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…bellissima
Se Nudo Antonio potesse raccogliere in una esclamazione la sua più sincera essenza, spremuta da una pienamente maturata esistenza, questa sarebbe «è bellissima!».
Figlio legittimo di tale Nudo Vittorino e tal Amodio Annarosa, visse quel tempo in cui si schiaffeggiava il mondo prima con l’artiglieria pesante di un cognome e poi, per rifinire, con la fanteria leggera del nome. Militaresca usanza di un’Italia a cavallo tra due rovine, in cui non si faceva in tempo a rassettare una guerra che subito se ne festeggiava un’altra.
Il padre Vittorino era di Ciottoli, precisamente Toscano, estesamente mezzadro, figlio di mezzadri, alias, sfruttato figlio di sfruttati che aveva deciso di portare altrove la sua vocazione di figlio d’arte.
Meta dei Nudi erano le dolci colline di Montelupo, paesino poco dolce delle Marche. Tempi di una bizzarra emigrazione al sud, favorita dalla terrena intercessione di un suo cugino, anch’esso mezzadro, che a Montelupo risiedeva da un ventennio e di quella un po’ più divina del parroco di una frazione limitrofa che possedeva una terra senza più badanti, visto che il precedente mezzo sfruttato di turno era ospite delle regie galere per presunti antimonarchicismi.
All’esodo avevano contribuito: primo, la malaria che s’era portata via due dei sette figli di Vittorino; seconda, ma non secondaria ragione, la fame, che come l’Arno in quei tempi cominciava a superare gli umani argini. Non che nelle Marche ci si aspettasse un Eden dimenticato, ma quando si sta per annegare ogni costa ti sembra un paradiso.
Alla terra Vittorino badava con Annarosa, consorte e madre dei restanti cinque figli di cui il penultimo era Antonio. Questo nome gli fu stampato in onore di Sant’Antonio, perché come amava ripetere Vittorino «così impara pure lui a resistere alle tentazioni» e a chi gli ricordava che a Montelupo di tentazioni ve n’erano veramente poche, ribatteva serafico: «le tentazioni non vengono a bussare, sei tu che te le vai a cercare».
Antò e fratelli crescono, Vittorino invecchia, Annarosa anche. La vita a Montelupo scorre immobile come sa fare solo nei paesi. Il nero va sempre più di moda e l’Italia decide che è inutile portare il lutto se non fai almeno una guerra. Così finalmente Antò va soldato, affidando vita, onore e speranze alle forti braccia del regio esercito, prestando servizio presso l’ospedale militare di Caserta, autista. Bene aveva fatto a falsificare i documenti d’identità, complice il podestà del paese che non gli pareva vero di poter dare un volontario alla patria causa (anche cavandolo a forza di sbianchettare da quel panaro di bolscevichi), lasciare la zappa per il più nobile moschetto, il borgo per la città, passare da mezzadro a mezzo eroe, sono ragioni più che sufficienti per portare Antò al settimo cielo.
La fortuna, non sazia, lo baciò ulteriormente concedendogli un Aquilante di tutto rispetto, la Fiat 1100, regia ambulanza militare, verde oliva, che aveva imparato a domare durante l’addestramento: sembrava nato per guidare quella e solo quella sirenante opera di ingegno meccanico. Fu persino decorato per aver arditamente zigzagato sotto una pioggia di bombe nemiche, salvando la vita di un tenente di nome Arturo Gabbiani.
Per fortuna i bombardamenti a Caserta in quel periodo erano rari, ma se hai diciotto anni (diciassette) e ti senti il re della 1100, non puoi coronare un così regale destino senza un altrettanto nobile amore. Difatti Antò si innamora, ma non delle baffute burine di Caserta che quando si usciva con i camerati si invitavano alla balera “Faccetta Nera”, non era di bocca buona lui che almeno una volta il cinematografo lo aveva visto e aveva una mezza idea di bellezza cellulosica da contrapporre ad una ben più dura realtà cellulitica!
Le sue aspirazioni si rivolgono ad una suora, non nel senso di un’educanda, nemmeno una novizia, una suora in piena regola, tonaca e cordone. Di una maturità giovane, con una voce calda che schiude sorrisi stanchi. E gli occhi color del saio che la incastonano in un’icona perfetta.
La sorella bersaglio delle poco fraterne attenzioni di Antonio presta servizio nel suo stesso ospedale. Un bel ragazzo, occhi azzurri e impertinenti, simpatico lui, suora lei, tra un rosario e un’occhiatina finiscono a letto. Letto per modo di dire, quanto avrebbe desiderato Antò quei covoni di fieno odoroso che ogni tanto vedevano ospiti inattesi rotolarcisi nei segreti mutismi della campagna! Ma come diceva il duce «il soldato italiano è il migliore del mondo perché sa adattarsi in ogni situazione...»
La fortuna, di orientamenti politici evidentemente più reazionari, decide di voltargli le spalle e i due vengono scoperti da una ronda della milizia. Fuori piove a dirotto. Lei denuncia lui per violenza carnale. Il giorno successivo all’arresto per Antò è già bello e pronto il processo, una pura formalità per mettere nero su bianco una sentenza scontata: pena di morte mediante fucilazione alla schiena.
Antò è simpatico e come tutti i simpatici, ha un mucchio di amici. Il tenente Gabbiani, quello del bombardamento, propone di non fucilarlo (grazie tenente) adducendo la tesi:«sarebbe troppo comodo» (troppo comodo?) e propende per mandarlo in un campo di concentramento alleato e uncinato che in quel periodo abbisognava di forti iniezioni di forza-lavoro, o meglio, di forzati al lavoro, difatti stava per divenire il campo principale di tutta l’Austria, con più di novanta sotto-campi alle sue dipendenze: Mathausen (grazie tenente).
Accettata la proposta, Antò fu imballato, ammanettato e caricato su un treno diretto a Bolzano dove si trovava un centro di smistamento prigionieri da concentrare, una specie di pre-campo per fare conoscenza. Ma Antò era nato con la camicia e non ci soggiornò neanche una notte: prese subito la coincidenza per l’Austria. Lo diceva Lui che i treni arrivavano in orario.
Appena superata la frontiera i tre vagoni carichi di occhi, freddo e odore di terra videro passare il paese di Ebence e subito dopo il grande lago su cui si specchiava. «Un paese bellissimo» pensò Antò «chissà se è tutto così?». Si sentiva fortunato, immaginava addirittura che la domenica gli avrebbero concesso di andare a pescare al lago.
Dal treno ne scesero più di un centinaio. L’arsura del viaggio li chinò tutti a mangiare la neve che si trovava sul ciglio della ferrovia. Faceva freddo, ma nell’aria c’era odore di arrosto. Tra di loro c’era un uomo che in quella regione aveva già combattuto la prima pazzia, e che continuava a ripetere: «in Austria per un pelo non ci rimettevo la pelle» ma poi, incoraggiato dall’odore di carne arrosto, «forse ora è meglio».
Quando, caricati sul camion, arrivarono in vista del campo, Antò pensò «qui non finisce mica bene». Era un enorme e pesante castello grigio con torri e filo spinato, cani e mitra. Poi l’enorme portone nero si aprì. Entrarono e videro fumo e montagne. Ad Antò ricordavano i covoni di cipolle quando era periodo di raccolta, solo che qui si coltivavano cadaveri. E prese coscienza che lui un morto non l’aveva mai visto fino a quel momento e che forse da ora in poi non ci sarebbe stata più differenza tra lui e quelle mille bocche che gli sorridevano.
Li tosarono, li spogliarono, poi la doccia, prima bollente, poi ghiaccia. Alla fine li stiparono in cameroni da cinquecento posti, per tre giorni.
Passati i tre giorni li vestirono di un cappello, solo un cappello. «A fare che, nudi con un cappello?» si chiedevano tutti. Saluti: dalle otto alle undici in cortile, nudi, a fare su e giù col cappello. In seguito Antò ebbe zoccoli di legno, brache e giacchetta a strisce con su un triangolo nero con la lettera I. La I stava per “Italiano” e il nero stava per “asociale”.
Quel giorno, mentre era in fila, sentì i due preposti alla vestizione litigare. Sui crucchi tutto si può dire tranne che siano imprecisi, motivo dell’alterco era: il triangolo di che colore glielo diamo?
Rosa era da scartare, in quanto non poteva essere omosessuale, visto il sacrilego crimine per cui era punito; il verde per i dissidenti politici e religiosi neanche a parlarne in quanto regolarmente iscritto al fascio e personale amico del podestà sbianchettatore; per giunta anche cresimato, il che lo sottraeva alla croce di David gialla; rimaneva il nero “asociale”, proprio lui che si vantava di essere un simpaticone.
Il resto fu fatica e freddo. Il freddo a Montelupo era uguale, ma allo stesso tempo non era lo stesso freddo. Quello austriaco ti entrava dentro la testa, nei pensieri, nei ricordi. Se poi ci si aggiunge anche il lavoro della cava, 3 anni a portare longarine pesantissime, ci si fa l’idea che la vera macchina della morte erano la fatica e il gelo. Le camere a gas erano solo un balocco dell’umana mostruosità rispetto alla clemenza di madre natura.
Ma Antò evidentemente non era caro agli dei, si salvò proprio grazie al freddo. Erano passati tre anni e si sentiva nell’aria che qualcosa stava cambiando, di SS non se ne vedevano quasi più in giro, i bombardamenti aumentavano e ormai la cava era distrutta. Quando lo chiamarono per la doccia sarà pesato trenta chili zuppo, a dire tanto.
Lo fecero mettere in fila davanti ai locali delle docce. Pensò: «è finita, peggio di così non può andare». Un kapò fece l’appello. Era un italiano e chissà cosa gli passò in testa visto che tradusse il suo cognome in tedesco. Quando sentì «nackt» il sottufficiale di guardia cominciò a ridere a crepapelle e rispose «yavol», «agli ordini» scattando sui tacchi. Così Antò si ritrovò a fare la fila nudo, in mezzo alla neve. Poteva andar peggio.
Di solito erano molto efficienti, ma quel giorno qualcosa non si trovava e il tutto durò più del dovuto. Il nostro anoressico spaventapasseri nella neve cominciò a camminare in tondo disegnando spirali nichiliste, fino a che non fu blu su sfondo bianco.
Ziklon B. 70 mg per uccidere un uomo. Ecco cosa non si trovava. Mischiato ad acido solforico come localizzatore. In principio era nato come diserbante. Ora in Germania non può più essere usata la parola Ziklon per nominare un qualsiasi prodotto. Veniva infilato dal tetto della stanza in un bocchettone per fuoriuscire dalla pigna della doccia. Chi si trovava sotto ci metteva pochi secondi: asfissia e poi convulsioni; chi si trovava lontano anche un minuto. Lo Ziklon B agisce sulla piccola porta che permette all’ossigeno di accomodarsi all’interno della cellula: niente porta, niente ossigeno.
Quello che era sfuggito alla guardia è che l’ossigeno entra in una cellula a seconda di quanto questa ne ha realmente bisogno, non ne entra più del necessario per la parsimoniosa natura; ma il necessario per una cellula al limite del congelamento è molto, molto poco, lo stesso fenomeno per cui gli sciatori vengono ritrovati anche a distanza di giorni, vivi, sotto le slavine.
I tedeschi avevano fretta e la fretta si sa è una cattiva consigliera. Portarono le carcasse fuori all’aperto, non c’era più neanche tempo per le fosse comuni. Dopo due giorni il sergente maggiore americano Shwarz, un polacco naturalizzato, si accorse che sotto il cumulo di cipolle c’erano due occhi enormi che lo seguivano.
Antò ci mette tre mesi per avere il permesso di lasciare l’ospedale da campo americano. Il permesso di lasciare i ricordi non sa a chi chiederlo. Parte con un vestito, un cappotto smesso di Shwarz e un pensiero fisso, un pensiero che l’ha tenuto a galla per tre anni in quel mare di freddo e merda.
Torna a casa. Montelupo sembra intatta, ma sua madre non c’è più. Sono rimasti solo il padre e un fratello, degli altri tre uno è morto in Africa e due sono partigianati e non ancora tornati.
Al piccolo cimitero, sulla tomba della mamma, cerca di pregare, ma è imbarazzato perché quel primo esercizio mentale non gli riesce più. Le parole affiorano per poi cadere subito in un baratro nero, si perdono dentro qualcosa che sembra senza fondo. Chissà cos’altro ancora non sarebbe stato più capace di fare.
Tanto per non darsi per vinto si mette a ripulire la tomba dall’erbaccia. Tutta bella linda spicca la lapide in quel piccolo cimitero di quel minuscolo sputo di paese; ma i morti sono tutti uguali e sentendosi un po’ morto anche lui, Antò si dà da fare per ripulire anche le tombe vicine: erbacce, sassetti, qualche carcassa di piccoli animali, ad una lapide che traballa mette uno zeppo... il cimitero comincia a diventare meno piccolo, ma lui per tutta la giornata non fa altro. Torna a casa la sera tardi, si ferma sull’uscio, neanche bussa, si volta e se ne va.
Antò c’aveva quell’idea da quando s’erano aperti per la prima volta i portoni neri: rivedere quell’unica donna che, dopo sua madre, aveva o credeva di aver amato, come se si fosse congelata, nel freddo, quell’ultima parte di umanità che lo teneva aggrappato al ciglio di un precipizio. Lasciare andare quell’idea sarebbe stato come lanciarsi contro i fili elettrici, e troppi ne aveva visti fare così.
Ad arrivare a Caserta, a piedi, Antonio ci mette due settimane. Qualche volta ha trovato un passaggio da qualche contadino che possiede ancora un carretto. Ha vissuto per strada facendo ogni tanto dei lavoretti, per mangiare, nei paesi che ha incontrato. C’è tanto da ricostruire e Antò s’è scoperto bravo ad organizzarsi il lavoro. Per lo più fa il muratore, sa incastrare le pietre, sa come fare la malta per i mattoni. Non rimane mai più del necessario.
A Caserta l’ospedale è semi distrutto, ciò che ne è rimasto è stipato di feriti. Nessuna faccia gli è familiare, di lui però si ricorda il capo-garage Vito Cannavacciuolo, un napoletano, quello che ogni turno gli dava le chiavi della Fiat 1100 e poi lo guardava fisso per cinque minuti, il tempo che Antò ci metteva a scrivere nome e cognome sul registro delle consegne. Cannavacciuolo gli dice che tutte le monache e i preti se ne sono andati, ora pensano a tutto gli americani. Della monaca però si ricorda, sa che si è trasferita in un convento in Calabria, clausura.
La prima cosa che Antò si chiede è «dove sta la Calabria?» e poi «che cos’è la clausura?»
Vito si rende utile per sciogliere almeno il suo primo dubbio «tu arriva al mare e poi svolta a destra, e vai sempre così»
«per quanto?»
«per tanto»
Antò si ferma a Caserta un paio di giorni, giusto il tempo di capire dove si trova il monastero.
Treni non ce n’erano ancora, se non per brevi tragitti, non che gli dispiacesse, non gli garbava più tanto il treno. Per cui, stessa storia, a piedi, qualche passaggio, lavoretti e qualche ruberia nei campi: l’Italia se la vide così. Pensò alla madre che non buttava via niente: un pezzo di spago, un bottone, un tappo, ogni pezzo minuscolo finiva ordinatamente nella scatola di alluminio Biscotti premiata ditta Caruso, regalo di cresima. Diceva sempre: «non si può mai sapè». Antò vide l’Italia come quella scatoletta di latta caduta in terra con tutto il suo tesoro di piccole speranze sparse in giro. E poi guardò le facce degli uomini e delle donne che c’erano attorno e capì che nessuno si sarebbe più chinato a raccogliere quei pezzettini di nulla.
Arrivò in Calabria sul quasi, ma non ancora Aspromonte. Qui c’era il convento dei Minimi di San Francesco di Paola e poco distante il paese di Valiano Calabro dove Antò trovò lavoro come aiutante in una tenuta. Ogni domenica andava alla messa che si teneva al convento. Di fronte all’abside c’era il palchetto del coro dove, da dietro una grata di legno nero, uscivano le voci delle spose di un dio troppo geloso. Antò sapeva che lei era lì dietro, ma sapeva anche che sarebbe stato impossibile per un bifolco ancora giovane avere contatti con quelle voci.
Si fece assumere dal priore come aiutante per i rifornimenti al convento: una volta alla settimana andava a portare tutto il necessario per il sostentamento. Seduto in cima al carretto copriva i venti chilometri che separavano il paese da quel portone. Tirava la corda che scampanellava il suo arrivo - e solo allora poteva aprire con la chiave che il parroco custodiva -, quindi accedeva all’androne buio su cui si apriva la finestrella di una seconda porta, lasciava i sacchi di cibo e le lettere, si voltava e richiudeva il portone, tutto nel più assoluto silenzio.
Per più di due anni Antò sbirciò occhi gratinati, senza mai perdere un appuntamento, settimana dopo settimana, nella speranza che succedesse il miracolo. E alla fine il miracolo avvenne il giorno di San Cristoforo: lo spioncino si aprì e loro si guardarono nel buio, dietro le grate. Pioveva. Proprio come quel giorno... Forse questa è l’unica cosa che avrebbero potuto dirsi, ma non fiatarono, non riuscirono a dirsi nemmeno questo.
Antò guardava quegli occhi color saio e non riusciva a vedere altro che una vita speculare alla sua. Una vita che se non era stata altrettanto dura, certamente era stata altrettanto insufficiente. Anche lei doveva aver avuto i suoi muri, i suoi fili spinati. In fondo le loro vite rappresentavano due volti di una stessa tristezza. Ma andava bene così, Antò non aveva nulla da recriminare. Non voleva mica qualcuno da incolpare…e di che? Della vita? Non era questo che l’aveva spinto fin lì. Lui voleva soltanto il finale di un racconto insopportabile rimasto sospeso in una spessa parentesi di ghiaccio. Guadare il fiume o rimanere seduti a guardarlo per sempre? Lui non aveva avuto dubbi: si era tuffato. Ma poi quanto tempo, quanta fatica per riconquistare la riva! E adesso si trovava al punto di partenza.
Non si dissero nulla, avrebbero voluto, avrebbero potuto, ma i suoni sarebbero finiti nel pozzo senza fondo delle parole perse. Ritornò a galla solo un attimo di tristezza. Da quel momento ogni decisione sarebbe stata autonoma e indipendente, i fili si erano spezzati e la libertà era arrivata con il suo bagaglio di solitudine, una cosa che in tutti quegli anni non avevano mai provato.
Indietreggiò, aprì portone. Fuori pioveva. E chissà perché, ascoltando la pioggia, tutto gli sembrò sorprendentemente più leggero. Indietreggiò e si richiuse il portone alle spalle. Era libero.
Oggi Antò è un ottuagenario che passa gran parte del suo tempo seduto sulla porta di casa a giocare a carte coi soliti amici. A volte però qualcuno nuovo si ferma e allora Antò racconta per l’ennesima volta la sua storia. Antò non si fa certo pregare. E quando alla fine puntualmente tutti gli chiedono:«Antò, ma ne è valsa la pena?» lui ha sempre una sola risposta:«Si chiamava Virginia, era… bellissima».
©
Guglielmo Perez
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