di mio padre sarebbe stata ancora più evidente. Sarebbe stato un Natale diverso, io e mia madre a pranzare ad un tavolo che aveva perso il suo miglior commensale. Cominciai a vederlo lungo la strada che mi portava a scuola, l'indomani del funerale, non avrei voluto andarci, non credevo di voler vedere gli sguardi pieni di pietà dei miei compagni, ma non volevo mettermi a litigare con mia madre, come facevamo sempre. Dopo il funerale, né una carezza, né uno sguardo pieno di dolcezza, ma solo l'incitamento che dovevo tornare a scuola perché lei aveva bisogno di starsene un po' da sola, a leccarsi le ferite. E le mie di ferite? Se lo era mai chiesto? Avrei voluto dirle che in due le disgrazie si sopportano meglio, che le volevo bene, nonostante fosse scostante, che le sarei stato vicino, ma anche a nove anni capivo dal suo sguardo che sarebbe stato tutto inutile, fiato sprecato. Così, quel primo giorno dopo il funerale, finii per uscire da casa senza lamentarmi. E lui era là, nelle sue grandi scarpe nere, nel cappotto marrone, nei suoi panni spiegazzati appartenuti chissà a chi. Ce la farai! - Mi disse, quando gli passai accanto. Lo guardai senza capire, o forse qualcosa riuscivo ad afferrare, anche a quell'età. Andrai avanti anche senza di lui! - Finì di dire prima di allontanarsi, spingendo il suo carrello della spesa. Rimasi per un attimo inebetito, a pensare a quanto mi era capitato tutto in un secondo, il gravissimo incidente, la notizia al telefono, il pianto di mia madre. Ma ero stato io a riportare la perdita peggiore perché in un certo senso mio padre era stato mio più che di mia madre. A volte ci ritrovavamo a chiacchierare fino a notte fonda. E a volte, senza dire una sola parola, eravamo uniti da un legame che non aveva bisogna d'altro se non che dei nostri respiri, dei pensieri che si intersecavano sulle nostre menti. Mia madre non poteva capire, per lei contavano i soldi più dei sentimenti. Lo so, in quel momento non pensava all'aver perso una persona cara, ma al fatto sconveniente di doversi tirare su le maniche ancora una volta, per cominciare a sgobbare. Come quando, prima di sposarsi, era costretta a lavorare nel bar sotto casa, per potersi mantenere con una parvenza che rasentava l'indigenza. Forse il guaio era che nei primi anni della sua vita, quelli più importanti, non avesse conosciuto l'amore. Quando incontrò mio padre, credo che l'abbia sposato per convenienza, a quel punto aveva perso di vista i sentimenti.Ritenevo, e non a torto, che ormai fosse troppo tardi.Quando mi voltai a cercarlo era scomparso, come inghiottito dalla terra. Un passo dopo un altro mi portò a scuola. - Ce la farai anche senza di lui! - Era questo ciò che mi rimbombava in testa.Cosa ne sapeva un estraneo dei miei sentimenti, cosa sapeva di me? Eppure, il suo pensiero bastò a farmi superare quel primo giorno della mia nuova vita. Una vita diversa, immaginavo come avrei dovuto scontrarmi ancora con la tizia che mi aveva generato e avrei dovuto tenere il becco chiuso, come si esprimeva lei. Come gli anni a venire sarebbero stati duri, difficili da inghiottire. La maestra mi chiamò alla lavagna come se dovesse interrogarmi e parte delle mie paure si dissolsero, facendomi sentire più forte, non più solo. In un colpo mi si era riversato addosso l'affetto di venticinque persone.Vieni - mi disse e io lo feci come sulla scia di un sogno. Mi cinse le spalle con un braccio - vedete ragazzi, il vostro compagno Italo ha bisogno di tutta la nostra comprensione se, il suo comportamento dovesse subire qualche mutamento, lo so per esperienza, ci sono passata anch'io. Ma ce la farai, ragazzo mio! - Finì rivolta a me. Ancora quella frase e a volte non ci vuole altro per scuoterti, una parola che non costa niente a chi la dice, se chi la pronuncia ha il cuore pulito da ogni ipocrisia. Io sapevo che quell'uomo là fuori lo era, lo era la maestra che avevo conosciuto dalla prima elementare, lo erano quasi tutti i miei compagni, tranne un paio che come granelli di pepe si trovano in ogni istituto. Riuscii a sorridere a quella figura materna che avrei voluto sostituire a quella che avevo lasciato a casa.Ma non potevo. Non avrei potuto, perché le restavano tre mesi di vita e io per primo soffrii alla sgradita notizia che appresi di lì a poco. Uscii da scuola, speranzoso che potesse esserci ancora qualcosa di buono nella vita, ma come acqua gelata mi scontrai ancora una volta con la dura realtà.C'era la tua vecchia maestra? - Chiese mia madre alritorno. Aveva gli occhi arrossati, ma dubito che fosse per le lacrime. I miei occhi asciutti andarono invece al posacenere pieno di cicche situato sul tavolo.Sì - risposi, senza tradire i miei sentimenti che erano quasi di odio, perché lei era sopravvissuta a mio padre.Ci sarà ancora per poco - disse, mentre io la guardavo interrogativamente, senza ricevere ragguagli.Si trasferisce in qualche altra scuola, ma perché? Non ha detto niente durante le lezioni.Sta per timbrare il cartellino d'uscita finale, lei non lo sa ancora ma le rimangono tre mesi di vita, ne parla tutto il paese. La notizia sarà sfuggita a qualche infermiera pettegola giù all'ospedale, quando è stata male. Ero corso nella mia camera senza gridarle che era una bugiarda, che lo stava facendo per ferirmi. Perché in cuor mio sapevo che stava dicendo la verità. Quel giorno saltai il pranzo e quando, verso le cinque, uscii per prendermi qualcosa in cucina, mia madre non c'era. Addentai una mela che stava nel frigo da sempre, infatti il suo aspetto non era dei migliori, raggrinzita e opaca ma dolcissima. Mi resi conto in quel momento, con la mia mente di bambino, ma proiettato verso la maturità, che arriva sempre dopo una disgrazia, che quasi sempre le apparenze ci ingannano, che non basta fermarsi a quelle per giudicare una persona.... Fu così che ripensai all'uomo per la strada, quello che sapeva le cose e mi attaccai a un barlume di speranza. Lo cercai per tutto il pomeriggio, già paventando l'idea che avesse lasciato la città. Ma verso sera, quando avevo abbandonato le speranze, lo vidi ai giardini. Era già buio da un pezzo e avevo paura ad addentrarmi dove si potevano fare ogni sorta di incontri, coppiette di innamorati, spacciatori in caccia di rintronati, vecchi barboni senza scrupoli. Ma la mia rabbia superava di gran lunga la paura, la superava e andava ad aspettarla su un altro binario. In un'altra epoca.Ciao, ragazzo! - Disse l'uomo per niente meravigliato che io mi trovassi lì.Ciao! - Risposi - la mia maestra sta morendo - dissi senza aspettare oltre.Lo so - e non mi meravigliai di quella risposta.Non voglio che muoia - dissi d'un fiato. Mi guardò e una solitaria lacrima si lanciò dal trampolino dei suoi occhi per precipitarsi a terra, dove scomparve tra la sporcizia generale, mentre lui era chino a sistemare i suoi sacchetti pieni di oggetti. Tante volte mi ero chiesto cosa contenessero in realtà e avevo avuto paura, in cuor mio, di conoscere la verità. Le voglio bene - continuai - più che a mia madre. Forse è un peccato, non so, ma non m'importa niente. Stavo dicendo tutto io, l'uomo non si era pronunciato, cosa mi era saltato in testa di chiedergli aiuto, se di aiuto ne aveva bisogno lui! Non aveva una casa. Perché avrebbe dormito su una panchina ai giardini, o lungo il marciapiedi del supermercato? Mi ero sbagliato sul suo conto, cosa mi era saltato in testa? Ma non finii di pensare a questo che si issò in piedi - vieni - disse conducendomi verso una panchina. E già questo avrebbe dovuto mettermi in allarme - vediamo se si può ancora rimediare.Da quello che successe poi, posso dire che a quel punto eravamo ancora in tempo, ma dovevamo sbrigarci. Dovevamo agire quella notte stessa.Come?- Quasi urlai dalla sorpresa. C'è sempre un modo - disse - basta crederci. E io ci credetti ciecamente. Adesso a distanza di anni, sono nel pieno della maturità, so di cosa parlasse veramente. Stava parlando di speranza, quella che non muore mai. Ci ritrovammo in chiesa, io e lui da soli, le mani giunte, inginocchiati davanti l'altare maggiore, quello della Vergine Maria. Credo che facemmo la cosa più semplice del mondo, l'unica.Pregammo. E fu come in sogno. Era l'alba quando con le ginocchia doloranti, infreddolito e stanco, mi resi conto che avevo trascorso la notte in chiesa. Ed ero solo. Mi feci il segno della croce e uscii. Un raggio di sole stava illuminando il tetto della chiesa, mentre tutto il resto era ancora in penombra. Le mie labbra furono percorse da un sorriso, ma neanche me ne accorsi, se non quando mi strofinai gli occhi e il viso e sentii sotto le dita le labbra tirate. Tornai a casa, mia madre era già andata al lavoro. Mi ficcai sotto la doccia e strofinai ogni centimetro di pelle, come per rendermi conto che non stessi ancora sognando. Uscii in una nube di vapore mentre stavo fischiettando. Alle otto mi recai a scuola con lo zaino più leggero che avessi mai avuto. Entrai in classe e trovai la supplente che aveva sostituito la mia maestra le due settimane che era stata in ospedale.Rimasi deluso.Ma quella fiammella, che quella notte era arsa in fondo al mio cuore, non si era ancora spenta.Dov'è la signora Mafalda? - La mia domanda era legittima.E' dovuta correre nuovamente in ospedale - mi disse, senza adirarsi per il mio tono - sembra che ci sia stato un errore nella lettura delle sue analisi, deve rimanere qualche giorno per ripetere tutta la procedura, i medici non si capacitano della cosa, era tutto fin troppo chiaro.Lo so - risposi e me ne tornai al banco. Aspettai qualche giorno, prima di andarla a trovare in ospedale, e quando lo feci entrai nella sua stanza in punta di piedi, avendo paura di svegliarla.Entra caro - mi salutò la mia cara maestra - entra! Sono felice di vederti per darti una grande notizia. Gli esami erano sbagliati, i medici pensano che sia avvenuto un miracolo perché non è possibile spiegarsi la cosa. Ci abbracciammo, lei in camicia da notte e io con un raggio di sole che mi illuminava gli occhi pieni di lacrime. Sono felice! - Le dissi.Uscii dall'ospedale con il cuore più leggero. Adesso c'era solo una tappa nella mia corsa verso casa. Tornai ai giardini cercando quell'uomo, guardando in ogni angolo. Ma non lo trovai. C'erano invece due persone anziane, con le borse della spesa, sedute su quella panchina.Avete visto un uomo alto, con un carrello della spesa?- Chiesi - Occupava sempre questa panchina, i suoi cartoni sono ancora lì - dissi indicando un punto verso un grande pino.Ragazzino, stai parlando di un barbone? Qua non c'è mai stata gente simile, stiamo occupando questa panchina come facciamo ogni giorno.Mi allontanai senza ascoltare il resto - un barbone! Ci mancano solo loro!Ero felice, ma tornai a casa con l'amaro in bocca. Quando misi piede in cucina trovai mia madre, le diedi un bacio -nella tua stanza c' èun pacco, non ho avuto neanche il tempo di darci un'occhiata. - Mi disse. Corsi a vedere, sul mio lettino una scatola di cartone con il mio nome e indirizzo. Aprii il pacco in modo febbrile. All'interno c'era un sacchetto della spesa, di quelli marroncini, ci guardai dentro e capii di non essere diventato matto. Dentro c'erano decine e decine di biglie colorate, credo che si avvicinassero al centinaio, forse erano più di cento. Il sacchetto pesava parecchio e avevo paura di romperlo, lasciando cadere il contenuto. Ficcai la mano dentro, facendola andare proprio in fondo. Non so perché, ma fu come un'ispirazione. E qualcosa c'era. Una busta bianca. La soppesai tra le mani prima di aprirla. Sembrava leggera come una piuma. L'aprii. E tolsi il biglietto avvicinandomelo agli occhi. Poche parole in una calligrafia decisa e ben chiara. - Questi sono gli anni che ti restano ancora da vivere. Conservo ancora quel sacchetto, come una sacra reliquia. Non ho mai contato le biglie, non ne ho mai avuto il coraggio, ma erano tante, troppe forse. Ho trascorso ormai più della metà della mia vita e credo che quelle biglie siano davvero tante per un solo uomo.
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Anna La Rosa
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