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Emma
di Marco Salvario
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Scendo prima che Roberto abbia fermato completamente la mercedes, spalancando la portiera e affondando con le scarpe nel fango, che lo strato di ghiaia non riesce a contenere. Indecise davanti al cancello, due vecchie vestite a lutto e nascoste sotto un grande ombrello da uomo, mi rivolgono un diffidente segno di saluto a cui non rispondo.

Le nuvole e la nebbia rendono il pomeriggio buio come la notte. Affrettando il passo e rischiando di scivolare sul marmo di una tomba, raggiungo la zona delle cappelle private. Ecco! Basta una spinta per aprire la porta di metallo dorato e per accertarmi che Emma non è più lì.

Colpisco la lapide con un calcio nervoso e comincio a cercare percorrendo il viale principale, poi a caso affronto il dedalo dei piccoli attraversamenti. Mi fermo e ascolto, ma gli unici rumori sono lo sgocciolare dell'acqua e il mio respiro affannato. Sto per rinunciare, quando la vedo o, almeno, distinguo qualcosa che il cuore mi dice essere lei. Un drappo nero madido di pioggia, posato contro una lapide di marmo: una tunica grezza che copre un corpo minuto e grigio, i capelli biondi, chiari come l'argento.

Mi chino su di lei, le allontano una ciocca dal volto, la prendo tra le braccia e la sollevo da terra. Il suo corpo leggero ha un tremito e, mentre la porto verso la mercedes, alza una mano e mi cinge il collo.

"Piccola stupida! Dove volevi andare?"

Mi stringe con energia ritrovata: "Mi avete abbandonata."

"Bugiarda! Roberto ha guidato come un demonio ed è ancora giorno!"

Ridacchia piano. La sua mano magra, dalla pelle sottile e solcata da vene azzurre, mi accarezza il volto.

"Roberto è un demonio!"

Cerco di baciarle le dita: "E io, io cosa sono?"

Non risponde: io sono un pazzo crudele e un criminale.

Roberto apre le portiere, preoccupato e sollecito.

"La ragazza sta bene, signore?"

Annuisco per rassicurarlo. Adagiamo Emma sul sedile posteriore e l'avvolgo con il plaid colorato che Roberto mi porge. Mi siedo accanto a lei, le bacio le labbra gelate, le strofino forte le braccia, poi dolcemente il seno.

La mercedes riparte, abbandonando il parcheggio paludoso. L'auto è un'isola tiepida in un mare ostile di nebbia e vento.

Emma appoggia alla mia spalla il peso abbandonato della testa. Le passo il braccio destro dietro la schiena e lei si lascia cingere, accoccolandosi in cerca di calore.

La prendo in giro.

"Da quando, ti svegli a metà pomeriggio?"

Lei mi osserva strana, dal basso verso l'alto.

Un'auto della polizia ci fa cenno di rallentare, poi di proseguire: un grosso ramo si è spezzato ed è caduto sulla carreggiata. Emma non si accorge di nulla. Si strofina al mio fianco, lentamente le sue mani mi scoprono la spalla.

Chiudo gli occhi, allontanando la vertigine: "Non puoi attendere? A casa, la mia cantina è ben fornita!"

Non aspetta. Un dolore alla base del collo, poco più acuto di una puntura, un rantolo come un lamento d'amore, poi la sua bocca succhia il mio sangue, avida come il neonato succhia il latte della mamma. Per me è un fastidio minimo, un pizzicore a cui presto mi abituo.

"Non hai pazienza", protesto rassegnato.

Meno di un minuto e si stacca da me, la lingua appuntita accarezza la piccola ferita.

"Scusami."

Note infantili nella sua voce e brillano nello specchietto retrovisore gli occhi di Roberto. Il riscaldamento dell'auto accentua l'odore umido e dolciastro del corpo d'Emma. La ragazza si abbandona ad una sonnolenza agitata e rabbiosa. Le allontano la testa, perché non mi morda di nuovo, e i suoi denti si chiudono sul plaid.

"Che bestiola affamata!", mormoro perplesso.

Una gattina a cui accarezzo con tenerezza i capelli umidi e morbidi, tenendo la mano lontano dalla sua bocca.

La voce di Roberto è brusca: "Siamo arrivati, signore!"

Quella che noi chiamiamo "la cantina": un seminterrato senza finestre. La porta è spessa e in grado di attenuare ogni rumore: quattro giri di chiave per aprirla.

Odore di muffa e sudore. A distanza regolare l'uno dall'altro, otto corpi nudi che, accecati dalla luce improvvisa, alzano le braccia a proteggere gli occhi.

Impaziente e aggressiva, Emma avanza a piedi scalzi: la tunica nera, scivolata su una spalla, le scopre un seno. Una giovane donna segue i suoi passi con occhi sgranati e terrorizzati, la bocca chiusa da un bavaglio, le braccia immobilizzate dietro la schiena e bloccate ad un anello nella parete. Una prigioniera che sto ancora educando alle regole del silenzio e della sottomissione in vigore nella cantina.

Emma l'esamina senza fretta e torna verso di me. Le sue iridi chiare, perse nel bianco dell'occhio, danzano curiose: "Chi è?"

"Si chiama Cinzia. Una tipa distratta, che ha sbagliato la fermata dell'autobus e ha fatto l'autostop alle persone sbagliate. Non è ancora pronta per te."

Emma annuisce e la osserva passandosi la lingua avidamente sulle labbra. Passa oltre e una giovane slava, i capelli lunghissimi, non riesce a trattenersi e mugola una preghiera stridula oppure una maledizione, arretrando fino ad urtare con violenza contro il muro grezzo.

La colpisco due volte col pugno: "Zitta!"

La zingara si rannicchia e piange. Non tollero le proteste e la punirò, quando Emma sarà andata via: le strapperò la pelle a frustate, aggiungendo nuovi solchi sulla sua schiena. Servirà di lezione a lei, a Cinzia e ai miei altri ospiti.

In fondo alla cantina, aspetta in ginocchio un ragazzo di una ventina d'anni e dai capelli rossi. Non parla italiano, solo qualche incerta parola, e non ho capito il suo nome, però è il mio prigioniero più ubbidiente e anche il preferito d'Emma. Ha scelto lui anche oggi, nonostante il suo corpo magro sia ancora provato da quando, la notte di sabato, si è cibata di lui con un'avidità che l'ha sfinito.

Acconsento con un cenno del capo.

Emma si siede sul pavimento e accarezza il viso del prigioniero con le dita sottili. Un gesto gentile e feroce perché le lunghe unghie, taglienti come rasoi, gli graffiano le guance. Due catene d'acciaio ne limitano i movimenti e io, in piedi davanti a lui, gli sono irraggiungibile.

Emma si libera della tunica e il suo corpo adolescente, dalla pelle lattea, brilla luminoso nella luce soffusa.

Il ragazzo la osserva affascinato: disegnato sul suo volto c'è un desiderio disperato ed un'accettazione del proprio destino, che mi commuove. Emma accenna un sorriso ed emette un suono doloroso che non si articola a diventare parola, mentre annusa il volto del ragazzo e ne stuzzica l'orecchio. Gli bacia gli occhi, lo cerca con tocchi minimi e vivaci che mi fanno sfuggire un gemito geloso. Morsi avidi sulle braccia, finché con una spinta lo costringe contro il muro.

Gli soffia sul collo scoprendo denti da lupa, scende verso il petto. È sulla mammella destra che colpisce, costringendo il ragazzo ha un movimento istintivo di ribellione. Mentre Emma succhia il sangue con un movimento ritmato, lui ha fremiti disordinati, sempre più deboli e prevedibili. Ne osservo tremare le gambe magre e inarcarsi la schiena, sollevando il pube dalla peluria fitta e arruffata, mentre il pene si gonfia in un'incerta erezione.

Senza interrompersi, Emma alza gli occhi su di me ed è uno sguardo che non so interpretare, dispettoso e bugiardo.

M'inginocchio vicino ai due corpi sempre più stretti, con Emma che avvolge la sua preda come ad inglobarla. Allungo la mano cercandole il ventre, ma lei la rifiuta, trascinando la preda più lontano e tendendo le catene che la imprigionano. I suoi denti stringono con più forza, allargando la ferita.

Resto immobile a contemplare la sua fame di donna/belva nel rito malvagio della nutrizione. Provo di nuovo ad accarezzarla e le sue unghie scattano cercando di ferirmi.

"Attenta! Sono io!"

Sono arrabbiato. I suoi occhi mi minacciano e alzo il braccio per colpirla, poi lo lascio ricadere. Emma in questo momento è forte abbastanza da scaraventarmi contro il muro e frantumarmi la schiena. Il sangue l'ubriaca e la rende selvaggia.

Mi alzo in piedi e aggiusto la giacca.

"Ingrata!"

Ho lasciato la cantina. Mi verso da bere due dita di Martini e la mano mi trema leggermente.

Roberto mi spia dalla porta e io lo aggredisco: "Che guardi? Cosa vuoi?"

"Il conte ha bisogno di me?"

"No, vattene!"

Bevo in fretta e mi gira la testa. Devo sedermi.

Amo Emma. E la odio.

Torno in cantina. La piccola vampira non c'è più. Sollevo la sua vittima esanime e le verso in bocca un sorso d'acqua. Inghiotte tossendo: non so se riuscirà a riprendersi. Accarezzo i capelli rossi, poi abbasso la testa e gli bacio il petto dove Emma lo ha ferito: "Bravo ragazzo!"

Allungo le catene perché possa stare disteso, dopo esco e cerco Emma, però senza trovarla. Anche Roberto è sparito. Guardo stanza per stanza, salgo al primo piano, ricontrollo dove ho già guardato. Nulla.

Cerco finché mi sporgo dalla balconata e li vedo nel parco, vicini contro un platano, abbracciati.

Emma e Roberto.

Penso che è impossibile, poi, molti gesti che recupero dai miei ricordi assumono un diverso valore. Silenzi e sguardi: sono stato ingannato e tradito da sempre, ho voluto non vedere!

Nella mia stanza impugno il fucile da caccia e controllo sia carico. Riempio le tasche di proiettili. Senza affrettare il passo, scendo in cortile.

Mi vedono e si separano, ma le mani restano unite.

Alzo il fucile: sono vicini e miro ad entrambi, ma il mio proiettile si perde tra i cespugli.

Li vedo ridere e correre via, aprire le ali nere (anche Roberto!) e alzarsi in volo. Sparo ancora, gli occhi bruciati dalle lacrime.

Ricarico il fucile e rientro nella villa.

Confuso, mi ripeto che ho perso Emma e non riesco ad immaginare come sarà ora la mia vita.

I passi mi portano nella cantina. Vedendomi, la zingara grida, isterica e disperata, e io mi fermo davanti a lei. A che servono ora i miei prigionieri? Nessuno ha bisogno del loro sangue.

Punto l'arma. La zingara sputa e m'insulta: parole rabbiose e inutili. Strappi isterici le fanno lacerare la pelle contro il metallo delle catene, finché riesce a serrare con la mano la canna del fucile. Premo il grilletto e lo sparo le devasta il ventre, facendo schizzare il sangue ovunque.

Il corpo agonizzante si dibatte cercando di trattenere le viscere dentro di sé. La osservo con indifferenza finché, per finirla, sparo mirando al volto e la sua testa esplode. Mi pulisco il volto da un frammento d'osso che mi ha colpito lo zigomo.

Cinzia, l'ultima arrivata, scalcia scomposta: ha vomitato nel bavaglio e ora affoga nel proprio rigurgito. Una bava gialla e verde le cola dalle narici.

Urlo agli altri prigionieri: "Non mi servite più, la cantina chiude! Siete morti!"

Sento dei passi all'ingresso e mi giro, sperando che sia Emma. Invece è Roberto.

Urlo sdegnato: "Tu, traditore!"

Non faccio in tempo ad alzare il fucile, perché me lo strappa di mano.

"Vuoi uccidermi? Uccidimi!"

I suoi occhi brillano irridenti e butta l'arma lontano: "Ucciderti?"

Glielo ringhio contro il perché: "Per Emma!"

Mi fa segno di no: "Emma ti ama."

"Lei è come te, della tua razza."

Mi guarda con compatimento: "Non può che essere della mia razza: è mia figlia."

Cinzia è riuscita a far scivolare in parte il bavaglio e il suo vomito zampilla a terra e sul suo corpo, ma non può ritrovare il respiro. Scoppio a ridere isterico. Roberto mi prende in giro? Il ridere è doloroso e si blocca improvviso com'è iniziato. Emma è sua figlia.

La mano di Roberto mi stringe la spalla e le mie ossa scricchiolano: "Emma ha solo giocato con te, non ha avuto il coraggio di trasformarti in quello che noi siamo."

Cerco di dominare il dolore e di resistere alla pressione: "Io voglio essere come voi!"

"Sei sicuro?"

Non esito: Emma è tutto per me e io voglio essere degno di lei.

"Sono sicuro!"

Mi abbraccia e stringe il suo corpo contro il mio. La sua bocca mi morde sul collo e il dolore mi fa gemere e piangere. Mi succhia il sangue e forse anche la vita.

Prima di svenire, una voce esplode dentro di me e mi grida che domani potrò accompagnare Emma nel suo mondo di morte e rinascita.

© Marco Salvario





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