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Il clostridio sui Pirenei
La camera dava sul vicolo, di fronte ad una porta a vetri sempre chiusa, dove due cartellini biancastri, sospesi in fretta col nastro adesivo, promettevano imprecisati panini greci e più chiaramente definibili crêpes alla Nutella.
Da molto tempo, Marco collegava lo spirito e la natura delle città che visitava al rumore notturno dei suoi passi sul selciato: qui si trovava in un mondo piccolo e limitato, dove le distanze, amplificate dalla scala innaturalmente grande della mappa che gli avevano fornito, si traducevano puntualmente in tragitti non eccedenti i dieci minuti di cammino.
Solo qualche anno prima, in una situazione del genere, si sarebbe affidato al proprio passo, e intento e veloce avrebbe percorso la città da un capo all’altro, quasi per dimostrarne ad abundantiam la piccolezza: stavolta si era limitato a perdersi in una serie di calcoli, allo scopo, evidentemente inutile, di rivelare che la valigia con cui era arrivato la notte prima lo aveva rallentato di un buon 20%.
Le valigie sono sempre troppo pesanti, per quel che c’è dentro. Anche le presentazioni alle conferenze o alle riunioni sono sempre troppo lunghe per quello che ambiscono dire. Anche se non si vorrebbe. Anche se si cerca di tenersi economici, bruciando per strada, revisione dopo revisione, tre o quattro immagini e di conseguenza un bel po' di testo. Rimane sempre abbastanza corda per appendersi al telone col filo del proiettore, ed avvolgersi nella trasmissione del proprio concettoso discorso.
Marco non aveva voglia di trasmettere alcunché, in una cittadina sonnolenta e un po’ diffidente come quella: sapeva quel che doveva dire, era sicuro delle domande che gli avrebbero fatto; doveva essere una formalità. Aspettava solo di riprendere il viaggio a ritroso, e ritrovarsi a casa, al sicuro.
Aveva un omonimo, lo aveva scoperto in rete, che insegnava una materia completamente diversa, roba d’economia, da qualche parte della Francia profonda, poco lontano insomma da dove si trovava. Marco invece non insegnava che occasionalmente, era un ricercatore, si era occupato per lungo tempo di fatica dei materiali, insomma di quel che succede alla sedia dove per anni e anni ci siamo ondeggiati avanti e indietro, come fanno i tipici ripetenti che tirano i pallini di carta con la cerbottana dal fondo dell’aula. Ora studiava principalmente modelli di comportamento al calcolatore. Elementi finiti, per essere un po’ tecnici.
La modellistica è una scienza interessante, sarebbe come se una ragazza che ci piace, invece di accettare un invito a cena, ci inviasse una simulazione di quello che presumibilmente succederebbe se andassimo con lei in un ristorante alla moda. Roba da farti passare tutta la voglia di uscirci. Chiaramente, nei modelli matematici sui materiali come anche nel caso dell’invito alla ragazza, essendo molte le incognite, ci si tiene molto prudenti: per cui, sia che l’invito al ristorante abbia un seguito sia che non lo abbia, i conti comunque tornano: questo può non essere vero nella vita, ma nei modelli sì. Si dice che si calcolano diversi scenari. Anche se la ragazza ci molla per un altro, va bene; è uno dei tanti scenari possibili, e sapere che le equazioni differenziali ci concedono, con generose condizioni al contorno, di poter anche restare soli per la strada mentre piove, anzi grandina, può esserci di sicura consolazione: visto da quest'angolazione, e scientificamente, l’insuccesso brucia meno.
Quella notte era stata tranquilla per Marco: non nel senso che avesse fatto un unico sonno, si era svegliato tre o quattro volte, ma si era subito riaddormentato, il che rappresentava una (relativa) soddisfazione per lui, perché di solito bastava lo scorrere dell’acqua in una camera anche lontana per destarlo di soprassalto. Lo scossero definitivamente dall’ultimo assopimento i clangori del ritiro della spazzatura: accese il cellulare, erano le sei e mezza, quasi l'alba. Afferrò lo stampato dell’albergo e lesse: “Petit dejeuner de sept à neuf”. Benissimo allora, giusto il tempo per rendersi dignitoso, tanto più che la segretaria del dipartimento l’aveva, all’uso italiano, prenotato come “Dr. Bonfini”, cosa che in Inghilterra od in Germania poteva anche andare, ma che in Francia l’avrebbe investito di un’aura immeritata e magari un po’ invidiosa. A meno che non l’avessero definitivamente scambiato per un medico, cosa che non poteva mancare di farlo un po’ sorridere. Ipocondriaco va bene, ma addirittura medico... Comunque aveva bisogno di una buona colazione, quindi quel piccolo sforzo di lavarsi e vestirsi decentemente valeva la pena di farlo. Marco conservava nell'animo un lieve brusio anarcoide, che gli consentiva di non appiattirsi sulle posizioni più abusate, ma che d’altro canto, restando sotterraneo, gli permetteva pure di essere presentabile ove richiesto, il che era in fondo la maggior differenza tra lui, il Dr. Bonfini, e quelli che dormono per strada e vivono di espedienti. L'università non è più di un espediente di lusso per non crescere mai, sperando che l'invecchiamento si dimentichi di noi, quando le tracce della dissipazione finale (o iniziale, a seconda del nostro credo filosofico) cominceranno ad affiorare nei coetanei.
La colazione gli sembrò divina, per un due stelle: la baguette calda, che si spaccava a mezzo come esplodendo di frammenti di crosta, il cornetto croccante e non invece molliccio, come spesso lo trovava, ed il caffelatte che gli tolse in poche sorsate quell’apparenza pesta e sperduta, riuscendo dove anche la doccia calda sembrava aver fallito. Si alzò da tavola, pronto per la sua giornata.
Uscì nel piccolo atrio dell’albergo, proprio mentre vi entrava una signora affannata e zoppicante con un enorme cane dal pelo lungo, di cui Marco ebbe istintivamente ed irragionevolmente paura, arcuandosi all’indietro. Cercando un appiglio, si mise una mano in tasca, ed avvertì un dolore forte, da urlare: sentì il sangue scorrere tra le sue dita. Risalì in camera, mentre la signora col cane si sedeva al piccolo bar, ordinando un caffé: il cane, come non ci si sarebbe attesi, data la sua mole, si acciambellò docilmente e sveltamente in un angoletto.
Sotto il getto dell’acqua, il sanguinamento parve gradatamente arrestarsi, poi riprese violento: Marco si diede ad ispezionare la ferita. Un buchetto profondo e netto nel dito medio della mano destra, più curioso che preoccupante a vedersi: era difficile credere che tanto sangue potesse uscirne. Restava da capire il perché della ferita: non capita spesso, per fortuna, di mettersi la mano nella tasca dei pantaloni e di ritirarla gonfia e dolorante come se l’avesse morsa un furetto.
Immerse l’altra mano in tasca, stavolta prudentemente e lentamente, e ne estrasse uno strano oggetto, un bullone saldato con una piccola fune d’acciaio, totalmente arrugginita, che terminava in un singolo filo, che come constatò, era acuminato e pungente.
Marco stava cercando di salvare dalla ruggine e dall’oblio la sua bici, che giaceva in apparente abbandono in un angolo del cortile, semplicemente perché non aveva spazio per tenerla in casa. In una delle ultime uscite che aveva fatto, il filo del freno lo aveva mollato alla prima curva, o forse alla seconda, e lentamente, anche se non senza rabbia, si era avviato dal ciclista, quello che aveva un enorme bibendum di traverso, che pendeva grassoccio sopra metà del marciapiede. Si era messo il moncone di filo in tasca, disperando di riuscire a spiegargli il guasto, senza un “campione”. Il ciclista era un personaggio strano, capace di forti idiosincrasie per i forestieri, anche di odio, se necessario: un forte sentimento che non serve a nulla e non porta a niente, che non si apre mai ad alcunché di diverso. Aveva una serie di foto ingiallite appese tutt'intorno, c'erano Coppi e Bartali e la famosa borraccia a metà strada tra i due, c'era Beppe Saronni, e meno antico, ma già prossimo a svanire dietro una montagna di copertoni bicolori, il Pirata con la maglia gialla.
"Ah, ha rotto il cavo del freno" esclamò quello, senza simpatia e grattandosi la pelata, a Marco che brandiva il moncone come uno stiletto "Ma ora non ho tempo di lavorarci, non se ne parla. Se mi lascia la bici e ripassa domani, vediamo se posso farlo" e poi, quasi per troncare ogni possibile speranza: "Però non gliel'assicuro! Sta ricominciando la stagione delle corse, qui tutti vogliono qualcosa, e siamo soli in officina, io e mio figlio", figlio cui doveva appartenere quella schiena china su un telaio azzurro che s'intravvedeva di là dalla porta, semiaperta appena dietro il bancone.
Marco, mortificato suo malgrado di non essere dello stesso paese del ciclista, intascò ancora una volta il trefolo d'acciaio ossidato, e lo lasciò in compagnia delle sue foto d'epoca. Ci ripensava, mentre l'acqua scorreva ormai da tempo nel piccolo lavandino, giusto per un due stelle appunto, tratto tratto innervata di sottili stille rosse. Si fermò per aspettare che coagulasse: sarebbe bastato uno, forse due minuti, come quando, per risparmiare, con quella solita economia fessa che trasuda un'ingenuità un po' da studente, si radeva con le monolama, quelle che farebbero sanguinare anche una zucchina. Passò un minuto, ne passarono due, ma il buchetto seguitava a zampillare rosso come un geyser in calore. Marco s’innervosì, si agitò, poi gli venne in mente che se si faceva salire la pressione, sarebbe logicamente uscito ancora più sangue. Frugò con la sinistra nella valigia, mentre teneva la destra in alto in un gesto volgare, e tirò fuori un grosso batuffolo di ovatta, che gli doveva servire da tappo per le orecchie, faute de mieux. Lo premette, lo strinse, agitò il dito che divenne violaceo, ma alla fine il sanguinamento si fermò. Passò il seguente minuto a rimuovere fibrille di cotone dal bordo della ferita, poi cadde sul letto e, vestito com'era, si assopì. Pensò solo, confusamente, che il congresso non sarebbe iniziato che nel pomeriggio col consueto bla bla delle autorità. Poi per associazione d'idee, passò al gusto del sangue, all'emoglobina, al ferro, al cavo del freno appuntito. "Ruggine" gli suggerì una voce. Sognò: stringeva ancora l'osceno moncone, corroso, quasi mangiato dall'umidità, con due dita, ma era in bicicletta su una salita impervia, cercava di reggersi a qualche passante, di aggrapparsi ad uno sparuto lampione, ad un palo del telefono, come se fosse stato Tom Simpson sul mont Ventoux: doveva essersi drogato, le gambe erano di flanella, e la bici non era più solida, sciacquava sulla strada, come se il telaio fosse diventato di cartone, e questo si fosse imbibito fino a disfarsi in briciole, quasi a stamparsi sul brecciolino.
Era chiaro che non aveva valutato bene le distanze, come l'inglese per effetto del doping aveva affrontato troppo forte la salita. Rovinò a terra, ma quel che lo colpì fu che non sentiva dolore in nessuna parte del corpo, fuorché al dito medio, che però non sembrava nemmeno aver toccato la strada. Avvertiva bensì una difficoltà a respirare, e la bocca gli era rimasta semiaperta, in uno spasmo che vide come al rallentatore. Non riusciva a parlare, ma nel pensiero delle parole gli vennero dinanzi, come fossero state illuminate a giorno. "Clostridio", diceva l'insegna, "facies" ne diceva un'altra più piccola, color giallo opaco, finché tutto quel che c'era intorno, la gente, la strada, le bici, l'auto ammiraglia, gli corse incontro e lo soffocò: Marco balzò a sedere sul letto.
"Il tetano!" esclamò, con voce impastata. Che fare? Cercare un medico…Un medico. Sciocchezze…Nel XXI secolo! Doveva trovare un punto Internet.
Dietro la sua postazione c'erano quattro senegalesi che discutevano a voce alta, forse litigavano, in un francese che gli veniva difficile capire, le cui parole più frequenti sembravano "ménant", adesso, e "sénegalais", il che indicava forse che la discussione poteva essere politica, ma Marco riusciva, non sapeva bene come, a restar concentrato sul suo problema.
La prima cosa che gli era venuta in mente era quel che diceva il Dizionario Enciclopedico Treccani, prima che i suoi dovessero restituirlo e cambiarlo con la Treccanina nuova, aggiornata, ma totalmente priva del fascino delle cose antiche. C'erano frasi forbite, ma nondimeno brutali come "Circa il 50% dei casi di tetano risulta fatale" e "La prevenzione del tetano passa per l'immunizzazione, più che per la profilassi", ma anche "Esiste anche una variante cronica". Non aveva nessuna voglia di diventare cronico, ma sempre meglio che rimanerci secco. Certo, tutto questo veniva scritto a metà degli anni '50, la voce "Tetano" era nell'ultimo volume TAU-Z, quindi ben addentro il dopoguerra, ma quanto potevano esser cambiate le cose in mezzo secolo?
Nella pagina di fianco, dalle parti di TE.TI., Telefonica Tirrena, e di Teti, la nutrice che sposò Peleo, la tenebra (e generò Achille piè veloce), c'era la sua foto, ingrandita varie migliaia di volte: il clostridio, con tanto di codetta, sembrava una padella col manico spezzato. Tra i nove ed i quattordici anni aveva atteso almeno una trentina di volte che gli si bloccasse la mandibola, in uno spasmo che l'avrebbe condotta alla frattura, il che sarebbe stato solo un preludio alla morte per asfissia. Le cause potevano essere diverse, la spina di una rosa, una minuscola scheggia di legno in un piede, l'ago naturalmente (nelle migliori tradizioni favolistiche), la taglierina di applicazioni tecniche, ma l'attesa era sempre la stessa: l'incubazione, a quel che tutti dicevano (e la Treccani -ahilei- non smentiva), durava meno di un giorno. Invariabilmente, dopo circa un giorno ed una notte, Marco si sentiva meglio. Il clostridio lo aveva risparmiato, anche per quella volta.
Ma ora c'era Internet, e le cose non erano più semplici come una volta. Inoltre, dai e dai anche la cura del tetano doveva aver fatto qualche timido progresso. Un sito britannico dichiarava con orgoglio, chiaramente percepibile tra le righe, che ogni anno in tutto il Regno Unito non c'era più che un solo morto per tetano; un paio di siti francofoni erano meno chiari, parlavano ancora una volta, come la Treccani molti decenni prima, di prevenzione e vaccinazione, insomma roba così, ma fu sbarcando in America che Marco rivide il clostridio, stavolta in falsi colori, invecchiato certo, ma sempre in forma, e pronto a colpire.
Questi americani della miseria (altrui)! Ecco il loro tipico approccio, alla Pio X, domanda e risposta. Abbiamo la risposta a tutte le vostre domande! Le domande cui non trovate risposta sono sbagliate, non vanno fatte, non è educato. Poi c'è il numero verde, ma ti pare che uno può chiamare negli Stati Uniti per un buchetto nel dito medio della mano sinistra? Ecco, già: proprio questo è il problema. Il tetano viene per un problema da niente, che si trasforma in un dramma, in una catastrofe, se non altro sul piano personale. In generale, è un malanno un po' desueto, antiquato… Ma la verità è che il clostridio vuole proprio questo, sparire, esser dimenticato, per poi tornare in pompa magna, con una processione di addetti ai lavori, o meglio di addetti alla morte.
I senegalesi continuavano a discutere, ma dovevano essere arrivati ad una sorta d'accordo, perché adesso solo alcuni tra loro sembravano accalorarsi, ma con sempre minor convinzione. Quando passò loro accanto, sperava che lo ignorassero. Invece uno gli sorrise, e Marco, ritorcendogli una smorfia, pensò: "Cosa mi sorridi a fare? Non vedi che sono malato…" Uscendo dal punto Internet, si accorse che veramente lo era.
Star male all'estero, anche se l'estero è la Francia, che è il paese meno straniero di tutti per un italiano, è una di quelle evenienze che viene considerata come una delle peggiori sfortune, iatture se vogliamo parlar forbito, forbito dal punto di vista di uno scapigliato dell'800, mais quand même… C'è tutta una letteratura al proposito, quindi non mi dilungherò.
In realtà la faccenda è meno severa ed aggrondata di così: ci sono medici anche all'estero, e specie nell'Unione Europea, disponendo del famoso e mitico modulo E111, che doveva essere stato ispirato dalla famosa Autobianchi berlina, quella sfortunata creazione che era stata oscurata dalla propria sorella minore, si può disporre del servizio sanitario locale, sapendo, cosa che non manca di una certa attrattiva, che i testoni dell'EUR pagheranno per te.
Averlo, il modello E111! Marco non lo aveva, cioè l'aveva lasciato a casa, a Roma, che era proprio l'ultimo posto dove, data la stretta vicinanza con i suddetti testoni, esso poteva servire.
Doveva chiamare la mamma ed ottenere una fotocopia del modulo, ammesso che i francesi gliel’accettassero. Non era cosa da farsi a cuor leggero: come c’è lo sci estremo e l’estremo addio, sua mamma rappresentava l’ansia estrema. Estrema e totalizzante, invadeva ogni settore della vita, qualunque momento della giornata. Non lo faceva apposta, anzi cercava di limitarsi, ma era preoccupata a 360 gradi. Nella sua direzione di figlio unico, poi, l’ansia prendeva dei contorni grotteschi. Poteva chiamarla da una smorta cittadina del centro della Francia alle undici del mattino, tariffa ora di punta? (Non sapeva se esistesse ancora la tariffa ora di punta, quel terribile giallone del vecchio avantielenco SIP; in ogni modo, anche se era stata abolita, nessuno si era premurato di informarne sua mamma). Inoltre, si supponeva che a quell'ora stesse lavorando (aveva provato a spiegarle che il congresso iniziava soltanto al pomeriggio, ma sicuramente non era servito a niente). Doveva trovare una scusa: ma col pensiero fisso del clostridio, non era facilissimo.
Visitò un café e si sedette con una tazza fumante davanti, ed il secondo croissant di quella mattina: questo però lo trovò gommoso, ed il caffelatte acido, ma si rendeva confusamente conto di non essere obiettivo. Con che pretesto poteva chiamare sua mamma? Tra un sorso ed un altro, gli venne in mente che forse poteva spiegarle che gli serviva per entrare al congresso, perché aveva dimenticato il passaporto in albergo, questo era lontano e non c'era tempo per tornarvi, aveva bisogno di un documento per l'accreditamento e gli era venuto in mente quel modulo, che aveva anche l'intestazione in inglese. Sì, poteva andare, certo che poteva andare. In una cabina telefonica, compose il numero di casa. Sua mamma rispose subito al suo “Pronto” con un "Oh che sorpresa". Erano solo quarantotto ore che non si vedevano.
"Ti chiamo per un motivo urgente"
"Ah, pensavo…" disse delusa.
"No, mi fa piacere sentirti, è che qui non mi fanno entrare al congresso se non ho un documento"
"Te li hanno rubati?"
"No, sono qui in albergo, ma è lontano. Non è che mi potresti mandare il modello E111?"
"Come hai detto che si chiama questo modello? E…" sua mamma stava prendendo appunti. La vedeva, con la sua larga scrittura anellata, scrivere ben allineato sulla riga più alta disponibile, per non sprecare spazio nemmeno in un notes.
"E' nella mia stanza, nella valigia rossa"
"Vado subito a prenderlo"
Attese alcuni minuti, finalmente sua mamma tornò, e disse, come si aspettava: "Non è che starai spendendo troppo? Ti richiamo io, se vuoi"
"No, grazie, non c'è tempo. Hai trovato il modulo?"
Sua madre declamò, con la voce di chi ha appena inforcato un paio di occhiali: "Trattamento medico in Paese Comunitario"
"E' quello" sussurrò Marco "Dovresti mandarmelo per fax"
"Vado dal cartolaio allora"
"No, aspetta, devo darti il numero: rimani accanto al telefono, ti richiamo fra cinque minuti"
Tornò al punto Internet, dove i senegalesi lo accolsero come un vecchio amico:
"Je voudrais reçevoir un télécopie"
"Un fax alors" rispose uno di loro, che sembrava (ma forse non era) il gestore, con un largo sorriso.
Ecco qua: i francesi si sforzano di trovare il corrispettivo di tutte le parole inglesi, però non c'è competizione, a volte; in questo caso, nove lettere contro tre. Mezz'ora dopo, aveva la sua copia del modello E111 in mano. Ora si trattava di convincere l'ospedale che stava male, e che aveva bisogno dell'antitetanica, la sua non doveva essere scaduta, ma non si sa mai, si leggono di quelle storie sul giornale. Inoltre, il dito gli doleva solo a pensarci, anzi per dire il vero gli doleva solo quando ci pensava.
L'omino del bar dell'albergo, interrogato, gli disse senza esitare: "L'hôpital, c'est loin d'ici. Il faut prendre l'autobus. Mais" continuò illuminandosi "cinq-cent metres par là il y a l'Antenne Médicale"
Doveva essere una specie di pronto soccorso: beh, tanto meglio. Più facile avere l'iniezione, e poi tornare alla vita. In quel momento gli sembrava che la mascella iniziasse ad irrigidirsi. Strinse il fax e percorse i cinquecento metri: come sempre accade quando si cammina veloci con un foglio in mano, si alzò un vento perfido, ma Marco non lasciò scappare quella che gli pareva la sua unica possibilità di salvezza.
Arrivò e si sedette: c'era da aspettare. Un vecchietto lo accostò ed iniziò a parlargli. Gli raccontò senza esitare le sue malattie, infinite, e le medicine che prendeva. I nomi erano più o meno gli stessi che in Italia, e sembrava che il cocktail sortisse degli effetti dirompenti sulla sua parlantina, anche se non sulla sua salute. Riprendeva ogni volta con una frase completa, introducendo un nuovo malanno, od un nuovo rimedio, dopo lunghe pause, come un cavallo imbizzarrito od una macchina troppo fredda, da far partire a spinta. Esauriti i suoi mali, passò a quelli della sua famiglia. In un quarto d'ora, tanto durò l'attesa, mise Marco in uno stato di profonda ed assoluta prostrazione. Il vecchietto stava solo passando la mattinata, in un modo che, grazie all'Antenne Médicale, costava meno che andare all'osteria e permetteva di prendere meno umidità che su una panchina ai giardinetti. Mancavano pochi minuti a mezzogiorno, Marco temeva che non ce l'avrebbe fatta ad entrare, a ricevere l'iniezione salvifica, tanto più che il vecchietto era davanti a lui, e non si capiva perché si sarebbe dovuto astenere dall'aprire le cateratte del discorso anche davanti al medico. Sul dito medio, frattanto, la ferita non si vedeva più, ma Marco sentiva ancora uno strano dolore, che si spostava qua e là per la mano come una trottola impazzita.
A mezzogiorno meno due minuti il vecchietto entrò, e come in un giro di giostra dopo cinque minuti uscì, e con lui uscì anche il medico, un tipo grande e grosso con degli occhiali spessi ed un sorriso mai spento, ma mai acceso veramente, forse dimenticato da una vita precedente. Gli passò accanto, e lo guardò: "Trop tard, désolé, Monsieur, on reprend à deux heures".
Marco rimase costernato, e non sapendo che dire, replicò un po' automaticamente: "Mais c'est urgent"
E quello pulendosi gli occhiali nel maglione, poi, togliendo uno ad uno i peluzzi relativi, cosa che a Marco ricordò il trattamento della propria ferita di qualche ora prima, replicò pronto, ma apparentemente argomentativo: "Mon cher monsieur, si on a quelque chose d'urgent, on ne vient pas ici. On va à l'hôpital"
Quindi non era un pronto soccorso, chissà dove mai era capitato. Adesso non si trattava che di aspettare la riapertura pomeridiana, come l'occhialone gli indicava, levando due nodose ed anellate dita al soffitto.
Che fare? Un dito che fa male ormai per tutto il corpo, il morale a pezzi, la mascella in procinto di bloccarsi col rumore sordo di una frattura, e due ore da buttare in qualche modo, come se una volta che le abbiamo spese, qualcuno ce le rendesse. E andare all’ospedale? Già, per essere riconosciuto come un inguaribile ipocondriaco… E poi l’ospedale era, secondo la mappa, fuori città, e Marco sentiva le forze venirgli meno. Aveva bisogno di quell’iniezione in modo assoluto e totale. Sillabò quei due aggettivi ad alta voce, e si sentì leggermente più sollevato per qualche istante. Differì mentalmente l’ingresso intramuscolare dell’ago.
La Loira scorreva appena lì sotto, ed alle volte passeggiare sulla riva, molto lentamente come le sue gambe ormai flaccide consentivano, poteva aiutarlo; avrebbe respirato profondamente, sperando che le ganasce non gli cliccassero, preludio del loro fermarsi per sempre in una qualunque posizione, come un lucchetto. E se si fossero serrate sul chiuso, come si sarebbe alimentato? Va da sé che non erano pensieri che gli dessero voglia di mangiare, eppure sulla strada non c'erano meno di dieci tra ristoranti e birrerie, pure un paio di pizzerie, anche senza voler contare quel disperato dei panini greci e della crêpes alla Nutella.
Il fiume, anche senza pensare ai castelli, gli metteva una certa soggezione, semplicemente per la larghezza e la compattezza: il Po quando è largo sembra una selezione di una dozzina di fiumi ed altrettanti isolotti. Come confrontare un centone di motivi celebri con una melodia infinita.
Aveva piovuto, e il ghiaietto delle banchine era costellato di pozzanghere talmente minute che nessuna nuvoletta vi si affacciava. Un grande ponte sospeso da una serie di funi intricate, unite al sommo in un forte anello che si chiudeva nella volta, portava di là, in un antico sobborgo di case basse. Le funi gli ricordarono il cavetto del freno: Marco si aggrondò ancora, e tornò a guardare il dito medio, che gli sembrò, in un lieve riflesso autunnale, violetto ed enfiato. Solo dopo qualche secondo, si accorse che il dito violetto era nell'altra mano, non in quella offesa. Senza dubbio, era che il degrado, lo sfascio progressivo stava invadendo il suo povero corpo: sarebbe certamente morto, e in terra straniera. Sentì chiaramente lo sturarsi di un treno d'extrasistole, acceleranti quando dava loro retta, rallentate quando le trascurava. Si sedette, deciso a non far resistenza. In fondo, lasciarsi prendere era meglio che lottare. L'unica lotta è con noi stessi, ed è la più difficile.
Gli giunse all’improvviso, in quella resa senza condizioni, un vago ricordo, collegato ad una noce di cocco, che qualcuno doveva aver comprato quando lui non aveva più di nove anni. Sua nonna, pur sottilmente disapprovando l’acquisto, si era dedicata, in accordo col suo carattere, alla rottura del cocco con tutta l’energia possibile: era comparsa con un martellone ed un cacciavite lungo. Confusamente, riprendendo il filo dei pensieri, realizzò che doveva essersi inavvertitamente punto con la buccia del cocco, forse a quello stesso dito, ed inarcandosi all’indietro, come quella mattina; probabilmente per gioco, per vedere se senza guardare poteva tuffare la mano nell’acqua del lavello piena di pezzetti di cocco. Ed a quel punto sicuramente qualcuno, forse la stessa persona che aveva comprato il cocco, aveva nominato il clostridio: Marco aveva poi fatto ricerche, come già sappiamo, ed il leggero brusio dell’ansia era diventato un battito incessante.
La ricostruzione, per quanto confusa ed in bianconero, fece sì che lo sfiorasse il desiderio di esserne fuori, come che fosse. Essere fuori da una stanza, per far le boccacce a quelli rimasti dentro.
A filo d’acqua, un cigno stava raccogliendo pezzetti di pane dal pontile, e li inumidiva per poi beccarli, con quella vivida fatica che confina con la soddisfazione. Marco fermò improvvisamente i suoi pensieri e lo guardò aprire le ali indeciso, per poi richiuderle seguendo il capriccio del vento intermittente di quell’ora già calda. Prolungò l'attesa, e l'osservazione. Evidentemente al cigno non serviva inseguire il mondo per non perderlo di vista, o forse sapeva che tutto l'essenziale è racchiuso in quella conchiglia traslucida, che chiamiamo realtà sensibile. Per Marco però, dopo tanti anni passati ad inseguire degli scopi che non aveva raggiunto, questa era una sorpresa, lenta e probabilmente confortevole.
Erano ormai passate le due, e seduto sull'imbrecciato umido, in quell'ozio che sapeva tutti gli avrebbero rimproverato, ma che per lui era contemplazione, guardava svolgersi la tranquilla vita acquatica di quel tratto di fiume. A poco a poco, le extrasistole si placarono, ed il battito rallentò fino ad un ritmo normale: del dolore al dito non ebbe più traccia, anzi rilevò non senza sollievo che doveva aver sprecato ben lungo tempo a curarsene inutilmente. Il problema però, a ben vedere, non era il tempo, ma la cura nevrotica e malata. Sembrava che le immagini stessero finalmente scurendo, assumendo contorni netti. Aveva bisogno di quell'inatteso silenzio, che può arrivare in ogni momento, gli serviva riflettere. Forse tornare indietro, forse no.
Reclinò il capo, in quel che poteva essere riposo, e certo lo era. Avrebbe perso l'introduzione del congresso, quel vino frizzante servito con uno iato prestigioso, quelle tartine artisticamente effimere, ed ora la poca differenza che aveva accumulato quella mattina dall'uomo che dorme all'aperto nei sacchi di plastica, andava riducendosi a vista d'occhio. Gli restava qualche soldo in più, e la nevrosi: disfatta questa nel sonno, nemmeno gli altri gli sarebbero serviti ormai.
Il cigno non si affrettò, né si scompose: raccolse un altro quadratino di mollica, e lo tuffò con uno spruzzo verdastro.
©
Carlo Santulli
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Prefazione / Indice / Scheda
Ghigo e gli altri di Carlo Santulli
2007 pg. 204 - A5 (13,5X21) BROSSURATO
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Altre informazioni / L'autore
Pochi autori, come Carlo Santulli, sanno giocare con le parole, intarsiandole in piccole storie che si snodano tranquille (mai lente) attraverso una realtà quasi ordinaria e che, pure, riescono ad affascinare il lettore costringendolo a leggere fino all'ultima riga. Personaggi stupiti, a volte impacciati, si aggirano tra le pagine di questo libro, alle prese – come tutti noi – con le incongruenze e le follie del vivere quotidiano, non si abbandonano però all'autocommiserazione, non si ribellano, non cedono a tentazioni bohemien e, se cercano una via di fuga, questa è piuttosto interiore che esteriore. Un cammino, a piccoli passi, che li porterà, forse, verso un punto di equilibrio più stabile. Irraggiungibile (ma reale) come un limite matematico. Siano essi alle prese con una Quinta Arborea, un mazzo di chiavi che si trasforma nel simbolo di un'esistenza, un Clostridio tra i Pirenei, o passeggino, semplicemente, per le strade di una sonnolenta Roma anni trenta.(Marco R.Capelli)
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Ghigo e gli altri di Carlo Santulli
2010 pg. 200 - A5 (13,5X21) COPRIGIDA
Altre informazioni / L'autore
Pochi autori, come Carlo Santulli, sanno giocare con le parole, intarsiandole in piccole storie che si snodano tranquille (mai lente) attraverso una realtà quasi ordinaria e che, pure, riescono ad affascinare il lettore costringendolo a leggere fino all'ultima riga. Personaggi stupiti, a volte impacciati, si aggirano tra le pagine di questo libro, alle prese – come tutti noi – con le incongruenze e le follie del vivere quotidiano, non si abbandonano però all'autocommiserazione, non si ribellano, non cedono a tentazioni bohemien e, se cercano una via di fuga, questa è piuttosto interiore che esteriore. Un cammino, a piccoli passi, che li porterà, forse, verso un punto di equilibrio più stabile. Irraggiungibile (ma reale) come un limite matematico. Siano essi alle prese con una Quinta Arborea, un mazzo di chiavi che si trasforma nel simbolo di un'esistenza, un Clostridio tra i Pirenei, o passeggino, semplicemente, per le strade di una sonnolenta Roma anni trenta.(Marco R.Capelli)
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