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Con un filo d'erba tra i denti
di Antonio Carnuccio
Pubblicato su PBSA2021


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Con un filo d'erba tra i denti

Il giorno in cui a Tommaso Trupìa fu diagnosticato il cancro, era di maggio. Un cancro allo stomaco a lui che era stato da sempre vegan. I medici non glielo spiattellarono subito in faccia e, tergiversando, gli chiesero se potevano parlare con qualche suo parente. Ma egli rispose che non aveva uno straccio di parenti prossimi e che voleva sapere subito, lì su due piedi, la verità. Uscito dall’ospedale, inforcò la bici che aveva legato alla cancellata e via. Non era un possessore di auto. Il verbo ambientalista, che indica l’uomo come cancro del pianeta e la natura come la dea Gaia da adorare, era stato, sin dall’Università, il suo faro. Raggiunse la sua reggia in campagna: ingresso-soggiorno con camino, un ampio studio e la stanza da letto. Nello studio appeso a una parete un poster con l’inno orfico: “Natura, tu madre di ogni cosa! Dea che tutto agiti,//antica, che sempre crei... //Eterna forza primordiale,// tu solo creatrice di tutto”. Una fede nella Natura intesa come un “Tutto” organico e vivente animato dalla misteriosa presenza del Divino che egli conciliava con la sua fede cattolica. Una sorta di sincretismo religioso che andava sotto il nome di New Age, nato negli USA e poi attecchito anche nell’Europa occidentale a cavallo tra gli anni sessanta e settanta. Si era formato una filosofia di vita che gli aveva permesso di vivere in pace con sé stesso e con il suo prossimo e in armonia con la Natura.

Vide il bastardo, pardon, il meticcio Lapo, disteso sulla soglia di casa, che alzò a malapena il capo mugolando un neghittoso sbadiglio; vide, mentre apriva il cancello, una coppia di lucertole in calore che si rincorrevano sul muro di cinta. Loro, cane e lucertole, bestiole gentili e, beate loro, spensierate, se ne strafottevano se una lercia bestia avrebbe divorato lentamente Tommaso Trupìa o se era lì lì per schiantarlo in una giornata di primavera. E il mandorlo, il pero, il melo, il melograno, l’albicocco, l’amarena, l’arancio, il limone, tutti in festa. Ma chi dovevano festeggiare? Lo sapevano o non lo sapevano che egli aveva i giorni contati? E il giardino? Ah, il roseto imperlato di rugiada al mattino e il suo profumo imperiale! Lo sapevano o non sapevano le sue rose che sarebbe stato sopraffatto dal male e dopo la sua scomparsa anch’esse sarebbero scomparse, sopraffatte da un roveto? E volle illudersi che una mano gentile le avrebbe colto per fare gentile il pezzo di terra sotto il quale tra qualche mese (o giorni?) avrebbe cominciato a dormire, nudo, per sempre. E i gelsomini con il loro piccolo bianco dall’effluvio stordente, avidi di luce? Lo sapevano o non lo sapevano che lui a giorni o tra qualche mese, sei al massimo, non avrebbe mai più rivisto la luce? E pensò che loro non temevano, come le rose, la mancanza di cura da parte dell’uomo. E le macchie d’oro, e quelle verdi, e quelle bianche dei fiori campestri. Rigenerante visione! Ma lo sapevano tutti quei fiori o non lo sapevano che quella era per lui l’ultima stagione che lo gratificavano della loro bellezza? E quel campo tutto di cardi – li mangiava ogni giorno lessi con olio e limone – screziato dal rosso carminio dei papaveri a sfidare intrepidi sul fragile stelo la loro prepotenza! Sarebbe stato lui, Tommaso Trupìa, intrepido, se non nello sfidare il suo terribile e invincibile nemico, affrontarlo almeno con dignità? E la babele di voci nell'aria che cessava alle prime ombre della sera quando il timido allocco intonava il suo canto d'amore notturno? Trupìa sapeva imitare la sua voce alla perfezione e lui, l'allocco, gli rispondeva e si avvicinava posandosi sul grande ulivo vicino casa e il duetto continuava fino a che egli non si addormentava sulla sdraio. Lo sapeva o non lo sapeva l'allocco, che si faceva prendere in giro come un allocco, che un giorno o l'altro, egli, Trupìa Tommaso, non l'avrebbe mai più preso in giro? Nel raggio di un paio di chilometri non c’erano altre case. Di notte il silenzio era gravido di vita a differenza di quello cittadino foriero di insidie: ma lo sapevano o non lo sapevano i cari notturni rumori campestri che sarebbe presto arrivata la notte in cui non li avrebbe più ascoltati per sempre? E le voci del vento? Esse l’ammaliavano di notte trasportandolo nel suo paese d’infanzia, scordato. Che voce avrà la Parca quando lo chiamerà? Forse la sua voce si mischierà a una delle tante voci del vento per non spaventarlo. E il cielo stellato che era il suo soffitto notturno da giugno ad agosto? Lo sapeva o non lo sapeva che egli era nato sotto una cattiva stella? Si distese sulla sedia a sdraio con un filo d’erba tra i denti, sotto l’ulivo che egli aveva piantumato trentacinque anni fa in coincidenza con un evento che l’avrebbe scaraventato in un'insensata condizione esistenziale. Scrutò la pianura dai colori cangianti fino al sempreverde della boscaglia che s’allungava per qualche chilometro in larghezza e qualche centinaio di metri in altezza formando un promontorio. Da sempre, al crepuscolo, nella bella stagione, separatosi dalla sedia senza braccioli della scrivania e dai ponderati tomi di scienze naturali o dal piccolo laboratorio di entomologia, si lasciava disorientare, lì adagiato, dal friggìo delle cicale che scemava col declinare della luce fino a cessare quando arrivava il buio cricchiante dei grilli.

Per molti era stato un uomo eccentrico. Ma egli era stato il più valente professore di Scienze naturali nella storia del Liceo Scientifico della sua cittadina. Ora in pensione gli mancava il contatto con gli studenti, ma era comunque contento di poter dedicare tutto il tempo ai suoi studi vivificandosi al lume della scienza da cui traeva l’unico piacere. Altri piaceri egli non conosceva: non quello del cibo, era parco; non quello dell’alcol, era astemio; non quello dell’eros. La moglie. Mai aveva tradito la sua memoria con altre, mai. Per dire adeguatamente del suo amore per la moglie, anche dopo morta, dovrei chiedere a un mio amico medium di mettersi in comunicazione con Petrarca che suggerisca le parole, le più degne.

Anche quel lontanissimo e vicinissimo giorno era come oggi, il 17 di maggio, venerdì, ricordò Tommaso Trupìa inquietandosi un poco per la coincidenza, ma ristabilendo subito il primato del logos sul fascino dell’irrazionale. Quel giorno, era al tramonto, rientravano dal viaggio di nozze a bordo di una Fiat 850: la morte aspettava al crocevia dell'entrata in città dove, sotto le sembianze di una Bmw nera lanciata a folle velocità, si portò via la sposa. Lui ne ebbe per tre mesi in ospedale. Il giovane assassino non fece nemmeno un’ora di carcere. Lui invece visse per anni dall’alba al tramonto e dal tramonto all’alba dentro una prigione in compagnia di uno sciame ronzante di fantasmi che impedivano qualsiasi libertà e autonomia di manovra alla sua psiche intorpidita dalle paure. A stento riemerse dal fiume vischioso del male oscuro non ad opera di psicoterapeuti, analisi e lettini – diceva – ma grazie a un giovane prete, figlio di un suo collega e fraterno amico, che lo affidò al vero terapeuta dell’anima: Gesù. Il prof. Tommaso Trupìa consegnò il proprio dolore a Cristo, a quel Cristo che muore senza mai finire di morire, per darci la vita. Ora il pensiero dell’incombente bestia che l’avrebbe ridotto a una larva prima di annientarlo tra atroci dolori lo stava precipitando in una disperazione più acuta e brutale di quella vissuta tanti anni fa e percepiva quella sofferenza della psiche come un’eco quasi dolce rispetto alla prospettiva terrificante della sofferenza fisica. Guardò l’orologio, era mezzogiorno passato, si ricordò che non aveva cucinato la mattina prima di andare in ospedale a ritirare l’esito delle analisi, ma non aveva per niente fame. Si alzò dalla sdraio, fece un giro d’ispezione nel giardino, accarezzò i fiori come si accarezza la testa di un bimbo, perlustrò il piccolo orto biologico, abbassandosi per osservare le piantine di pomodori, melanzane, peperoni, zucchine. Entrò in casa, prese una bottiglia d’acqua fresca e andò a sedersi di nuovo sulla sdraio con un nuovo filo d’erba tra i denti. L’intera pianura entrò nel suo campo visivo con tutte le sue sfumature; poi piano piano ogni dettaglio cominciò a sfocare alla sua vista, il torpore fluì nelle sue fibre, reclinò la sdraio e prese a galleggiare nel mare dell’azzurro qua e là sfrangiato da cirri, perdendovisi: l’accolse il conforto del sonno.

Cominciò col calpestare un formicaio, cosa inaudita per lui, poi a picchiare il cane, smise di curare il giardino e l’orto, gli appariva ributtante la felicità degli uccelli, avrebbe volentieri torto il collo a tutte le piche che con i loro orridi gracchi pareva volessero irriderlo, lanciò la sdraio oltre la siepe di recinzione e mandò a quel paese il riposo estasiante del crepuscolo e al diavolo la raccolta differenziata insieme alla dea Gaia, non gli interessò più il cielo stellato sopra di sé e affogò la coscienza morale dentro di sé. Dei libri fece un bel falò in giardino e distrusse il piccolo laboratorio. E adesso che c’era, avrebbe dato fuoco alla casa e a tutto. No, non poteva farlo: c’era l’ulivo vicino alla casa e quell’albero era sacro; l’aveva piantumato dopo la tragica fine della moglie, a sua memoria. Tommaso Trupìa era diventato preda di quell’egocentrismo di chi è posseduto dal male incurabile e pensa che questo suo male sia il centro del mondo e pretende che tutti gli esseri animati e inanimati siano sue appendici. Altrimenti non ha senso che esistano sulla faccia della terra. Da sei mesi a un anno di vita, era stata la previsione dei medici. Bene, d’ora in avanti – decise – si sarebbe concentrato in maniera totalizzante su un progetto che avrebbe portato a compimento entro il termine di sei mesi. Stabilito il piano, diede inizio alla sua attuazione. Si mise in movimento per comprare un’auto usata: l’auto avrebbe funto come il classico specchietto per le allodole. Ma non guidava da più di trent’anni e per il rinnovo della patente dovette rifare gli esami di guida. Ed era già passato un mese. Dopo l’acquisto di una vecchia Panda, si recò con la stessa nei giorni seguenti nel Capoluogo. Doveva comprare un’auto nuova. Tra gli autosaloni scelse quello più conosciuto e di più antica data, e con l’esclusiva del marchio Bmw, le macchine più affidabili del mondo, sentenziò il ragioniere Biagio, titolare della concessionaria, mentre gli illustrava i pregi dell’ultimo modello. Tommaso Trupìa gli chiese en passant se si ricordava di lui. Il ragioniere Biagio rispose di no. “Bene, bene!” disse tra sé Trupìa, che si era presentato sotto falso nome. Quell'uomo che ora gli stava davanti non aveva compiuto ancora la maggior età quel giorno in cui, correndo come un pazzo alla guida della Bmw aveva ucciso la moglie. Erano passati trentacinque anni. Il professore si disse convinto di comprare una Bmw anziché una caccavella della Fiat, e all’atto di andarsene chiese al ragioniere Biagio qual era il giorno più tranquillo per perfezionare con calma l’acquisto. Il ragioniere gli fissò l’appuntamento per il giorno precedente la chiusura per ferie, il 17 luglio, venerdì. Questa volta gli corse un brivido per la schiena… ancora il 17, ancora un venerdì. No, non gli importava nulla di nulla: questa volta quel giorno sarebbe stato infausto ma non per lui. Tommaso Trupìa in seguito passò un paio di volte dall’autosalone con qualche scusa e intanto che il titolare parlava con i clienti egli, fingendo di esaminare le auto esposte, esplorava con lo sguardo ogni angolo del salone. Gli occhi gli caddero su una sbarra di ferro col gancio che serviva ad abbassare la saracinesca dell’ufficio-vendite.

E arrivò il fatidico giorno. Tommaso Trupìa giunse all’autosalone prima del tramonto. Parcheggiò nello spiazzo antistante il cancello d’entrata. Nell’ufficio c’era un cliente. Nell’attesa, appoggiato alla sua auto con le braccia conserte e con l’aria da svagato, adocchiava il ragioniere Biagio: un uomo minuto dagli occhietti furbi e cattivi – così gli parvero quando lo vide dopo tanti anni la prima volta – dalla peluria rossiccia, mezzo calvo, un po’ malmesso per la sua età. Per quanto odioso, è sempre un essere umano anch’egli capace… e se è malato anche lui? magari di cancro... si chiese Trupìa, ma con un gesto di fastidio della mano interruppe la sua riflessione scacciando l’incipiente empatia per quell’uomo. Il sole scendeva con esasperante lentezza. Lì, senza un albero, il caldo era ancora più affocato. Tommaso Trupìa rimaneva immobile chiuso nella sua corazza che aveva preso a indossare qualche giorno dopo che gli era stato diagnosticato il male. All’improvviso desiderò di trovarsi a casa e cercò di muoversi per andare via, ma la pesantissima corazza glielo impedì. Lo avviluppò un’ansia gelida e cominciò a sudare freddo. Un barbaglio proveniente dal parabrezza di un’auto lo colpì. Si scosse. Il ragioniere si sporse dalla finestra dell’ufficio invitandolo ad accomodarsi. Si guardò intorno. Come un automa si condusse all’ufficio. Varcata la soglia, guardò nell’angolo destro: la barra di ferro era al suo posto. Domandò al ragioniere Biagio se aveva ancora appuntamenti con altri clienti; il ragioniere, che era seduto, rispose di no. Il professore chiese un bicchiere d’acqua fresca, aveva la gola secca, e intanto rimaneva in piedi. L’altro si girò sulla sedia voltandogli le spalle per prendere l’acqua dal frigorifero e in quella Tommaso Trupìa afferrò fulmineo la sbarra di ferro e gliel’affondò sul cranio. Corse alla sua auto, prese la tanica di benzina, rientrò nell’ufficio e la sparse sulle pareti e poi su quel corpo steso lordo di sangue sul quale buttò un fiammifero acceso. Mentre metteva in moto l’auto: “E che, pensavi di farla franca? Bastardo assassino!” gridò con voce strozzata Tommaso Trupìa, svegliandosi nel contempo all’abbaiare di Lapo scodinzolante vicino al cancello. Si tirò su dalla sdraio, madido di sudore, sputò il filo d’erba insieme al brutto sogno, andò ad aprire al suo fraterno amico. Il sole stava per scavalcare il promontorio.

© Antonio Carnuccio





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